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Gli attentati della primavera-estate 1969. L’acquisto delle borse utilizzate per la strage di piazza Fontana

Redazione Spazio70

La quarta parte di una serie di articoli di approfondimento sulla strage di piazza Fontana

Castelfranco Veneto, 5 novembre 1971. Nel corso di alcuni interventi di ristrutturazione presso la casa del signor Armando Pisanello, il crollo di una soffitta porta alla luce un’inquietante occultamento. Tra detriti e calcinacci spunta una cassa contenente cinque mitragliatrici, otto rivoltelle, un ingente quantitativo di proiettili, alcuni silenziatori per pistola e cartucce di vario tipo. La finalità politica di quella detenzione risulta evidente poiché assieme alle armi viene rinvenuto un drappo nero che riporta stampato l’inequivocabile stemma del fascio littorio. A nascondere quel materiale è stato un residente della palazzina di nome Giancarlo Marchesin. Interrogato dal Pretore, Marchesin ammette le proprie responsabilità aggiungendo di essere stato aiutato da un amico, tale Franco Comacchio, un impiegato di Castelfranco Veneto, il quale afferma di aver ricevuto in custodia l’arsenale nella primavera del 1970 per conto di Angelo Ventura e suo fratello Giovanni. Ancora una volta spunta il nome del libraio veneto in relazione ad armi e movimenti eversivi di estrema destra. A parlare esplicitamente di eversione sarebbero stati gli stessi Ventura, raccomandando al Comacchio l’importanza di celare con cura gli armamenti, poiché di quel materiale avrebbe dovuto usufruire «l’organizzazione».

GLI ATTENTATI DINAMITARDI DELLA PRIMAVERA-ESTATE 1969

Le rivelazioni del Comacchio, tuttavia, si spingeranno ben oltre, svelando che nel pomeriggio del 12 dicembre 1969, Angelo Ventura avrebbe avuto urgenza di recarsi a Padova per farsi notare in un negozio mentre a Milano scoppiavano gli ordigni nelle banche. Ma non è finita. Giovanni Ventura avrebbe esplicitamente chiesto al Comacchio se fosse stato capace di piazzare ordigni su alcuni treni, mostrandogli un piccolo congegno elettrico che applicato a un esplosivo avrebbe potuto determinare il momento esatto della deflagrazione. Infine, Comacchio svela il nome di Ruggero Pan, un ventitreenne di Rossano Veneto che per primo avrebbe custodito le armi per conto di Freda e dei fratelli Ventura. Due mesi dopo, il Pan scrive un memoriale per il giudice istruttore di Treviso. Nel dettaglio il giovane spiega tutti i rapporti da lui intrattenuti con i militanti neofascisti vicini alla cellula veneta di Ordine Nuovo. Nello scritto in questione emergono più volte le responsabilità di Franco Freda e Giovanni Ventura in merito a diversi attentati dinamitardi avvenuti tra la primavera e l’estate del 1969. Difatti, se le vili azioni del 12 dicembre sono state le prime a risolversi nel sangue in maniera cruenta, di attività terroristiche di tipo esplosivo, in quell’anno, ne sono state registrate diverse.

Padova, 15 aprile 1969. Ore 23:00. Un ordigno esplode nello studio del Rettore dell’Università. Non si registrano vittime né contusi ma lo scoppio fa crollare una parete della stanza e alla deflagrazione segue un incendio che si propaga verso le aree circostanti. Le fiamme distruggono alcuni mobili, ma vengono presto domate dal celere intervento dei vigili del fuoco.

Milano, 25 aprile. Ore 18:57. Un’esplosione provocata da una «bomba carta» investe un’area del Padiglione Fiat all’interno della Fiera Campionaria di Milano. Nascosto in una valigetta in finta pelle, l’ordigno brilla a circa una decina di metri di distanza dai visitatori. Alle 20:35 un’altra bomba esplode nell’ufficio cambi della Stazione Centrale. Il bilancio finale è di cinque feriti.

Torino, 12 maggio. Un ordigno inesploso viene rinvenuto presso il Palazzo di Giustizia. A causa di un imprevisto di natura tecnica, non ha luogo alcuna deflagrazione.

Milano, 24 luglio. Un dispositivo ad orologeria collegato a 120 grammi di esplosivo al plastico viene rinvenuto al secondo piano del Palazzo di Giustizia. L’ordigno è regolato in modo da esplodere in nottata ma un intervento degli artificieri lo rende innocuo.

Milano, 8 agosto. Ore 22:53. Un ordigno viene rinvenuto sul treno direttissimo «Lombardie Express» Trieste-Parigi. Il congegno viene subito disinnescato.

Mira (Venezia), 9 agosto. Ore 01:10. Una bomba esplode a bordo del direttissimo «47» Trieste-Roma. Si registra un ferito non grave. È il primo di una serie di ordigni deflagrati in tutta Italia nella stessa notte su diversi convogli ferroviari:

  • Ore 01:15. Grisignano di Zocco (Vicenza), esplosione sul diretto 404 Venezia-Milano. Nessun ferito.
  • Ore 01:20. Alviano (Orvieto), esplosione sul direttissimo 46 Roma-Vienna-Mosca. Due feriti.
  • Ore 02:15. Chiari (Brescia), esplosione sul direttissimo Milano-Venezia in sosta. Tre feriti.
  • Ore 02:45. Pescina dei Marsi (L’Aquila), esplosione sul diretto 778 Roma-Pescara. Nessun ferito.
  • Ore 02:57. Caserta, esplosione sul direttissimo 991 Roma-Lecce. Un ferito.
  • Ore 03:10. Caserta, esplosione sul direttissimo 991 Roma-Lecce fermo sui binari. Cinque feriti.

Le bombe erano tutte collegate a dei congegni. Si tratta di temporizzatori elettronici, altrimenti detti «timer», strumenti utilizzati anche per gli attentati del 12 dicembre 1969. A seguito delle scottanti rivelazioni di Lorenzon, di Comacchio e di Pan, nel gennaio del 1972 gli inquirenti puntano su Franco Freda e risalgono ad alcune conversazioni telefoniche avute dal giovane procuratore legale con la ditta «Elettrocontrolli» di Bologna. Dai dialoghi intrattenuti si evince che nel mese di settembre del 1969 il neofascista avrebbe ordinato ben cinquanta commutatori da sessanta minuti in deviazione incaricando per l’acquisto un elettricista, tale Tullio Fabbris. L’acquisto del materiale elettronico è confermato anche da una regolare fattura. In presenza dei giudici istruttori, Fabbris riferirà di aver ricevuto più volte da Freda delle richieste di delucidazione in merito al funzionamento dei congegni.

LA VALIGERIA «AL DUOMO» DI PADOVA

Ma gli indizi che riconducono all’ordinovista padovano non finiscono qui. Nel mese di settembre del 1972 spunta un altro particolare interessante. La signora Loretta Galeazzo, commessa presso la valigeria «Al Duomo» di Padova, afferma che la sera del 10 dicembre 1969 avrebbe venduto ad un giovane di bell’aspetto alcune borse Mosbach & Gruber nere e marroni, molto simili a quella rinvenuta intatta nella Banca Commerciale di Milano, le cui fotografie erano state pubblicate sui giornali. Ed è proprio tra le pagine di una rivista che la Galeazzo si è imbattuta in una foto di Franco Freda, indicandolo come l’acquirente.

La segnalazione dell’acquisto alla polizia, in realtà, era già stata fatta dal titolare del negozio proprio nei giorni immediatamente successivi alla strage ma la testimonianza non ha poi avuto seguito. Dinnanzi agli inquirenti, la commessa specifica che l’uomo aveva scelto quei modelli poiché privi di scomparti interni. La vendita è confermata anche dall’esame delle scritture contabili. In data 10 dicembre 1969 la valigeria Al Duomo di Padova ha venduto quattro borse di marca Mosbach & Gruber, modello 2131 di similpelle «Peraso» (nera) e «City» (marrone). Si tratta di un dato estremamente rilevante poiché su tutto il territorio nazionale i prodotti della Mosbach & Gruber erano in vendita soltanto in trentatré negozi. I modelli utilizzati per le bombe del 12 dicembre, invece, riducono l’indagine a soli tre esercizi commerciali: Biagini di Milano, Protto di Cuneo e «Al Duomo» di Padova. È possibile restringere ulteriormente il campo d’osservazione facendo ricorso a un piccolo dettaglio: l’etichetta legata da uno spago alla maniglia è prerogativa del negozio padovano. La Protto utilizza un adesivo e presso la Biagini si fa ricorso a un filo di cotone interno alla borsa. Stando a questi dati, vi è spazio per ben pochi dubbi: l’acquisto fatto tramite la signora Galeazzo sarebbe stato successivamente impiegato per compiere gli attentati.

Per la donna l’acquirente è Franco Freda, tuttavia, nel corso di un riconoscimento dal vivo presso il carcere di San Vittore, la prova del «faccia a faccia» dà esito negativo. Con il sospettato posto di fianco ad altri quattro uomini in riga, la commessa indica più di una volta un poliziotto in borghese. I legali di Freda ne chiedono l’immediata scarcerazione. Una simile circostanza, secondo l’avvocato Odoardo Ascari, curatore della costituzione di parte civile per i familiari delle vittime della strage, non rappresenterebbe un elemento sufficiente a scagionare il neofascista. Il riconoscimento è una procedura che a distanza di tre anni può perdere notevolmente la propria efficacia, inoltre, un poliziotto indicato come l’acquirente avrebbe una certa somiglianza con il Freda del dicembre 1969, che nel tempo è leggermente ingrassato oltre ad aver subìto alcuni cambiamenti alla capigliatura, divenuta più folta e rapidamente brizzolata.