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Da Cosa Nostra alla Banda della Magliana. Koh Bak Kin, il «signore» della droga

Matteo Picconi

«I mafiosi lo chiamavano Kim, come la marca delle sigarette, così era più facile ricordarsi quel nome complicato»

Non ha avuto la stessa notorietà di un Buscetta o di un Lucioli eppure il pentimento di Koh Bak Kin, divenuto collaboratore di giustizia nella prima metà degli anni Ottanta, rappresenta uno dei passaggi chiave della lotta alla criminalità organizzata. Grande fornitore di eroina per quasi un decennio, la sua storia si intreccia con quella delle cosche palermitane e catanesi, con la Banda della Magliana e con il signore della guerra Khun Sa – re del cosiddetto Triangolo d’Oro, compreso nelle zone di confine fra la Birmania, il Laos e la Thailandia, noto per le sterminate piantagioni di oppio.

«UN SEDICENTE UOMO D’AFFARI»

«Un trafficante di Singapore, un certo Koh Bak Kin, piccolo di statura e con la passione per la pittura e per l’alcol». Così Giovanni Bianconi introduce il personaggio «Kim» in Ragazzi di Malavita. Nato sull’isola di Singapore il 25 ottobre 1945, Kin inizia a trafficare eroina con l’Occidente molto presto. Nel 1976 viene fermato all’aeroporto di Fiumicino insieme a un insegnante di origine malese con ben venti chili di eroina. La notizia fa molto scalpore poiché il mercato dell’eroina è un fenomeno ancora in ascesa nella Penisola, mentre riscuote tragicamente un gran successo Oltreoceano fin dalla fine degli anni Sessanta. «L’ispezione minuziosa dei loro bagagli», si legge su L’Unità del 7 novembre 1976,«ha permesso di scoprire l’ingente quantitativo di eroina: si tratta di droga di “terza classe”, come hanno appurato gli agenti della squadra narcotici, detta “cinese”. Un tipo di eroina che sembra aver invaso negli ultimi tempi il mercato mondiale. Il suo valore ammonterebbe a oltre quattro miliardi di lire».

La stampa romana e nazionale si concentra proprio su quel «sedicente uomo d’affari di Singapore», apparentemente sbucato dal nulla, in realtà già al centro di importanti traffici tra la Thailandia e l’Europa, in particolar modo Italia e Francia. Roma, inoltre, non è solo uno scalo strategico nella rotta della droga: a metà degli anni Settanta il traffico di stupefacenti, destinati principalmente alle coste americane, è in mano al clan dei Marsigliesi, eredi italianizzati della famosa French Connection. In quegli anni anche le mafie iniziano ad interessarsi seriamente a questo business, rompendo così la tradizione che la droga (per dirla alla Vito Corleone di Coppola) fosse un affare «sporco». Tuttavia, non viene dimostrato nessun legame tra la criminalità organizzata italiana e il trentenne Koh Bak Kin, il quale non parla e viene condannato a sei anni di reclusione.

LA DETENZIONE A SULMONA, IL SALTO DI QUALITÀ

Per Koh Bak Kin si aprono le porte del maxi-carcere abruzzese di Sulmona: un soggiorno che per il trafficante singaporiano si rivela molto prezioso e che gli consente di entrare in contatto con personaggi di spicco della criminalità organizzata. Tra questi emerge su tutti il narcotrafficante palermitano Gaspare Mutolo, legato al clan dei Riccobono e uomo di fiducia di Totò Riina. Con Kin non condivide solo la cella ma anche la passione dell’arte (Mutolo attualmente è un pittore molto ricercato) e, ovviamente, il business della droga. «Anche se nessuno dei due parlava la lingua dell’altro, Mutolo prese Kin in simpatia. Attraverso pasti consumati insieme e piccoli gesti di generosità, cominciarono a costruire il bene più prezioso nel mondo infido del narcotraffico internazionale: la fiducia. Quando Kin ebbe imparato l’italiano abbastanza da poter parlare di affari, disse a Mutolo: “Gaspare, promettimi, appena esci, chiamami, e ti farò avere tutta la droga che ti serve” (…)» (1).

Sarà prima il «cinese» ad uscire dal carcere, nel 1980, ma non prima di aver stretto legami con alcuni esponenti della malavita romana, soprattutto con Gianfranco Urbani, detto «er Pantera». Un giro di affari, quello della Capitale, confermato anche dal pentito Maurizio Abbatino negli anni Novanta, come si legge nel Dossier Banda della Magliana pubblicato dalla Kaos nel 2009: «L’eroina, che commerciavamo, per come ho detto, unitamente al gruppo Selis e al De Pedis e compagni, la ricevevamo solitamente tramite Kin Koh Bak. Costui, da me conosciuto tramite Gianfranco Urbani detto er Pantera, cominciò a rifornirci d’eroina che egli introduceva in Italia, tramite suoi corrieri che venivano dalla Thailandia, o occultata nelle cornici di quadri, o nei doppi-fondi di valige. Gianfranco Urbani lavorava già la cocaina in proprio, e dopo che stabilimmo i contatti con Kin Koh Bak anche lui cominciò a partecipare al commercio dell’eroina, nella zona Tor Pignattara – Villa Gordiani, con la sorella Paola Urbani».

Dopo l’esperienza di Sulmona, per Koh Bak Kin inizia il periodo d’oro, diventando un punto di riferimento per lo smercio degli stupefacenti su più fronti. D’altronde ha le spalle ben coperte: tramite Mutolo gode dell’appoggio di Riina, dei Riccobono e del clan catanese dei Santapaola; insieme a Urbani, e ad altri esponenti dell’ormai affermata Banda della Magliana, riempie la Capitale di eroina; in Oriente gode della copertura di Kun Sa, al secolo Chan Shee Fu, il «re dell’oppio» e padrone incontrastato delle piantagioni che si estendono nelle campagne settentrionali thailandesi. Ma sui traffici del multimilionario Kin comincia ad indagare il pool antimafia guidato da Antonino Caponnetto, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Per il «cinese» è l’inizio della fine.

IL SEQUESTRO DELL’ALEXANDROS, L’ARRESTO DEL «CINESE»

Trafiletto dell’Unità sul sequestro della Alexandros

«Io tenevo il contatto con Koh Bak Kin», racconta Mutolo in un’intervista rilasciata a Giorgio Bongiovanni, pubblicata su Iskra nel 2013, «e gli altri investivano tramite me. Ognuno metteva quello che aveva, 20 milioni, 50 milioni, 100 milioni. Non importava. Più investivi e più guadagnavi. All’inizio la droga (eroina) si mandava soprattutto in America dove le famiglie me la pagavano 160 milioni (di lire) al kg. Del resto in Thailandia non c’erano problemi per avere la morfina ed il prodotto lì era migliore». Ingenti quantitativi d’eroina entrano nella penisola via mare o aerea. Il volume di affari cresce a dismisura e i clan mafiosi alzano il tiro. È il 4 aprile 1983 quando dal porto greco di Eleusi salpa la Alexandros G. Il 3 maggio la nave, che trasporta materiale edilizio, giunge in Thailandia dove vengono imbarcati diversi cartoni carichi d’eroina. La Alexandros inverte la rotta e traversa l’Oceano Indiano, giungendo presso il Canale di Suez il 24 maggio. È sorvegliata e non appena approda a Port Said scatta il blitz della polizia egiziana che la perquisisce, rinvenendo così il carico extra. Le cifre sono da capogiro: «Nella stiva duecentocinquanta chili di eroina e venticinque di morfina base (…), ma il sospetto è che la nave sia già stata alleggerita della metà del carico: cinquecento chili, la più grande partita mai commerciata con l’Italia, per il corrispettivo stellare di ventisette miliardi di lire» (2). A bordo dell’imbarcazione viene trovato un italiano, uomo di fiducia di Mutolo e di Koh Bak Kin: è Fioravante Palestini, il famoso culturista protagonista anni prima della reclame della Plasmon. Arrestato dalla polizia egiziana, viene condannato a venticinque anni di reclusione; ne sconterà venti, fino al 2003, quando ottiene l’estradizione in Italia. È proprio con l’arresto di Palestini che Giovanni Falcone si mette sulle tracce di Kin, emettendo nei suoi confronti un mandato di cattura internazionale il 12 luglio ’83. Braccato per le vie di Bangkok, il trafficante singaporiano si consegna spontaneamente alla polizia italiana un mese dopo. Nell’autunno seguente, abbandonato a sé stesso, il «cinese» inizia a collaborare.

«HA DETTO MOLTO MENO DI QUELLO CHE SAPEVA»

«Falcone mi disse subito, gentile e diretto, che avevano preso la nave. “Ma che sono armatore io?” scherzai. “No, la nave con la droga di Koh Bak Kin”. “Ma io non conosco nessun Koh Bak Kin” dissi, ridendo. Mentivo, ovvio». (3) Aveva poco da scherzare Gaspare Mutolo in quell’estate dell’83, divenuto collaboratore di giustizia molto più avanti, nel 1991. Nelle indagini che hanno portato al maxi-processo di Palermo del 1986 le dichiarazioni del «cinese» rivestono un ruolo fondamentale. Tuttavia il pentimento di Tommaso Buscetta avvenuto nel 1984 (il primo dei grandi boss a delineare la struttura, le gerarchie e il sistema di Cosa Nostra) ha di fatto rubato la scena al trafficante di droga. L’importanza di Kin, in qualità di pentito, si fonda soprattutto nell’aver messo in luce il giro d’affari più grande, insieme a quello dell’edilizia, su cui si basava l’economia delle mafie da quasi un decennio, sfatando così quel tabù secondo il quale le «famiglie» non avevano nulla a che fare con il traffico degli stupefacenti. «Il racconto di Koh Bak Kin ai giudici di Palermo», si legge in un articolo di Luca Rinaldi, pubblicato su Linkiesta nel 2014, «è custodito in ben otto faldoni degli atti del maxi-processo e i giudici del pool scrivono a chiare lettere che Kin abbia detto molto meno di quello che sapeva». Condannato a otto anni di reclusione, esce di scena con la conclusione del processo a Cosa Nostra, nel 1992. Una delle ultime notizie che lo riguardano risale al 1990, quando partecipa allo sciopero dei «cento pentiti», mirante a ottenere una maggiore tutela da parte dello Stato. In seguito, come è consueto quando si parla di collaboratori di giustizia, di lui non si è saputo più nulla.

NOTE

(1) Mafia Republic: Cosa Nostra, camorra e ‘ndrangheta dal 1946 a oggi, John Dickie, ed. Laterza, 2016

(2) Roma, l’impero del crimine; Yari Salvetella, Newton Compton Editori, 2011

(3) La mafia non lascia tempo; Gaspare Mutolo con Anna Vinci, Rizzoli, 2013