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La morte di Giuseppe Pinelli

Redazione Spazio70

Tre colpi, tre diversi rumori di impatto preannunziano l’orrore di una macabra scoperta

Milano, 12 dicembre 1969. Piazza Fontana. Sono tanti, troppi i lutti. Gli iniziali nove morti diventano subito dodici, poi quattordici e man mano la triste conta salirà fino a diciassette. Diciassette morti e ottantotto feriti. Ma chi è stato? E soprattutto, perché?

NON SOLO PIAZZA FONTANA

Negli uffici della Questura di Milano è a Pinelli che viene posta la domanda, ma non solo in merito all’eccidio. Il 12 dicembre del 1969 non c’è stato un unico attentato. Poco prima dell’esplosione, presso la Banca Commerciale di piazza della Scala, un impiegato rinviene una Mosbach & Gruber in similpelle tipo «Peraso» di colore nero, lasciata incustodita vicino a un ascensore. È una borsa nuova, anzi, nuovissima, tanto da avere ancora il cartellino del prezzo attaccato alla maniglia. Un particolare insolito, ma non è l’unico. A insospettire ulteriormente l’impiegato è anche il peso eccessivo di quella valigetta dal cui interno sporge una placca di metallo. C’è qualcosa di strano.

Poco più tardi giunge la notizia dell’attentato alla Banca dell’Agricoltura. Vengono allertati gli artificieri. All’interno della borsa ci sotto sette chilogrammi di esplosivo che verranno fatti brillare in serata da tecnici specializzati con l’ausilio di sacchi di sabbia disposti nel cortile della banca. Ma a essere colpito non è soltanto il capoluogo lombardo. Alle 16:45 di quel tragico venerdì 12 dicembre, quasi in contemporanea con i fatti di Milano, un ordigno esplode in pieno centro a Roma, nel corridoio sotterraneo della Banca Nazionale del Lavoro, provocando quattordici feriti. Alle 17:16 si verifica una seconda esplosione, su un pennone portabandiera dell’Altare della Patria. Non è finita qui. Otto minuti più tardi, una terza deflagrazione ha luogo all’ingresso del Museo del Risorgimento. Tre i feriti.

UN VOLO DI QUINDICI METRI

L’Italia sembra essere di nuovo sotto attacco. Ma le bombe non sono quelle delle truppe alleate. La guerra, questa volta, non proviene dall’esterno. Chi è che sta muovendo questo conflitto al proprio Paese?

Dopo tre giorni di fermo, molti dei sospettati ammucchiati nelle stanze hanno già lasciato la Questura. Pinelli invece no. È sfinito, snervato, distrutto e ha un gran sonno. Anche lui vorrebbe sapere chi è stato a mettere quelle bombe, anche lui vorrebbe trovare un senso a questo assurdo scenario di guerra ma non riesce a capire il motivo di un simile accanimento nei suoi confronti. Contro il ferroviere continua a non sussistere alcun elemento in grado di giustificare un’accusa: tuttavia, gli agenti non mollano la presa.

Alle 23:57 del 15 dicembre 1969, l’anarchico è ancora chiuso nell’ufficio del commissario Calabresi, al quarto piano della Questura. Nella stanza c’è una grossa finestra, larga almeno un metro e mezzo. Al di là di una balaustra in ferro che delimita lo spazioso varco, un vuoto di una quindicina di metri sovrasta il largo cortile della struttura.

Aldo Palumbo è un giornalista de L’Unità, l’organo ufficiale del Partito Comunista Italiano. In quel momento anche lui si trova in Questura, ma per lavoro. Il cronista ha appena varcato il portone centrale dell’edificio per fumare una sigaretta all’aria aperta, ma la sua attenzione viene subito rapita da un urlo. La voce sembra provenire dall’alto ed è seguita da un tonfo, poi da un altro ed infine un altro ancora. Tre colpi, tre diversi rumori di impatto preannunziano l’orrore di una macabra scoperta. Il corpo di Giuseppe Pinelli è riverso in cortile dopo un lungo volo dalla finestra illuminata del quarto piano. L’uomo ha battuto contro un cornicione, poi su quello sottostante e infine si è spiaccicato al suolo. I soccorsi si riveleranno inutili.