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L’attentato alla Questura di Milano. Le dichiarazioni di Vincenzo Vinciguerra

Redazione Spazio70

La tredicesima parte di una serie di articoli di approfondimento sulla strage di piazza Fontana

Negli anni Novanta a parlare di Zorzi sono diversi personaggi che in passato hanno avuto un ruolo nell’ambiente eversivo dell’area neofascista. Le dichiarazioni più interessanti provengono da ex ordinovisti come Vincenzo Vinciguerra e Carlo Digilio. Il primo aveva già avuto modo di parlare di Zorzi negli anni precedenti. Autore reo confesso della strage di Peteano, dopo un periodo di latitanza si costituisce spontaneamente alle forze dell’ordine nel 1979. Pur non essendosi mai pentito, Vinciguerra prende le distanze dagli ambienti della destra eversiva italiana denunciandone la collusione con gli apparati dello Stato comunemente definiti «deviati». Un tradimento considerato inaccettabile da parte di chi questo Stato ha deciso di combatterlo. Secondo le dichiarazioni di Vinciguerra, nei primi anni Settanta i camerati veneti Delfo Zorzi e Carlo Maria Maggi gli avrebbero proposto di uccidere l’onorevole Mariano Rumor e di farlo con la complicità degli uomini della scorta. Quest’ultimo dettaglio, evidente legame tra Ordine Nuovo e i vertici delle forze di polizia, è la causa dell’abbandono dell’area neofascista da parte di un militante che non intende scendere a compromessi con il sistema, neppure in nome dell’anticomunismo. Ma perché uccidere Rumor? Qual è il significato di tale obiettivo? La risposta che fornisce Vinciguerra è strettamente correlata alla strage di Piazza Fontana. Esisterebbe un’intima connessione tra l’eccidio del 12 dicembre 1969 e l’attentato alla Questura avvenuto quattro anni dopo.

UNA GRANATA ISRAELIANA CONTRO LA QUESTURA DI MILANO

Gianfranco Bertoli

Milano, 12 maggio 1973. In via Fatebenefratelli, presso gli uffici della Questura, si sta svolgendo la cerimonia commemorativa per il primo anniversario dell’uccisione di Luigi Calabresi, il commissario che in quei drammatici giorni di dicembre del 1969 indagava sulla strage di Piazza Fontana. Tra i presenti invitati alla celebrazione figurano autorità di rilievo come il Ministro dell’Interno Mariano Rumor, il capo della Polizia Efisio Zanda Loy e il primo cittadino Aldo Aniasi. Poco dopo aver scoperto il busto del commissario, la commemorazione volge al termine. I primi ad abbandonare il palazzo sono il Ministro Rumor e il capo della Polizia mentre il sindaco si dirige in cortile assieme ad altri funzionari. Oltre le mura dell’edificio, una piccola folla di curiosi è accalcata in prossimità del portone con l’intento di scorgere qualche personaggio famoso al momento dell’uscita. Tra quelle persone c’è anche un signore con la barba, appena sceso da una Fiat 1100 di colore nero che è subito ripartita con altre persone a bordo.

L’uomo non è giunto lì a mani vuote e d’improvviso scaglia una granata di fabbricazione israeliana verso l’ingresso della Questura. L’ordigno colpisce un angolo del portone per poi rimbalzare tra la folla. L’esplosione provoca un massacro. In un attimo il marciapiede si ricopre di sangue. C’è una crisi di panico generale: pianti, lamenti, grida di terrore. Una donna è morta sul colpo, ad altre tre persone, a breve, toccherà la stessa sorte. Il drammatico bilancio finale è di quattro morti e cinquantadue feriti. L’attentatore viene subito arrestato, grazie anche ai passanti inferociti che si scagliano contro di lui. Si chiama Gianfranco Bertoli, ha quarant’anni e si definisce un anarchico individualista. Poco dopo l’arresto dichiara che il suo intento era quello di uccidere il Ministro Rumor e vendicare la morte di Pinelli, aggiungendo di essere sia il mandante che l’esecutore dell’azione. Le varie federazioni anarchiche, tuttavia, condannano il gesto all’unanimità e prendono le distanze da Bertoli che risulta dunque un militante isolato.

Nel 1975 il terrorista viene condannato all’ergastolo e anche se per lungo tempo continuerà a essere considerato un «anarchico», alcune controversie in merito a sospette frequentazioni con neofascisti e servizi segreti, getteranno non poche ombre sull’autentica natura di quel personaggio. Nel 2002, il generale Pollari (ex direttore del SISMI) affermerà davanti ai giudici che Gianfranco Bertoli era un ex informatore del SIFAR e del SID (nome in codice «Negro»).

LO STATO DENTRO UNA REALTÀ ANCORA PIÙ GRANDE: LA NATO

Secondo Vincenzo Vinciguerra, la strage alla Banca dell’Agricoltura del 1969 fu sostanzialmente un’operazione fallita. La bomba non avrebbe potuto far scattare lo stato di emergenza, non direttamente, ma avrebbe invece dovuto creare il terreno necessario per un’imponente manifestazione di piazza che si sarebbe dovuta tenere a Roma due giorni dopo, il 14 dicembre 1969. Una grande manifestazione del MSI per protestare contro «le bombe comuniste». A un contro-corteo avrebbero dovuto prendere parte alcuni agenti provocatori infiltrati nei gruppi di sinistra. Costoro avrebbero dovuto sparare provocando morti tra i manifestanti inermi. A quel punto, la stessa opinione pubblica avrebbe richiesto l’intervento immediato di un governo forte e autoritario. Tuttavia, la manifestazione non ebbe luogo poiché fu impedita da due politici che si opposero alla costituzione di uno stato di emergenza: Mariano Rumor e Aldo Moro, entrambi successivamente finiti nel mirino dei servizi segreti collusi con gli apparati dello Stato. Dopo Vinciguerra, la scelta per colpire Rumor sarebbe quindi ricaduta sul finto anarchico Bertoli e Ordine Nuovo rappresenterebbe a tutti gli effetti uno strumento nelle mani di uno Stato che a sua volta si fa veicolo di una realtà ancora più grande: la Nato.

Vincenzo Vinciguerra intervistato da Sergio Zavoli per la trasmissione RAI «La notte della Repubblica»

Dopo la pista anarchica e la pista nera, Vinciguerra propone esplicitamente la «pista atlantica». Secondo questa teoria non esisterebbero autentici movimenti neofascisti poiché i gruppi eversivi della destra radicale italiana rappresenterebbero a tutti gli effetti dei «centri di diversione strategica», formazioni gestite in occulto proprio dallo Stato, la cui violenza stragista sarebbe funzionale alle manovre politiche anticomuniste del patto atlantico. L’ideatore della strage di Peteano, che si ritiene estraneo alla violenza ai danni dei civili e rivendica l’attentato ai tre carabinieri come atto di guerra contro lo Stato, parla al giudice Salvini denunciando l’attività dell’Aginter Presse di Guerin Serac, una misteriosa agenzia con sedi a Lisbona e a Parigi.

«L’organizzazione camuffata da Aginter Presse in Portogallo e da Rosa dei Venti in Italia, quella che sparge terrore sotto la sigla Oas in Francia e che predica la distruzione del sistema in Ordine Nuovo in Italia, non è altro che l’organizzazione per antonomasia, è l’organizzazione Nato».

Tale oscura società, che avrebbe avuto legami sia con Ordine Nuovo di Freda e Zorzi, sia con Avanguardia Nazionale di Stefano Delle Chiaie, sarebbe artefice di una campagna di «azione e disinformazione» strutturata su più livelli, dal depistaggio all’inserimento di agenti provocatori nelle formazioni politicamente avverse. In tale ottica non stupisce affatto la ferma decisione degli inquirenti di seguire, nel 1969, la pista anarchica come unica via possibile per risalire ai colpevoli. Una guerra non convenzionale sarebbe dunque stata messa in atto in Italia dalla più grande entità geopolitica del globo, quella che ha il totale controllo del blocco occidentale del pianeta: Gli Stati Uniti d’America, con la servile complicità di alcuni forti elementi dei servizi segreti italiani e della potente Loggia P2.

Questo è il disegno criminale che secondo Vinciguerra sarebbe alla base della strage di Piazza Fontana. Egli tuttavia, non è un pentito né tantomeno un semplice dissociato. La sua intenzione non è quella di collaborare con le istituzioni: anzi, lui afferma di essere in guerra contro lo Stato e di continuare a combattere le proprie battaglie anche tra le mura di un carcere. Le ammissioni di responsabilità, le rivelazioni sulla destra eversiva e le dichiarazioni in merito ai legami tra sedicenti neofascisti e organi istituzionali, per Vinciguerra non rappresentano delle confessioni bensì un modo per mettere in luce le colpe di chi si è macchiato del più grave di tutti i reati, quello del tradimento. Il tradimento di un’idea. Non ci si può alleare con i propri nemici. La minaccia sovietica non è una motivazione sufficiente. Un fascista, in quanto tale, è avverso tanto al comunismo quanto alla democrazia capitalista. Non esistono mali minori, non esistono compromessi, men che meno con chi decide di ammazzare civili innocenti per consolidare il proprio potere. Come reazione a un tale scenario, Vinciguerra afferma di voler parlare e riempie intere pagine di verbali. Tuttavia, lo fa in modo parziale, discontinuo, soltanto in base a ciò che ritiene opportuno svelare. Non chiede sconti di pena, non ne vuole. Sfidando le condanne per reticenza l’ex terrorista non si esime dal fare scena muta dinnanzi a questioni che non intende affrontare.

In merito a Zorzi, Vinciguerra non ha dubbi e i rapporti tra l’ordinovista e alcuni organi dello Stato sono sostenuti anche da Martino Siciliano:

«Eravamo ‘coperti’ da funzionari del Ministero dell’Interno in occasione del nostro viaggio a Trieste per essere interrogati dal Giudice sull’attentato alla Scuola Slovena. Poiché l’Ufficio mi fa il nome del Viceprefetto Sampaoli Pignocchi quale contatto di Delfo Zorzi al Ministero, accertato giudizialmente anche attraverso le dichiarazioni di Federico Umberto D’Amato dinanzi alla Corte d’Assise di Venezia nel 1987, rispondo che effettivamente ricordo il nome Sampaoli come quello di un funzionario del Ministero dell’Interno in contatto con Delfo Zorzi; questo nome mi fu fatto nell’ambiente mestrino di Ordine Nuovo non dallo stesso Zorzi, bensì da Maggi, Molin e da Bobo Lagna. In particolare quest’ultimo mi fece cenno al nome Sampaoli come una delle persone che lui e Zorzi frequentavano a Roma allorché anche Bobo Lagna si era iscritto all’Università. Nello stesso contesto Lagna mi disse che sempre a Roma frequentavano il professor Pio Filippani Ronconi, esperto di dottrine esoteriche e orientali e di cui Delfo Zorzi mi regalò due dispense appena pubblicate sulla filosofia induista».

Dal «Corriere della sera» del 23 febbraio 1975: «Francesco Bertoli, il padre ottantatreenne di Gianfranco, l’uomo che nel maggio del 1973 lanciò una bomba davanti alla questura di Milano, ha scritto una lettera al figlio invitandolo a confessare la verità e a fare i nomi dei suoi eventuali complici. Nella lettera ha scritto tra l’altro: “Leggendo sui giornali i resoconti del processo e sentendo come in tribunale continui a comportarti, con arroganza, accusando soltanto te stesso, ho pensato a tutte le altre volte che ti sei comportato nello stesso modo. È generoso da parte tua, ma credo che questa volta tu stia sbagliando. Finché difendevi amici ladruncoli era una cosa ammissibile; ora stai difendendo assassini innominabili e non lo devi fare”. “Gianni, quello che hai commesso – scrive ancora Francesco Bertoli – è orribile. È inutile che tu continui a voler apparire cinico, a voler fare l’eroe a tutti i costi. Io so che il sangue delle persone colpite dalla bomba che tu hai lanciato ti perseguita. Togliti quella maschera dal volto e chiedi perdono di tutto quello che hai fatto. Non esiste nessuna ragione al mondo che giustifichi la morte o la sofferenza di una persona. Io te lo avevo insegnato quando eri bambino. Sembrava che lo avessi imparato e te lo fossi ricordato anche quando eri diventato mascalzone. Ritorna a ragionare. Potrai ancora diventare uomo, con una dignità”. Il padre dell’imputato conclude così il suo appello al figlio: “Era mio desiderio cominciare questa lettera con le parole ‘carissimo figlio’. Non l’ho fatto perché ritengo che sia mostruoso anche per un padre usare frasi così piene di affetto per un uomo che ha ucciso con tanto cinismo. Ma se mi ascolti, e chiederai perdono al mondo di quello che hai fatto, prima di morire verrò a trovarti per stringerti ancora tra le mie braccia”».