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La parola d’ordine di Borghese? «Via i partiti dall’Italia»

Redazione Spazio70

Da una inchiesta di Renzo Trionfera per l'Europeo (aprile 1971)

«Tutti per Junio, Junio per tutti»; così ritoccato, il motto della Svizzera è diventato da tempo uno degli slogan più popolari di quel Fronte Nazionale che Junio Valerio Borghese fondò nel settembre del 1968. In questi giorni, tuttavia, i neofascisti romani lo hanno ancora modificato, per adeguarlo alla realtà. «Tutti in galera per Junio, Junio latitante per tutti», dicono. Non solo nel MSI, ma soprattutto nei più intemperanti gruppuscoli della destra extraparlamentare, serpeggia vivace il risentimento verso il «principe nero». Di lui hanno sempre contestato la pretesa di essere il più puro erede del messaggio mussoliniano ma, finora, lo consideravano, macchie a parte, «senza paura».

Avvezzo a predicare agli altri la vita scomoda, l’ardimento, il rischio, il Capo se l’è squagliata al primo segnale di pericolo. Non ha dato l’allarme ai suoi più diretti collaboratori e ha lasciato nei guai qualche centinaio di «fedeli», esposti alle non gradite attenzioni della polizia e agli sberleffi dei camerati dissidenti. La fuga, insomma, era l’ultimo gesto che i neofascisti, amici o avversari, si attendessero da Junio Valerio Borghese. E tra i tanti e sfuggenti elementi d’accusa che sorreggono l’ipotesi di un «golpe», proprio la fuga ha convalidato a caldo il sospetto che nei piani senili del «principe nero» ci fosse qualcosa di più e di più serio che non le dilettantistiche velleità rivoluzionarie di un gruppo di pensionati nostalgici.

UNA IMPUTAZIONE DEFINITA IN TERMINI MOLTO PRUDENTI

La vicenda «borghesiana», nei giorni scorsi, è sconfinata nella più sbrigliata fantasia. Ondate di arresti date per imminenti, ritrovamenti di armi, ergastoli a portata di tutti, occupazioni notturne di ministeri da parte di pattuglie di punta del Fronte Nazionale, interventi di ufficiali del servizio segreto in veste di moderatori o di «aiutanti di campo» del principe ribelle: il romanzesco ha sopraffatto e confuso la realtà. E per ristabilirla nelle sue autentiche dimensioni, è stata necessaria, lunedì 22 marzo, la polemica messa a punto della procura della Repubblica di Roma: allo stato dei fatti, mancanza di indizi sufficienti di colpevolezza tali da convalidare altri arresti: nessuna «ipotesi» di detenzione di armi da guerra, fatta eccezione per gli undici chili di tritolo rinvenuti nel casolare «La ginestrella» di Castel San Pietro (acquistati legalmente, secondo la proprietaria, per scassi agricoli).

Contro Junio Valerio Borghese, latitante, e i componenti del suo stato maggiore, tutti nel carcere di Regina Coeli, l’imputazione stessa è stata definita da Palazzo di Giustizia in termini estremamente prudenti: «… Per avere in concorso con altre persone non identificate promosso, costituito e organizzato una associazione diretta “a suscitare” una insurrezione armata contro i poteri dello Stato». Altra doccia fredda, questa, dopo le dichiarazioni del ministro dell’Interno Restivo.

Di associazioni costituite con il proposito di «suscitare» rivolte contro l’ordine costituito ne esistono molte in Italia. A destra e a sinistra. Ma un conto è suscitare, cioè stimolare o eccitare azioni rivoluzionarie, altro è compierle. Se così non fosse, tutti i dirigenti dei gruppuscoli extraparlamentari di destra e di sinistra sarebbero da mesi o da anni nelle patrie galere. Il fatto che il magistrato, pur ridimensionando la vicenda, abbia emesso ben cinque mandati di cattura, lascia presumere, tuttavia, che il «proposito» attribuito a Junio Valerio Borghese e ai suoi più diretti collaboratori sia comunque andato oltre le pure e semplici intenzioni.

POCHI UOMINI, NON MOLTI SOLDI, TANTA PRESUNZIONE

Il Fronte Nazionale, del resto, è sorto con due obiettivi precisi, uno dichiarato, l’altro noto anche se non ufficiale: tentar di raccogliere intorno all’ex comandante della Decima MAS tutti i gruppi neofascisti a sfondo rivoluzionario e in contrasto con il MSI; fare del Fronte un «centro di potere» nazionale in grado, a un certo momento, di determinare decisi capovolgimenti di carattere totalitario nel Paese. La parola d’ordine di Borghese ai suoi seguaci è sempre stata «via i partiti dall’Italia», compreso il Movimento sociale. Niente democrazia, dunque. Sogni, insomma. Il principe dei vari gruppi e gruppuscoli della estrema destra non è riuscito a catturare altro che un paio di cento «sbandati» del movimento di Ordine Nuovo, integratosi con il MSI. Dagli altri, soltanto inimicizia. Quanto al centro di potere, la situazione nei giorni scorsi è risultata abbastanza precisa; qualche migliaio di persone in tutta Italia, ex «marò» della Decima, ex fascisti, insofferenti alla disciplina, molti pensionati. E tutto questo come risultato di mesi di lavoro, di continue trasferte in ogni parte d’Italia di Junio Valerio Borghese e dei suoi luogotenenti. Pochi uomini, non molti soldi, molta presunzione al servizio di una azione destinata al «riscatto» dell’Italia.

Il riscatto, non c’è dubbio, è stato sempre visto dal Fronte Nazionale in termini rivoluzionari. Nei mesi di maggio e di giugno del 1970, Junio Valerio Borghese tenne rapporti a Roma ai dirigenti periferici e centrali proprio per definire dei piani concreti d’iniziativa. Parlò egli stesso e parlarono altri di «colpo di Stato». Dicono che, pur restando fumosi i mezzi con cui impadronirsi del potere, in alcuni di quei convegni si giunse addirittura a trattare la formazione di un governo rivoluzionario. Questa, grosso modo, la composizione: Junio Valerio Borghese, naturalmente, presidente del Consiglio e ministro della Guerra (non più della Difesa); Remo Orlandini, suo braccio destro, ministro dell’Interno; il maggiore in congedo Mario Rosa, costruttore, ministro dei Lavori Pubblici; il dottor Giovanni De Rosa, esperto in economia, ministro della Finanze. Nessun incarico ministeriale fu previsto per l’unico giovane del gruppo di vertice: il tenente dei parà in congedo Sandro Saccucci. Forse, in un primo tempo, sarebbe stato il governatore militare di Roma e in seguito l’unico responsabile della radiotelevisione italiana.

Gli altri portafogli disponibili sarebbero stati distribuiti tra alcuni uomini politici che sottobanco strizzavano da tempo l’occhio al principe e fra taluni ammiragli in pensione. Le voci di queste ripartizioni hanno circolato in ambienti neofascisti: risentono, perciò, di molta fantasia e di una non velata punta di disprezzo. Ma è vero che il «capo» affrontò più volte il tema del futuro governo di una «Italia redenta».

IL «MAGGIORE» REMO ORLANDINI

Anche nella primavera dello scorso anno la tecnica del colpo di Stato «frontista» non risultava gran che diversa da quella configurata nelle settimane scorse: occupazione del Viminale, del ministero della Difesa (dove Borghese era convinto di trovare, al momento del successo, larghi appoggi) della RAI-TV. Il fatto che la polizia, i carabinieri, l’esercito potessero comunque opporsi e ristabilire l’ordine costituito, durante quei vertici non venne adombrato che marginalmente come ipotesi del tutto improbabile. Nei convegni, l’ultimo dei quali fu seguito da un cospicuo pranzo in una trattoria romana concluso al canto di Giovinezza, il Fronte consolidò la sua struttura militare-dilettantesca. Remo Orlandini divenne capo di stato maggiore del movimento. Tutti lo chiamavano «maggiore», ma il suo grado era incerto. Durante l’ultima guerra fu sergente maggiore sul fronte greco: venne promosso sottotenente per meriti eccezionali. Costituitosi il governo di Salò, Orlandini entrò volontario nella guardia nazionale repubblicana e nel giro di due anni si ritrovò maggiore.

Ma la liberazione lo fece ridiscendere al grado di partenza poiché la famosa «guardia» voluta da Mussolini non ebbe alcun riconoscimento ufficiale. Del Fronte il «maggiore» Orlandini è sempre stato il numero due. Sarebbe spettato a lui rivolgere un appello al paese, esortandolo alla concordia e all’unità, intorno alla figura di don Julio Valerio, secondo duce dell’Italia proletaria e fascista.

Come è ormai noto, nel periodo estivo, sotto la guida di Sandro Saccucci, il Fronte organizzò «campeggi» sul lago di Turano, nella zona di Rieti. Vi parteciparono a turno gruppi di una quarantina di giovani in divise che erano una via di mezzo tra quelle dei parà e quelle dei boy-scout. Escursioni, piccole scalate, esercizi ginnici, scuola d’ardimento, con alzabandiera, squilli di tromba e segnali d’attenti furono gli svaghi degli adolescenti destinati a forgiare la nuova Italia borghesiana. Più o meno gli stessi esercizi, tutta la gioventù del Fronte continuò poi a svolgere in alcune palestre romane. Soprattutto in quella dell’Associazione paracadutisti, nella zona di Santa Croce.