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«Chi gioca sulla paura?» Una interessante interpretazione degli effetti politici di piazza Fontana

Redazione Spazio70

Da un articolo pubblicato nel dicembre 1969 su «L'Astrolabio»*

Milano. Il personaggio non regge il dramma. Possibile che il senso della cruda e angosciosa vicenda di piazza Fontana si riduca alla squallida biografia di Pietro Valpreda, ex ballerino di fila? E’ stato dunque il gesto di uno sconcertante personaggio l’attentato alla Banca Nazionale dell’Agricoltura? E i “sottili” discorsi che si facevano poche ore prima della “soluzione”, tutti campati in aria, tutte assurdità? Eppure una loro logica l’avevano, una logica serrata, convincente, e anche dura, spietata. Insomma, il quadro era ben articolato e vasto, con quasi tutte le pedine disposte sulla scacchiera, in bell’ordine, come per una partita quasi decisiva.

Il discorso partiva dalla domanda che non manca mai quando ci sono di mezzo dei morti: a chi giova? Chi può trarre profitto da quell’ondata di paura e di sbigottimento che si era sollevata attorno al salone devastato della Banca Nazionale dell’Agricoltura? La risposta era immediata, spontanea: la destra, solo la destra poteva, o si sarebbe sforzata di raccogliere i frutti amari di quella dirompente esplosione. Ma quale destra? La destra nostrana, delinquenziale ma anche un po’ ciabattona e folcloristica, coi suoi manganelli e le sue catene per biciclette sempre in mostra? No, un’altra destra aveva scaraventato le sue carte su quel tappeto intriso di sangue; il gioco era troppo importante per pensare ad una azione che rivendicasse soltanto la rinascita dei “miti nazionali”, tutta quella putrefatta ideologia sbocciata da un’economia asfittica, autarchica, l’economia delle industrie parassitarie, l’economia degli zuccherieri, degli industriali che si erano fatti le ossa pompando senza ritegno nella ricchezza della collettività. Ben altri i disegni che si nascondevano dietro l’attentato di piazza Fontana, altro l’innesco che aveva fatto brillare quella bomba dilaniando quattordici persone e ferendone una novantina.

PERCHÉ PROPRIO LA BANCA NAZIONALE DELL’AGRICOLTURA?

Milano. I funerali dopo la strage di piazza Fontana

La formidabile “rimonta” operaia non era un motivo più che sufficiente per tentare il tutto e per tutto, anche a costo di scaraventare sul marciapiede, la faccia riversa, delle povere persone completamente ignare di quel che vuol dire “politica”, la “grande politica”, quella si fa con la mano dura?

E poi c’era la faccenda dei colonnelli, le lettere “riservate” pubblicate dal Guardian e dall’Observer, il retroscena che aveva accelerato l’esclusione della Grecia dal Consiglio d’Europa. Non dicevano dunque nulla quelle lettere rese pubbliche proprio alla vigilia degli attentati? Ma anche la destra nostrana, tutto quello strato sociale medio-basso che si sentiva minacciato dai nuovi “eventi”, sperava, senz’altro, in un colpo di coda, in una “rivincita” da prendere in tutta fretta, prima che le cose si potessero mutare in maniera irreversibile. La “simbologia” degli attentati poi sembrava proprio studiata e “tornita” per chiamare a raccolta, in un unico fascio, tutta quella gente e gentucola che è perennemente presa per la gola dalla paura che qualcosa possa cambiare, che certi equilibri finiscano col rompersi, che le vecchie e cadenti “scenografie” possano essere scaraventate con forza fuori dal palcoscenico.

Perché gli attentatori avevano scelto proprio la Banca nazionale dell’Agricoltura, istituto di credito che non ha certo l’aspetto scintillante delle banche più a la page? E’ una banca che lavora, in prevalenza, sui crediti agricoli, che ha clienti fra i piccoli agricoltori della Bassa, fra i mediatori, fra i commercianti di granaglia, gente che ha i suoi mercati a giorni fissi, martedì e venerdì, e che capita quindi a Milano con lo stesso spirito con cui un tempo si andava per fiere. Perché dunque proprio questa banca? Semplice, perché una bomba messa in quel salone in cui si stipavano “clienti” che dovevano pagare la cambiale o ritirare l’assegno ancora fresco d’inchiostro e saldare la tratta voleva dire portare all’esasperazione tutta una zona sociale che, chiusa com’è in un’economia di tipo agricolo, stenta a far quadrare i ricavi con le spese, le semine con i raccolti, e che si spaventa quindi con nulla.

E poi c’era anche l’Arcivescovado a due passi, il severo simbolo di un sentimento religioso impastato di pregiudizio, la religione dei “benestanti”, il credo di tutto un frantumato “popolo” che si deve per forza aggrappare a una “regola” per mettere giorno sopra giorno, per tirare avanti la vita.

IL “DALLI ALL’ANARCHISMO”

Sembrava chiara dunque la simbologia dell’attentato. E’ chiaro anche il disegno che si profilava dietro quella tremenda esplosione, come proiettato su uno schermo che sovrastava tutto e tutti. C’era dunque una grossa manovra, “programmata” dall’alto, che cercava di far leva su tutto un cumulo di paure e di avvilimenti che sono ‘privilegio’ di una certa classe, o ceto sociale, che si sente sul collo come una minaccia il respiro dei “nuovi tempi”.

Questi i discorsi, queste le ipotesi che germinavano spontanee di fronte allo sconvolgente spettacolo di quel cumulo di morti: solo la “grande politica” poteva arrivare a tanto, con una spietatezza che ricordava la ferrea e ottusa logica del nazismo. Se si voleva dunque trovare la mano che aveva lanciato la bomba, a due passi dal Duomo, nel cuore della “vecchia” Milano, bisognava cercarla fuori dei confini nazionali, fuori dal giro che siamo “abituati” a conoscere.

E invece, di colpo, ecco che spunta prepotente un personaggio che proprio nessuno si aspettava: Pietro Valpreda, ex ballerino di fila, disoccupato, di questi tempi, giovane, afflitto dal morbo di Burger, una malattia che “soffoca” le arterie e induce alla paralisi. Aveva quindi ragione il Corriere che, giorno su giorno, con metodica monotonia, andava predicando il “Dalli all’anarchismo”? Ma che tipo di anarchico poi? “Anarchico individualista”, del gruppo del “Ponte Ghisolfa”, un circolo affondato nella Milano più squallida, muri grigi dominati da una mostruosa sopraelevata, fabbriche vecchie, giardinetti stenti, case popolari, questa la “grande centrale” che aveva studiato e messo a segno il diabolico piano?

UN PERSONAGGIO “STRAVAGANTE” E UN “SUICIDIO INCREDIBILE”

Il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat e il ministro della Difesa Luigi Gui

Le indagini della polizia avevano puntato con inalterabile tenacia sui “gruppi eversivi” e il Corriere a fare da grancassa, a parlare ogni giorno di anarchici e di maoisti. Ne era venuta fuori, come in ogni parte d’Italia, un gran caccia all’estremista, che veniva stanato da ogni buco, da ogni stanza, da ogni sede, più o meno provvisoria. Era o non era la buona occasione per far piazza pulita di tutto quel variegato sottobosco che certa stampa definisce, sbrigativamente, “cinese”? “Dalli, dunque, all’estremista”, e il Corriere a soffiarci sopra, fornendo puntualmente l’elenco dei fermati, nome, cognome e indirizzo.

Ma il bello è che nel mazzo c’è arrivato anche lui, Pietro Valpreda. Ex-ballerino di fila che bazzicava, non con molta frequenza, il “Ponte della Ghisolfa” subito sotto la sopraelevata. In verità, nella rete il Valpreda c’è cascato proprio all’ultimo momento, giusto in tempo per essere impacchettato in tutta fretta e spedito a Roma in aereo. E poche ore dopo il suo fermo, ecco poi il gran tuffo di Giuseppe Pinelli dal quarto piano della questura, attraverso una finestra che era stata aperta per far cambiare aria alla stanza ormai impregnata di fumo. E’ stata quasi una caduta in una sorta di macabro grottesco: dai discorsi “impegnati” alla biografia di un personaggio stravagante, con l’aspro “condimento” di un suicidio addirittura incredibile.

IL RUOLO DEL “BUON CORRIERONE”

Dunque. quattordici morti, novanta feriti, un bambino senza gamba, una bimba sfigurata, per la stolida e criminale pazzia di un tipo come Valpreda? C’era da restare sconcertati, anche perché le indagini avevano chiuso i primi battenti con tanta sveltezza da non lasciare neppure il tempo di pensare come mai si era potuti arrivare alla “soluzione” così di getto. C’è il riconoscimento del taxista, aveva detto la polizia, c’è il “viaggetto” del Valpreda sino alla Banca Nazionale dell’Agricoltura, e poi i suoi “appunti”, trovali in macchina. Non è tutto chiaro? Tutto maledettamente chiaro, tanto chiaro da lasciare senza fiato. Bisognava quindi riporre sveltamente i “sottili discorsi” dentro i cassetti, come interpretazioni astruse, impostate male e finite peggio.

Ora, in tutta questa dolorosa e umiliante vicenda si stagliano diversi livelli che vanno tenuti accuratamente distinti. Sia o non sia stata la pazzia del Valpreda a scatenare l’inferno di quel venerdì pomeriggio, il disegno di cui si parlava rimane intatto. A chi giova, a chi ha giovato il terrore, lo sgomento e l’angoscia sollevatisi da quel cumulo di morti? Quali effetti hanno prodotto sul tessuto vivo di Milano e di tutto quanto il paese?

Sfogliamo il diario di quelle giornate. Milano, il giorno dopo, è una città austera e composta. L’attentato, indubbiamente, ha scosso la gente fino al profondo, ha seminato il panico e la paura. Le strade sono percorse da uomini e donne pensosi, si tira via in fretta senza guardare troppo i negozi imbandierati per l’orgia natalizia. Chi sono gli anonimi attentatori? Chi ha seminato il terrore in città?

Nella notte fra venerdì e sabato, quando i corpi straziati delle vittime giacevano ancora nel salone devastato della Banca Nazionale dell’Agricoltura, la opinione corrente guardava a sinistra, ai gruppetti anarchici e marxisti leninisti che il buon Corrierone e, in diversa misura, anche l’altra stampa meneghina, aveva reso in poco tempo lo spauracchio del cittadino medio. E poi c’era la immediata dichiarazione del dott. Calabresi, un funzionario dell’ufficio politico della questura, che aveva dato una occhiata fredda, da esperto, alla strage, per dire: “roba da anarchici”.

LA POSIZIONE DELLA DC MILANESE

Il dolore dei congiunti delle vittime della strage

Si pensava perciò a loro, i capannelli di gente che sostavano in piazza Fontana (un pellegrinaggio macabro e commosso che è durato tutta la notte) sembravano decisi nell’additare i libertari come responsabili della strage. C’era o non c’era il precedente del 25 aprile, della bomba lanciata contro lo stand della FIAT alla sacra fiera da quel balzano di un architetto e dalla sua degna compagna? E come dimenticare la strage del Diana, le vittime fatte da quell’altra bomba degli anarchici? Non si può certo pretendere dal meneghino medio la lettura quotidiana dell’Observer e delle sue rivela1ioni in fatto di attentati dinamitardi, né si può sperare in una analisi critica del periodo che precedette l’avvento del fascismo in Italia.

Tutto chiaro, dunque. La città cominciava ad essere percorsa da fermenti irrazionali, convulsi. Ai cronisti accorsi in questura da tutta Italia si consigliava di non andare troppo in giro, con l’aria che spirava. Voci incessanti parlavano di bancari armati alla ricerca del capellone, del maoista da pestare ben bene. Le sirene delle pantere impegnate nelle retate rendevano più allucinante l’atmosfera della notte. I fascisti s’erano fatti vivi in piazza Fontana, avevano insultato e aggredito gli studenti che uscivano dalla Statale, cinquecento metri più avanti.

L’indomani, invece, come per incanto, il clima cambia nettamente. La classe politica milanese reagisce, in maniera singolarmente rapida, alla tensione che c’è nell’aria. Il primo a prendere posizione è il senatore della DC Marcora, con una dichiarazione che sottolinea la concomitanza fra l’attentato e l’espulsione dei colonnelli di Atene dal Consiglio d’Europa. Gli fa eco il segretario provinciale democristiano il quale, pur senza sbilanciarsi troppo nei giudizi di merito, invita a una riunione comune tutti i partiti che trovano la loro matrice nella Resistenza, dai liberali ai comunisti.

IL “RICHIAMO” DELLE ISTITUZIONI STAVOLTA FUNZIONA

Da quel momento è tutto un susseguirsi di dichiarazioni e di appelli di tipo antifascista-costituzionale. Ognuno onora le vittime e invita i cittadini a reagire civilmente. I cittadini, questa volta, obbediscono. Per la prima volta dopo mesi e mesi di silenzio, di marcia in posizioni di retroguardia rispetto alla società civile, la classe politica riesce a farsi ascoltare, a rendersi credibile. La sua forza, indubbiamente, sta nella ritrovata unità, in quel patto costituzionale in embrione che viene siglato di fronte alle vittime dell’attentato. E’ un guizzo di reni provvidenziale, un dato sintomatico e forse suscettibile di sviluppi non marginali, quali che ne siano i moventi.

Certo, nessuno può contestare che quanto è avvenuto sia dovuto soprattutto alla paura, che la spinta all’unità abbia la sua matrice più definita in una sorta di istinto di conservazione che unisce tutti, in nome delle sacre istituzioni, di fronte al pericolo oscuro e impalpabile che si avverte. Ma nello stesso tempo non si può davvero negare che, in ultima analisi, il richiamo delle istituzioni ha ancora una certa presa su questa Italia insofferente e drammatica, dove la contestazione non si spinge mai oltre un nevrotico brontolio quotidiano.

Se i sindacati controllano e gestiscono alla perfezione l’indignazione operaia, che vede nell’attentato l’ennesimo tentativo di portare indietro la situazione sul fronte contrattuale, il Comune, la Provincia, i partiti, i comitati di salute pubblica improvvisati da forze democratiche e repubblicane, sopravanzano e neutralizzano la ventata poujadistica e revanscista che potrebbe arrivare, improvvisa e travolgente, dalla Milano piccolo borghese, da quella zona sociale venuta fuori ai funerali di Annarumma.

UN’AMBIGUA UNITÀ REALIZZATA ALL’INSEGNA DELLA PAURA

Bettino Craxi dietro ai feretri

La grande stampa si affianca immediatamente, la condanna della violenza sfuma le distinzioni di tono, le inevitabili differenze di sempre. Di fronte a una reazione cosi unanime e così compatta, neppure la selva di piccoli imprenditori impauriti, che con un clima diverso si sarebbe scatenata sulla faccenda, trova il coraggio di rialzare la testa. Milano democratica, la Milano anti-fascista e popolare dell’immediato dopoguerra, prende il sopravvento. Lunedi, ai solenni funerali delle vittime, la ritrovata concordia, lo “spirito unitario della popolazione” celebrerà il suo trionfo.

Signore-bene accanto a operai in tuta, studenti compunti e coinvolti nella solenne mestizia del momento. Al di là della cronaca, del giusto compiacimento per un fenomeno del genere, c’è da chiedersi cosa significhi, a che cosa conduca, questo tipo di unità politica e sociale.

D’accordo, Milano è una citta anti-fascista, l’ha dimostrato chiaramente, chi pensava che il vero volto della società meneghina fosse quello esibito in occasione dei funerali dell’agente Annarumma ha sbagliato. Ma basta questo, basta la firma a qualche manifesto generico per sentirsi al sicuro? L’unità che si è concretata in altre situazioni avrebbe avuto significati politici avanzati e di notevole rilievo. Ma l’unità realizzata nel segno della paura è, di per sé, ambigua. In più sopravviene in un momento in cui il vero problema, per un sistema scosso dalle agitazioni operaie di questo autunno, è quello di recuperare la “pace sociale”.

Non si finisce così per dare obiettivamente una mano al disegno di stabilizzazione che cerca di imporsi, senza successo, da diversi mesi a questa parte?

IL VERO PERICOLO

D’accordo: “la destra non passerà”. Ma quale destra? Quella dei colonnelli all’italiana, per chi ci crede. La destra vera, quella che si identifica nel disegno del “centro-sinistra organico”, è uscita nettamente rafforzata dalla settimana tragica di Milano, non solo per il bisogno di pace che c’è davvero nel paese, ma anche e soprattutto perché non si è saputo, o voluto spiegare, che la lotta politica non può fermarsi di fronte al gesto sconsiderato di un folle.

Si ha l’impressione, insomma, che la sinistra si sia mossa con un certo impaccio in tutta la vicenda, preoccupata più di difendere le sue posizioni che di spingere la situazione in avanti. Certo, premere sull’acceleratore in un momento come questo sarebbe stato un azzardo, forse gravissimo; certo, le alternative che si presentavano non erano molte. Ma se si fosse spiegato al paese, chiaramente, quello che ognuno di noi ha in animo, e cioè che l’attentato di Milano giova solo a un disegno centrista, può soltanto far rinascere dalle ceneri l’esangue fantasma del centro-sinistra?

Se si fosse detto, come ormai sembra chiaro, che il vero pericolo non viene da destra, ma da soluzioni di governo destinate inevitabilmente, in un momento simile, a caratterizzarsi nel segno dell’ordine pubblico, della concordia nazionale, concetti entrambi ambigui e fumosi di cui ci si è sempre serviti, in ogni epoca storica, per far sudare di più chi lavora e fargli chiudere il becco? Una volta che direttamente, o indirettamente, dicendolo o non dicendolo, si aderisce alla logica degli “opposti estremismi”, ci si può ritrovare costretti a dialogare con un PSU il quale, avendo vinto la sua battaglia, si consente su L’Umanità corsivi furenti contro la polizia che non ha impedito il suicidio dell’anarchico della Ghisolfa.

Discorsi non troppo realistici, se vogliamo, ma discorsi che vengono fuori spesso, troppo spesso, ogni volta che in Italia la strategia della sinistra è costretta a scegliere una trincea provvisoria. Difesa, attacco? Da vent’anni la guerra di movimento continua, la trincea di difesa resta sempre quella, l’antifascismo, la Costituzione, la Repubblica, concetti e valori sacrosanti ma la cui insufficienza si avverte chiaramente di fronte a una realtà che galoppa sfrenata verso le frontiere della società industriale, monopolista, tollerante. E la trincea d’attacco? Si sposta, vaga, in settembre è sul fronte sindacale, un mese o due mesi dopo su quello parlamentare, un disegno che potrebbe apparire ammirevole per articolazione e complessità se fosse legato da una qualche coerenza strategica ma che diventa improbabile quando se ne consideri la casualità e la precarietà.

* Fondato a Roma nel 1963 da Ernesto Rossi e Ferruccio Parri, L’Astrolabio è stato un periodico politico di orientamento azionista e riformista