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«Tangenti? Non parlo perché non voglio far crollare tutto». Quanto costa un partito e come si finanzia

Redazione Spazio70

Da una inchiesta di Marzio Bellacci, Raffaello Uboldi e Pietro Zullino per «Epoca» (1974)

Paghiamo i partiti. Solo che i fondi per la loro sussistenza provengono dal sottobosco degli scandali pubblici o dalla miriade di Enti inutili. La vicenda dei petrolieri accusati di corruzione è servita a gettare uno squarcio di luce sul problema. Un piccolo gruppo di pretori genovesi, partendo da un controllo sugli imboscamenti di gasolio da riscaldamento, per verificare la reale disponibilità di questa fonte di calore, si è anche imbattuto in un incredibile giro di miliardi che in questi anni è servito a condizionare le scelte, le decisioni e i costi dell’energia in Italia. Ogni nuova raffineria, ogni progetto di centrale termoelettrica, ogni aumento di prezzo della benzina, sarebbero stati contrattati fra i petrolieri e alcuni uomini politici, con il pagamento di forti tangenti che sono poi servite a finanziare i partiti o addirittura le singole correnti.

C’è di peggio. «Lo scandalo petrolifero non è che la punta emergente dell’iceberg. Sotto vi sono anni di malcostume», ci ha detto un ministro del governo Rumor che non vuole tuttavia apparire. «Per decenni i partiti sono ricorsi alle più sconcertanti alchimie per procurarsi il denaro necessario a mantenere in vita i costosi apparati di cui sono dotati. Io non parlo soltanto perché non voglio essere quello che fa crollare l’intero edificio».

Non c’è nulla di sorprendente nel fatto che i partiti costino. Ciò che lascia perplessi è il modo con cui, in Italia, si procurano questo denaro. L’iniziativa della pretura genovese, comunque finisca, dovrebbe servire ad affrontare una volta per tutte il discorso del finanziamento pubblico delle organizzazioni che nel nostro Paese fanno politica. Di un controllo sui loro bilanci, sulle loro spese. Oggi i fondi clandestini lasciano aperta la strada alla corruzione, agli sperperi più folli.

QUANTO COSTA UN PARTITO? L’ESEMPIO DEL LAZIO

Quanto costa un partito? Le cifre esatte le conoscono soltanto gli amministratori centrali che, di volta in volta, fungono da cassieri e da procacciatori di affari. Ma calcoli abbastanza vicini al vero sono, in ogni caso, possibili. Si basano sulle spese per le campagne elettorali, sulla somma degli stipendi da distribuire ai funzionari, sugli affitti delle sedi, sugli aiuti alla stampa ufficiale, sulle spese di pubbliche relazioni e così via.

La Democrazia Cristiana, con circa 1 milione e mezzo di iscritti, più di 10 mila sezioni, 100 federazioni, oltre 5 mila funzionari, ha un bilancio presunto che sfiora i 30 miliardi di lire all’anno. A questa somma bisogna aggiungere il costo delle sue correnti interne. Il Partito Comunista (circa 1 milione e 700 mila iscritti, 12 mila sezioni, 113 federazioni, 8 mila funzionari) si calcola che spenda sui 22 miliardi. Il Partito Socialista, con mezzo milione di iscritti, quasi 8 mila sezioni, 104 federazioni e meno di 2 mila funzionari, ha uscite per 7 miliardi di lire all’anno. Il PSDI, con un apparato molto inferiore, necessita di oltre 5 miliardi. Il Partito Liberale, non spende meno di 2 miliardi e mezzo. Il PRI, con un cast di funzionari che non va oltre le 800 persone e strutture concentrate in poche regioni, spende anch’esso meno di 2 miliardi. L’MSI-Destra Nazionale tocca i 4 miliardi.

Si tratta della normale amministrazione poiché è ovvio che a ogni campagna elettorale queste cifre registrano paurose impennate. Prendiamo un grande partito nel Lazio. Per ogni legislatura esso deve affrontare quattro prove elettorali (elezioni comunali, provinciali, regionali e nazionali). La Democrazia Cristiana , per esempio, presenta per il Comune di Roma 80 candidati. Secondo calcoli attendibili, la campagna elettorale di ognuno costa 50 milioni di lire per un totale, tondo tondo, di 4 miliardi a cui se ne deve aggiungere un altro per i comuni minori. I rappresentanti democristiani alla Provincia costano un miliardo e mezzo. I 50 candidati alla Regione assorbono 70 milioni a testa, cioè a dire altri 3 miliardi e mezzo. Le cifre si gonfiano drammaticamente in occasione delle elezioni alla Camera e al Senato. Nel maggio 1972, almeno due personalità, fra le più note in campo nazionale, sono costate oltre un miliardo a testa. Per i deputati democristiani eletti nel Lazio si sono spesi circa 6 miliardi a cui va aggiunto un miliardo e mezzo per i senatori. In totale, in questa sola regione, lo schieramento di maggioranza costa al suo partito 16 miliardi e mezzo in cinque anni.

ANNI CINQUANTA: SI APRE LA GRANDE STAGIONE DEGLI SCANDALI

Sono calcoli da capogiro. Si colorano di assurdo quando si passa al tesseramento. Per raccogliere a Roma le quote di iscrizione (circa 80 mila tessere), la Dc, tra propaganda, collettori di fondi, impiegati, porchetta-parties e via di seguito, spende quasi un miliardo di lire, incassando poco più di 120 milioni. Non ci si può, dunque, meravigliare troppo se le spese della macchina politica italiana sono diventate un pozzo senza fondo. Dove alimentarsi?

Il principio che lucrare per il partito non è reato nasce in età remota. Ezio Vanoni, accusato sul finire del 1946 di aver tratto eccessivi profitti dalla carica di presidente della Banca Nazionale dell’Agricoltura, ammise in Parlamento: «E’ vero, ma di queste somme non trattenevo che una minima parte. Il residuo lo mettevo a disposizione della stampa democristiana…». Quindi, già agli albori della Repubblica, il problema dei partiti si pone, anzi si impone, anche alla coscienza dei politici più scrupolosi e onesti quale poteva essere appunto Ezio Vanoni. Ed è un problema a cui nel tempo si daranno soluzioni sempre più perfezionate e sofisticate.

Nel 1947 un ministro dei Lavori Pubblici, Giuseppe Romita, poté venire platealmente accusato alla Camera di aver distribuito commesse e appalti per 10 miliardi in cambio di appoggi alla sua campagna elettorale. Vent’anni più tardi ci vorranno agenti segreti e congegni elettronici per scoprire in qual modo potevano essere truccate le aste dell’Anas.

Praticamente la grande stagione degli scandali si apre a partire dagli anni Cinquanta: ed era destinata a coinvolgere tutte le forze politiche. Nel 1953 si scoprì che l’Istituto Nazionale per la Gestione delle Imposte di Consumo (INGIC) corrompeva centinaia di amministratori comunali pur di essere preferito nell’appalto per la riscossione delle imposte. L’INGIC vinceva puntualmente le gare: gli amministratori corrotti, a loro volta, versavano parte delle tangenti ai partiti di appartenenza. Nello scandalo rimasero coinvolte 1162 persone tra cui anche numerosi parlamentari. Per questi la Camera negò l’autorizzazione a procedere: per tutti gli altri, attraverso l’abile uso dei rinvii processuali, si è arrivati all’estinzione del reato perché caduto in prescrizione.

«UNGHERIA E POLONIA SONO DEL PARTITO X, LA ROMANIA DEL PARTITO Y. LA JUGOSLAVIA? DEL MINISTRO W»

Negli stessi anni, vennero alla luce i colossali maneggi di Giuffrè, il «banchiere di Dio», che restituiva raddoppiati i prestiti ricevuti, senza avere alle spalle capitali di copertura, usando per la diabolica spirale il denaro di quelli che glielo avevano affidato. Risultò che Giuffrè era protetto da forze legate al clero e che il gioco gli era stato possibile perché versava percentuali dei suoi illeciti affari a uomini politici.

Accanto a queste truffe vere e proprie, diventò prassi normale negli anni Sessanta, da parte di singoli gruppi di industriali e della Confindustria che li rappresenta, il finanziare tutto l’arco dei partiti italiani, dalla destra alla sinistra, ponendo così grosse ipoteche sulle scelte governative. Per contrastare questo influsso entrarono in campo, suppergiù con gli stessi metodi, i grandi Enti di Stato. E questa fu anche l’epoca della svolta di centrosinistra. I canali attraverso i quali fare affluire denaro alle casse dei partiti rimasero, comunque, molteplici.

Nel 1965, l’allora ministro delle Finanze, Trabucchi, rischiò l’incriminazione davanti alla Corte Costituzionale perché, come disse, non si era accorto che certi importatori di banane e di tabacco versavano ai politici somme cospicue per… grazie ricevute con le quali accrescere i propri profitti. Diventò abituale spartirsi, fra notabili, le presidenze di banche, istituti, acquedotti, Enti di bonifica, Enti di Stato. In questo carosello entrarono anche gli accordi di export-import con i Paesi dell’Est e del Terzo Mondo. Espressioni grottesche come: «Ungheria, Polonia e Nord Africa sono del partito X», oppure: «La Romania è del partito Y» o ancora: «La Jugoslavia è del ministro W», arricchirono, seppure in maniera negativa, il linguaggio politico italiano. Il pericolo ovviamente è che pur di conquistare tangenti i partiti siano tentati di avallare affari anche sbagliati o perlomeno a condizioni pesanti. Un ultimo teatro, in cui recitare la commedia degli scambi di favori, è diventato il Mezzogiorno: in questi anni, purtroppo, moltissime fabbriche si sono trasferite al Sud, più per rafforzare le posizioni di potere dei vari leaders che per aiutare il decollo dell’economia locale.

«SI DIFFONDE NEL PAESE UN SENSO DI SFIDUCIA NEL SISTEMA PARLAMENTARE»

Lo scandalo del petrolio entra perfettamente nel quadro. L’Unione Petrolifera picchiò per la prima volta, e pesantemente, il suo pugno sul tavolo delle trattative tra governo e compagnie nel 1967 chiedendo un contributo per i maggiori oneri di trasporto del greggio che la chiusura del canale di Suez aveva causato. Il governo allora cedette alla richiesta. In cambio, si dice che il 5 per cento di questi maggiori introiti venga ancora versato dalle compagnie ai politici. Dall’inchiesta dei pretori genovesi traspare che a ogni ritocco in alto del prezzo della benzina o del gasolio ha corrisposto un’adeguata ricompensa. Il cittadino si chiede se anche per l’aumento di altre materie prime, come il cemento, o di prodotti come i fertilizzanti, non vi sia stato lo stesso dialogo tra produttori e governo. E ancora se gli aumenti decisi fossero indispensabili e in che misura.

Il finanziamento pubblico di quegli insostituibili strumenti della democrazia che sono, e rimangono, i partiti diventa alla luce di quanto è accaduto una necessità. Lo aveva già affermato nel 1958 don Luigi Sturzo, padre e fondatore della DC. Fu il primo a presentare al Senato un disegno di legge che, tra l’altro, diceva: «Noi abbiamo ormai una struttura partitica le cui spese aumentano di anno in anno in maniera tale da superare ogni immaginazione. Tali somme possono venire da fonti impure e non sono mai libere e spontanee offerte di soci e simpatizzanti». Continuava don Sturzo: «Quando entrate e spese sono circondate dal segreto circa la loro provenienza e destinazione, la corruzione diventa impunità. Manca la sanzione morale della pubblica opinione. Manca quella legale del magistrato. Si diffonde nel Paese un senso di sfiducia nel sistema parlamentare».

Il progetto di legge Sturzo, oltre che far obbligo agli amministratori di presentare in Tribunale i rendiconti delle entrate e delle uscite, vietava ai partiti di accettare contributi di Ministri, Enti o Gestioni statali; di Comuni, Province o Regioni; di banche, cooperative, consorzi, sindacati, aziende italiane o straniere. I tempi non erano maturi. Per ovvie ragioni, il progetto non venne neppure preso in considerazione.

LA PROPOSTA BERTOLDI

L’ultima proposta, in ordine di tempo, è quella che prende il nome dell’attuale ministro socialista del Lavoro Gino Bertoldi. Il progetto, di 18 articoli, propone che i partiti vengano finanziati pubblicamente e direttamente dallo Stato. La cifra globale da destinarsi a questo scopo è pari alla moltiplicazione per mille del numero dei voti validi espressi nel corso delle elezioni politiche. Nel 1972 i suffragi sono stati quasi 33 milioni e mezzo. Il che significa che i partiti (con la sola condizione di avere almeno cinque deputati eletti) dovrebbero annualmente contare su un finanziamento pubblico di 33 miliardi e mezzo di lire. A ciascuno di loro andrebbe una quota fissa, risultante dalla divisione, in parti eguali, del 20 per cento della cifra citata. Il rimanente 80 per cento sarebbe suddiviso proporzionalmente ai voti ricevuti. E’ inoltre prevista una quota successiva per il rimborso degli stipendi dei funzionari, nella misura di uno per ogni 20 mila voti, da calcolarsi sulla base delle tariffe applicate per gli impiegati dell’industria privata.

Come già nella legge Sturzo, è fatto esplicito divieto di ricevere finanziamenti da parte di Enti pubblici, da aziende private, da qualsiasi ramo della pubblica amministrazione, dal servizio segreto di Stato, da Paesi esteri o da società e organizzazioni internazionali. I bilanci dovranno essere pubblici; e chiunque violi queste disposizioni potrà essere punito con una ammenda e con la reclusione: sia chi dà denaro, sia chi lo riceve. Negli anni che coincidono con le elezioni nazionali o per la maggioranza dei consigli regionali, la somma di 33,5 miliardi viene aumentata del 50 per cento come contributo aggiuntivo a rimborso delle spese per la propaganda elettorale.

La proposta di Bertoldi adegua l’Italia ad altre nazioni democratiche dove, con varie sfumature, già esiste un maggior controllo del cittadino sulle spese dei partiti. La Costituzione tedesca precisa all’articolo 21 che «i partiti debbono rendere conto al popolo delle origini dei loro mezzi» e una legge speciale stabilisce le fonti di entrata e le spese. In Francia un candidato al Parlamento deve versare una cauzione di 20 mila franchi che gli viene rimborsata soltanto se ottiene almeno il 5 per cento dei voti espressi nella sua circoscrizione. Una norma, questa, che evita inutili candidature e di conseguenza spreco di denaro. Negli Stati Uniti, i candidati debbono dichiarare per iscritto le spese che intendono sopportare e così i direttivi dei partiti. Sono proibite le contribuzioni di banche, società e sindacati. In Inghilterra i bilanci dei partiti sono rigorosamente pubblici e se anche si ammette il finanziamento da parte dei sindacati e delle società private, questi debbono dichiararli in modo che l’opinione pubblica possa giudicare chi sta dietro a questo o quel raggruppamento politico.

E’ certo che con il finanziamento pubblico i partiti italiano saranno costretti a molte economie, a tagli nei loro apparati, forse anche a riduzioni di correnti. Le posizioni di potere personale non si avvarranno più del denaro pubblico. Il cittadino potrà pretendere che i partiti si comportino da buone massaie e non da giocatori d’azzardo. L’austerità, in altre parole, finirà di essere a senso unico.