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Mistero della fede. L’attentato al Papa e le sue ombre – Quei ripetuti attacchi alla residenza dei funzionari bulgari

Tommaso Nelli

Una vicenda all’epoca appena lambita da stampa e inquirenti. Gli interrogativi più che legittimi anche a distanza di quarant’anni

Nel mirino d’ignoti mentre nasceva la «pista bulgara». È la storia della palazzina romana di via Galiani 36, residenza di numerosi funzionari dell’ambasciata bulgara, che nel 1982 fu bersaglio di strani e inquietanti episodi dopo che uno dei suoi abitanti, Todor Ayvazov, si ritrovò indagato per l’attentato al Papa. Dai documenti sul ferimento di Giovanni Paolo II spunta una notizia all’epoca appena lambita da stampa e inquirenti, nonostante il suo contenuto alimenti interrogativi più che legittimi anche a distanza di quarant’anni.

Tutto ha inizio la sera del 3 dicembre. Verso l’ora di cena all’ambasciata bulgara giunge una telefonata anonima. L’interlocutore, in perfetto italiano, preannuncia l’esplosione di una bomba al civico 36 di via Galiani. Panico e terrore. Viene subito allertata la polizia, che effettua tutti i controlli del caso senza però rilevare la presenza di ordigni. Si pensa al macabro scherzo di qualche squilibrato, ma non sarà così. Perché tre giorni dopo tre ignoti sono protagonisti di un altro episodio da tenere bene a mente. Alle 16 – come riporta la nota trasmessa dall’ambasciata al nostro Ministero degli Affari Esteri«dopo aver forzato il portone d’ingresso, sono entrati dentro il palazzo e alle domande della portiera hanno risposto che fanno parte della polizia. Dopo aver illuminato il corridoio del secondo piano, hanno eseguito delle foto». Poi escono e ripartono a bordo di un’auto che, a seguito di recenti verifiche, abbiamo appurato essere una Fiat 132. Un dettaglio non di poco conto. Perché la polizia era dotata di Alfa Romeo e perché la 132 era il modello delle vetture ministeriali (vedere Aldo Moro a via Fani), le cosiddette «auto blu». Per cui, se fossero stati davvero agenti di polizia, oltre a un abbigliamento da civili quegli uomini avevano utilizzato un veicolo alternativo rispetto ai consueti. Ma più che altro ci si domanda: perché la polizia avrebbe dovuto comportarsi come una sgangherata banda di delinquenti? E per giunta in pieno giorno e al Fleming, una delle zone più benestanti di Roma. [Vedi nota dell’ambasciata bulgara]

«GARANTITE LA SICUREZZA»

Preoccupata, l’ambasciata di Sofia chiede alla Farnesina le dovute spiegazioni: «Il Ministero degli Affari Esteri chiarisca se […] fanno parte o meno della polizia e, in caso che questo fatto risulti positivo, in base di quali motivi e ragioni la polizia è entrata nel palazzo». Parole nel vuoto. Perché tempo quarantott’ore e gli attacchi s’intensificano. Alle 15 il console dell’ambasciata, Hristov Ghenev, nota la presenza di sei giovani muniti di cinepresa davanti allo stabile. Dove alle 22 la polizia interviene per l’ennesimo furto: «[…] la porta di uno degli appartamenti al pian terreno è stata sfondata, mentre oggetti, valige, armadi e altri erano in disordine. […] Mancano soldi e documenti». L’indomani da via Rubens chiedono di nuovo in forma ufficiale che «siano prese le misure necessarie per la vigilanza del palazzo». Anche perché non era la prima volta che veniva colpito. Come era già capitato che cittadini bulgari dell’ambasciata fossero vittime di fatti analoghi. Il mese precedente, nella notte tra il 4 e il 5 novembre, a via Panaro (quartiere Trieste), ignoti avevano rubato la Fiat 128 del segretario della rappresentanza militare, Todor Voulev. Anche se al tempo certi furti non erano insoliti, perché le auto non erano dotate degli efficienti sistemi di sicurezza odierni, si trattava comunque di un’altra zona della città dall’alto tenore sociale, dove «sicurezza» era una delle parole d’ordine.

La prima azione violenta nei confronti della palazzina di via Galiani si era invece registrata l’11 settembre. Alle 17:30 ignoti avevano sfondato la porta di un’abitazione al primo piano, dove viveva l’addetto culturale dell’ambasciata, Assen Marcevski. L’uomo stava riposando insieme alla moglie. Svegliato dai rumori, era riuscito a mettere in fuga i malviventi. Sempre in quei giorni era stata tentata un’effrazione anche nell’alloggio di un altro funzionario, Alexander Bacharov. Al che l’ambasciata aveva chiesto alla Farnesina l’adozione di provvedimenti idonei a «garantire la sicurezza e lo svolgimento normale dell’attività del personale». Un appello rimasto inascoltato, come si può dedurre dagli episodi di novembre e dicembre, che chiudevano il cerchio degli attacchi contro i bulgari, aperto il 9 aprile con il furto di 1.500.000 lire a opera di sconosciuti a casa di un rappresentante della Balkan Air, Hristo Notchev, anch’essa a via Panaro.

LE «TURBOLENZE» AL CIVICO 36 DI VIA GALIANI E LA «PISTA BULGARA»

Se quest’ultima disavventura può attribuirsi a qualche malintenzionato in cerca di fortuna, visto che è isolata rispetto al contesto, lo stesso non può dirsi per tutte le altre. Perché succedono dopo l’articolo della Sterling sul Reader’s Digest (settembre 1982) e aumentano dopo che Agca fa i nomi dei tre bulgari che sarebbero stati suoi complici nell’attentato al Papa: Sergej Antonov, Jelio Vassilev e Todor Ayvazov (fine ottobre-inizio novembre 1982).

Proprio quest’ultimo riveste un ruolo centrale nella comprensione di questi accadimenti. Perché abitava proprio a via Galiani, particolare che Agca userà per dimostrare una loro presunta conoscenza. Secondo quanto dichiara al giudice istruttore Ferdinando Imposimato il 21 febbraio 1983, in quella casa si sarebbero progettati gli attentati al Papa e a Lech Walesa: «Nella prima decade di gennaio incontrai davanti al Ristorante “Piccadilly” (locale del centro di Roma, ndg) il Maggiore Kolev (Jelio Vassilev, ndg). Qui mi disse che sarebbe giunto dopo qualche giorno Lech Walesa (parlandomi in inglese) e mi diede appuntamento per quella sera stessa a casa di Ayvazov in via Galiani 36. La sera mi recai a bordo di un taxi in via Galiani 36 e salii nell’appartamento di Ayvazov al primo piano. Alla prima riunione che avvenne quella sera stessa […] Kolev mi chiese se sarei stato in grado di compiere da solo l’attentato per uccidere Walesa».

Dunque la palazzina di via Galiani epicentro del terrorismo internazionale? Per niente. Intanto perché Agca il 19 novembre 1982 aveva affermato che l’attentato a Walesa era stato ideato sempre in un incontro a via Galiani, ma che si sarebbe tenuto nel dicembre 1980. Lo si apprende dalla sentenza di primo grado del processo. «Riferiva l’Agca di aver conosciuto il Bayramic precisamente “nel dicembre 1980” sempre in Roma […] Con il Bayramic (Sergej Antonov, ndg) si era incontrato nel corso del mese di dicembre non più di due volte (di cui una in una abitazione di Via Galiani 36, dove si era recato insieme con il Petrov) per discutere intorno al progetto di un altro attentato da compiere ai danni del leader polacco di ‘Solidarność’ Lech Walesa». E poi l’inattendibilità del turco è manifesta nella posizione dell’appartamento di Ayvazov. Ai magistrati bulgari, che lo interrogano tramite rogatoria nell’ottobre 1983, lo colloca «al terzo piano, interno 11» mentre ai nostri, come abbiamo letto poco fa, aveva detto al primo. Sennonché si trovava al «secondo piano, interno 12», come riscontrato dai fatti e affermato dal diretto interessato ai nostri giudici nel luglio dello stesso anno, quando erano volati a Sofia per sentirlo. Agca poi sostiene: «Per mettermi in comunicazione con Sotir Kolev (Todor Ayvazov, ndg), formavo il numero 3272629». Peccato che Ayvazov in casa fosse sprovvisto di telefono, come risulta dai riscontri degli inquirenti e come conferma il 28 settembre 1983 il direttore della Balkan Tourist, Mikhail Vessilinov: «Conosco bene Todor Ayvazov. […] Egli, presso la sua abitazione di via Galiani 36, non aveva il telefono in casa, pertanto, allorché dovevo mettermi in comunicazione con lui, mi rivolgevo ad un vicino munito di telefono».

Infine, portato a via Galiani per individuare il condominio, una volta coperti tutti i civici della via, Agca lo indica sul lato dei numeri dispari quando invece si trovava su quello opposto. L’ennesimo errore che ribadisce la sua inattendibilità e l’infondatezza delle sue accuse contro i bulgari, già emerse nei nostri precedenti contributi sull’attentato al Papa. Rimane comunque aperta la domanda su come fosse al corrente di alcune informazioni sul loro conto. Come la descrizione del bagno dell’appartamento di Ayvazov, situato allo stesso piano oggetto di quello strano interesse di quei soggetti che si spacciarono per agenti di polizia. Si approfondì mai chi furono quegli uomini? Che ne fu delle denunce dell’ambasciata bulgara? E si scoprì mai la ragione di tanto accanimento contro quell’edificio? Ma soprattutto: fu soltanto una coincidenza che le turbolenze al civico 36 di via Galiani scoppiarono in concomitanza con il decollo della «pista bulgara»?