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Una «sveglia» per l’Italia. Adriano Sansa e i giovani pretori d’assalto

Redazione Spazio70

Da un articolo del «Corriere d'Informazione» (1974)

Hanno affrontato le battaglie più audaci di questi nostri anni inquieti; si sono votati al rispetto delle grandi leggi ecologiche per salvare quello che resta del nostro inquinato Paese; hanno scosso l’Italia con una serie di casi clamorosi, senza temere nessuno. Li chiamano «pretori d’assalto»: qualcuno li accusa di imprudenza oppure di ambizioni che vanno al di là della loro competenza o ancora di voler scardinare le antiche regole della magistratura. Altri, invece, identificano in loro i superstiti interpreti della «vera giustizia» quasi potessero coesistere due giustizie.

Li accomuna l’età: sono tutti intorno ai trent’anni, nati in epoca di guerra, quasi col segno premonitore di un destino di lotta. Lo stesso entusiasmo, la stessa certezza nel diritto, anche se esercitano al livello modesto delle preture. Ma chi sono, cosa vogliono, come agiscono questi giovani giudici che di continuo danno la sveglia a una società italiana rassegnata ai giochi di sottogoverno, alle prevaricazioni dei gruppi di potere, alla girandola di miliardi che sta dietro, per esempio, all’ultimo clamoroso episodio dello «scandalo del petrolio»?

L’intervista con il pretore Sansa, fatta prima che scoppiasse il «caso Garrone», vuole sintetizzare appunto i principi cui si ispirano i «pretori scomodi».

«NON MI ASPETTAVO TANTA RISONANZA DA PARTE DELLA STAMPA»

Il dottor Adriano Sansa, ormai chiamato da tutti il «pretore d’assalto» per avere dato il via a Genova ad alcune inchieste clamorose, non ha né il fisico né il morale dell’ardito che esce dalla trincea con il pugnale tra i denti. La sua solitaria offensiva per una giustizia più giusta, che gli ha procurato due procedimenti disciplinari e molte amarezze, deve essere stata più il frutto di una tormentata crisi di coscienza che di un generoso impeto dell’animo.

Il pretore Sansa è un uomo di trentatré anni, magrolino e timido, molto educato e molto borghese. Abita a Nervi, in via Sant’Ilario, villetta «La Sosta». Giunse a Genova nel 1969 con la moglie e un bimbo di un anno, dopo due anni di iniziazione al tribunale dei minorenni di Torino. Pochi mesi dopo, fresco pretore, aprì l’inchiesta sull’inquinamento del mare e proibì i bagni. Fu il primo intervento «ecologico» della magistratura e durò sei ore. Il dottor Sansa emise il provvedimento alle nove della mattina: a mezzogiorno la Procura avocò a sé l’inchiesta e alla 15 la archiviò.

La nostra conversazione, nel salotto di casa, fra i giocattoli del figlioletto sparsi sul pavimento, libri ammucchiati dappertutto, giornali, riviste e souvenir di un viaggio in Spagna, incomincia da quella prima inchiesta.

«Non mi aspettavo tanta risonanza da parte della stampa», dice Sansa. «Io i giornali li ho sempre letti, fin da quando ero studente: la stampa l’ho sempre considerata un importante elemento di controllo della vita pubblica. Però, per quanto abbia giornalisti in famiglia, non ero preparato al rapporto con loro, non avevo previsto che si sarebbero interessati di me. In un certo senso fui travolto dall’inesperienza».

«L’INFORMAZIONE? LA CONSIDERO UNA RESPONSABILE FORMA DI CONTROLLO»

Con antica prudenza, i superiori del giovane pretore attesero che il frastuono della stampa cessasse, poi si mossero. Gli giunse una secca comunicazione del Consiglio superiore della magistratura. Oggetto: «Rapporti con la stampa».

«Mi chiesero conto non solo di quello che avevo detto ai giornalisti», dice Sansa, «ma anche di ciò che non avevo detto. Fui rimproverato perché Novella 2000 si era occupata di me, anche se era evidente che io non avevo mai avuto rapporti con quel giornale. Non si trattava di violazione del segreto professionale, non avevo commesso questo reato, mi ero limitato a dare generiche indicazioni sul processo in corso: il fatto è che troppi nella magistratura pretendono il segreto assoluto, la protezione degli interna corporis, della casta. Impedire il controllo da parte dell’opinione pubblica vuol dire difendere il potere».

Il timido ed esile dottor Sansa dice cose che in vent’anni di professione non abbiamo mai sentito da un magistrato. O meglio, le abbiamo sentite, dette in confidenza, «ma per carità, non scrivetele perché mi rovinate». Invece Sansa si rende perfettamente conto che le sue parole appariranno sul giornale. «Ora con la stampa ho raggiunto una piena confidenza, pur rispettando i miei doveri di giudice e non rifiuto mai un colloquio con un giornalista. Certi miei colleghi mi rimproverano, vorrebbero che stessi zitto, che non salutassi neppure i giornalisti come fanno loro. Ma l’informazione non è una forma di spionaggio, è la nostra difesa a oltranza del segreto che qualche volta l’ha resa tale. Io la considero una responsabile forma di controllo».

«SIAMO TROPPO SEVERI COI POVERACCI, CON CHI RUBA UN LITRO DI OLIO ALLA STANDA»

E così in cerca di un responsabile colloquio, il 13 luglio il pretore Sansa scrisse una lettera a un giornale della sua città, il «Secolo XIX». «In questi giorni, nei quali la magistratura sta dilapidando un patrimonio di rispetto che aveva parzialmente salvato perfino dal passaggio del fascismo», scrisse il giovane magistrato, «il contributo critico di una stampa indipendente le è indispensabile per non smarrirsi del tutto». Fu un gesto provocatorio, attentamente calcolato. E le conseguenze non si fecero attendere: un’altra inchiesta disciplinare.

«L’inchiesta», ci dice Sansa, «mi pesa, non mi sono messo nei guai volentieri, ma ho la coscienza tranquilla e la posso sopportare Mi ero accorto che fra noi magistrati si respirava un’aria di catacomba e bisognava quindi aprire le finestre. Ho ricevuto attestati di stima da parte di giornalisti, sindacati, consigli di fabbrica, perfino dai frati di un convento dei carmelitani scalzi. E questo ha dato forza non solo a me, ma anche ad altri miei giovani colleghi».

«Nei miei interventi», dice ancora il pretore, «ho cercato di toccare quegli interessi con cui la magistratura è tradizionalmente tenera. Siamo troppo severi coi poveracci. Io devo dare quindici giorni di carcere a una mamma che ruba una bottiglia di olio alla Standa e non ho quasi strumenti per perseguire coloro che frodano milioni alla collettività. Nel mio ufficio siamo in due giudici in pochi metri quadrati. A Genova siamo in nove pretori con quattro cancellieri e una dattilografa. Fra tutte queste difficoltà, da qualche mese ho aperto un’inchiesta sull’incompatibilità degli incarichi dei medici ospedalieri. Ho il forte sospetto che molti di loro, che dovrebbero lavorare a tempo pieno per un ospedale, svolgano altri incarichi nelle ore di lavoro. Un primario che guadagna 20 mila lire all’ora in un anno può fare alla collettività un danno ben peggiore di un truffatore professionista che, per esempio, venda posate di ottone facendole passare per argento. Eppure l’indignazione pubblica sembra tutta per il venditore di posate».

«BISOGNA CHE SI ROMPA L’INTESA TRA MAGISTRATURA E PUBBLICI POTERI»

«Rischio di pestare i piedi a qualche grosso personaggio? Lo so», dice Sansa, «certi meccanismi non si sono ancora rotti. Per questo sono contento della solidarietà che molti mi hanno espresso. È più facile schiacciare una persona quando è sola. Io un maoista? Sono accuse che mi hanno mosso fin da subito, fin da tre anni fa. Ma non è vero, io sono un cattolico, credente e praticante. Sono nato in Istria a Pola, in una terra profondamente religiosa, e cerco di non dimenticare questa tradizione. Non ho fatto nulla di rivoluzionario, sono solamente venuto meno alle regole della clausura. Nella clausura il potere giudiziario si accresce, ma anche si snatura. Bisogna che si rompa l’intesa fra la magistratura e i pubblici poteri. Perché ci sono così pochi processi per peculato, perché ci sono tanti casi insoluti, apparentemente, insabbiati, da piazza Fontana all’agente Marino, fino a Primavalle? Il perché non lo chieda a me. Io vado avanti con le mie forze che sono modeste, ma altri aprono gli occhi attorno a me. Questo posso dirlo con orgoglio. Il mio esempio non è stato inutile».