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Enrico De Pedis: misfatti e misteri di un intoccabile (2^parte)

Tommaso Nelli

La fine violenta di «Renatino» non dissolse le nubi sulla sua figura. Tutt’altro. Perché fece emergere i suoi rapporti con ambienti ecclesiastici e non solo

Rettore della basilica di S. Apollinare fino al 1991, don Piero Vergari era diventato amico di Enrico De Pedis a Regina Coeli – dove prestava assistenza ai detenuti – celebrandone poi le nozze, sempre a S. Apollinare, nel giugno del 1988. Quando Renatino aveva già ripreso i suoi affari. E in grande stile. Dal controllo di attività commerciali attraverso prestanome – lavatrici per ripulire denaro di illecita provenienza secondo gli inquirenti – al commercio di oggetti di antiquariato fino a quello di lampade, ricevute in stock da personaggi con precedenti per stupefacenti, ritenute, sempre dagli investigatori, nascondigli per la droga. Perché lui, queste lampade, preferiva «scaricarle in un posto più sicuro», dove nessuno potesse vederle, come i suoi due magazzini in via dei Cappellari (centro storico) e via Bertani (Trastevere), e a volte appariva estremamente preoccupato di recuperarne al più presto le parti finite per errore in oreficerie alle quali non erano destinate.

Ben presto, nei confronti di De Pedis, si riattivarono intercettazioni telefoniche, pedinamenti e appostamenti. E affiorarono nuovamente i suoi rapporti con altri pregiudicati del periodo – Er Gnappa Manlio Vitale, Er Tartaruga Salvatore Sibio, Giuseppe Peppe Scimone – ed esponenti del malaffare romano come Enrico Nicoletti, l’uomo che negli anni Ottanta acquistò, dal Vicariato, Villa Osio – l’odierna Casa del Jazz – a una cifra irrisoria rispetto al suo valore per poi tramutarla in una dimora imperiale.

UN IMPRENDITORE DI SUCCESSO? NO, UN BOSS

Ma in particolare De Pedis aveva rapporti con Giuseppe Sergione De Tomasi, proprietario del noto locale Jackie ‘O di via Veneto, personaggio di spessore del crimine capitolino, dedito soprattutto all’usura e al riciclaggio di assegni, in contatto con esponenti della camorra e con Massimo Carminati. Renatino passava spesso a trovarlo in uno dei suoi negozi, una boutique a via della Vite, tra piazza di Spagna e via del Corso. De Pedis, come rileverà il Reparto Operativo dei Carabinieri nell’estate del 1988, dopo la sua recente scarcerazione, sembra infatti «essersi nuovamente e saldamente reinserito al vertice della consorteria criminale, unitamente al già accennato pluripregiudicato De Tomasi Giuseppe. Avrà modo nella presente e complessa investigazione di manifestare il suo alto livello imprenditoriale nel curare l’aspetto direttivo dell’organizzazione, nel reinvestire i capitali acquisiti nei traffici illeciti quali la gestione dei circoli ricreativi, l’usura, e verosimilmente, il traffico internazionale di sostanze stupefacenti».

Renatino aveva insomma ormai fatto il salto di qualità rispetto alle scapestrate origini. Maneggiava soldi – tanti – vestiva raffinato, si informava di quadri e con la moglie era andato a vivere prima nella residenziale zona della Balduina e, successivamente, a piazza della Torretta. Era a tutti gli effetti un imprenditore di successo. Che però si comportava come un boss. Aveva infatti luogotenenti come Maurizio Lattarulo – con trascorsi giovanili nei NAR (i Nuclei Armati Rivoluzionari), incaricato di riscuotere i guadagni dei videopoker – detto Provolino perché si burlava della polizia quando gli venivano trovate addosso ingenti somme di denaro: «Nella circostanza», come scrisse la Squadra Mobile il 19 settembre 1989, «lo stesso, denunciato in stato di libertà per ingiustificato possesso di valori, ha dichiarato di essere nullatenente e di usufruire di saltuari aiuti economici da parte della madre, E. P., per il suo mantenimento». Oppure poteva accadere che, sempre Renatino, facesse da paciere per non compromettere degli affari. «Appare molto significativo», scrivono i carabinieri, «che il N., il D.B. il D. Be., il B. e il C. e gli altri personaggi menzionati facciano riferimento al pluripregiudicato romano Enrico De Pedis per appianare o risolvere contrasti o problemi sorti nella gestione delle attività suddette».

Però, pur agendo in un certo senso alla luce del giorno, De Pedis, si muoveva come un latitante. Sul citofono di casa non c’era né il suo nome, né quello della convivente, bensì il riferimento di un’impresa edile, la Vittoria Costruzioni. Solito girare con addosso molti gettoni telefonici – ne aveva addirittura ventiquattro il giorno della morte perché era lui a chiamare per il timore di essere intercettato – la sua utenza era conosciuta da pochi. Ma gli inquirenti la avevano comunque messa sotto controllo. Come quella del suo dentista, che aveva precedenti per detenzione e spaccio di stupefacenti, e lo studio a 1 km dal Vaticano. Dove la polizia, passata un giorno per un controllo, vi trovò un noto trafficante di droga (tal Andrea L.) e lo stesso De Pedis, nascosto però nel box doccia del bagno. Motivo? Gli dava fastidio essere controllato insieme a un altro pregiudicato.

UN PAIO DI KILLER LAST MINUTE?

Nella seconda metà del 1989, De Pedis ottenne il passaporto e andò in America. Lo ebbe nuovamente tra la fine dell’anno e l’inizio del successivo. «Voleva fare un viaggio a Leningrado», disse in Procura P. B., segretaria di uno dei suoi avvocati, interrogata dopo l’omicidio. Ma non sapeva che non avrebbe fatto in tempo. Il suo nuovo status sociale aveva aumentato l’invidia, progressivamente sfociata in rancore, dei componenti della Banda rimasti in vita o non latitanti all’estero (vedi Maurizio Abbatino, evaso da Villa Gina prima del Natale 1986 e fuggito in Venezuela dove fu arrestato nel 1992). Secondo le deposizioni processuali di Vittorio Carnovale, De Pedis non rispettava più la regola della stecca para. Cioè la divisione dei guadagni in quote uguali per ciascun membro dell’associazione. E aveva anche smesso di passare la settimana, cioè il sussidio economico alle famiglie dei componenti della banda in carcere. Infine, c’era il desiderio di vendetta per l’omicidio di Edoardo Toscano, freddato la mattina del 16 marzo 1989 sul lungomare di Ostia. Un agguato, del quale non sono stati trovati i responsabili, attribuito a Renatino dalle parole, mai riscontrate, di Fabiola Moretti«Renatino venne a sapere che Edoardo lo cercava e ritenne di doverlo far uccidere, in quanto altrimenti sarebbe stato ucciso lui […] Io seppi questo dopo e non prima dell’omicidio» – e dalle ipotesi di un altro della Banda, in detenzione, Claudio Sicilia.

Così, il 2 febbraio 1990, Vittorio e Giuseppe Carnovale, Libero Mancone e Marcellone Colafigli decisero di regolare i conti una volta per tutte. Seppero che De Pedis doveva passare in via del Pellegrino da un antiquario conosciuto durante una comune carcerazione. Scelsero uno di loro, Angelo Angelotti, trafficante di gioielli, come esca. La ricostruzione ufficiale raccontò di un’accesa discussione tra i due (anche se non si è mai capito bene se nella via oppure sulla vicina piazza di Campo de’ Fiori), di Angelotti che lo rese riconoscibile agli assassini e di Renatino che salì sullo scooter e prese contromano via del Pellegrino, inseguito dalla moto vista dalla dottoressa Calvanese. Quella senza targa, quella dei killer. Che gli perforarono il polmone con un proiettile. A spararlo, Dante Del Santo, Il Cinghiale, un carrarino conosciuto da Marcellone al manicomio criminale. A guidare la motocicletta, un suo conterraneo, Alessio Gozzani, portiere di belle speranze della Carrarese prima di finire in giri sbagliati.

Sennonché anche su quel delitto all’ora di pranzo si addensano dubbi e domande. A cominciare dalla scelta del commando ingaggiato all’ultimo momento, secondo le deposizioni di Carnovale. Nei giorni precedenti l’assassinio, Del Santo e Gozzani erano scesi a Roma per rifornirsi di droga dalla Banda. Appresero del piano e accettarono di partecipare. Ma come? L’associazione criminale più potente di Roma, spinta soprattutto dal desiderio di vendetta, vuole eliminare un capo come De Pedis e si affida a un paio killer last minute? Comunque due molto bravi con le armi visto che portarono a termine la missione con un colpo solo, in una zona iper-trafficata e in un orario di punta. Roba da tiratori scelti.

LA MORTE DA «INCENSURATO»

Altre singolarità. Nel tempo anche la versione ufficiale ha subìto riscritture buone per alimentare caos e lo sbarramento alla verità. Perché alla guida della moto, sempre per i collaboratori di giustizia, non ci sarebbe più stato Gozzani bensì Antonio D’Inzillo. Un personaggio con trascorsi nell’estremismo nero, in odore di combutta con agenti segreti, deviati per alcuni, per altri lui stesso un uomo dei Servizi, cremato dopo la morte in Kenya nel 2008, ad appena quarantacinque anni, per una presunta cirrosi epatica.

Sarebbe ora lecito chiedersi: ma i diretti interessati che dissero? Non lo sapremo mai. Perché il dibattimento sull’omicidio di Renatino iniziò nel 1995. Quando D’Inzillo, poi condannato all’ergastolo, era già latitante mentre Del Santo e Gozzani già morti. E così le domande su quel venerdì d’inverno sono rimaste sui sanpietrini insanguinati di via del Pellegrino. Insieme alle conoscenze e alle ombre della vita di De Pedis. Come i suoi «contatti con i servizi segreti». Lo scrisse la sentenza della Corte di Appello di Perugia relativa all’omicidio di Carmine Pecorelli, il giornalista ucciso a Roma, in via Orazio, la sera del 20 marzo 1979, da un sicario mai individuato. Ma non si va oltre. E non si è mai riusciti a saperne di più, perché Renatino era già defunto ai tempi della lunga inchiesta della magistratura umbra. Nella quale Antonio Mancini affermò che De Pedis gli avrebbe rivelato i nomi degli assassini del direttore di OP – Osservatore Politico: Massimo Carminati e un certo Angelino il biondo, poi identificato nel mafioso Michelangelo La Barbera. Una versione però non passata in giudicato, tanto che quel delitto è ancora senza verità.

Accertati invece i rapporti di De Pedis con la destra eversiva, come dimostrato dai suoi incontri del 1980 con Alessandro Alibrandi (figlio del giudice Antonio), lo stesso Carminati e Stefano Tiraboschi al bar Fermi, zona EUR, ritrovo abituale dei neofascisti.

Nell’ordinanza di rinvio a giudizio del Tribunale di Roma nata dalla cosiddetta Operazione Colosseo e dalle dichiarazioni di Maurizio Abbatino, collaboratore di giustizia dopo l’arresto in Venezuela, si perde il conto di quante volte ricorra il suo nome. Ma giunti alla pagina dei verdetti si legge che, pur sussistendo «sufficienti prove per il rinvio a giudizio», per De Pedis, «deve dichiararsi la causa di estinzione del reato». Il motivo è nella data: agosto 1994. Per cui Renatino a Campo de’ Fiori cadde da incensurato. Anche se va precisato che la condanna per l’arresto del 1973, confermata in Appello e col ricorso respinto dalla Cassazione, fu condonata soltanto grazie all’amnistia del decreto della Presidenza della Repubblica dell’agosto 1978.

«IL DEFUNTO È STATO GENEROSO NELL’AIUTARE I POVERI»

La morte però non dissolse le nubi sulla sua figura. Tutt’altro. Perché fece emergere i suoi rapporti con gli ambienti ecclesiastici. Anello di congiunzione, ancora una volta, don Vergari, celebrante delle esequie nella chiesa di S. Lorenzo in Lucina, alla presenza di molti dei notabili del crimine romano fin qui trovati, e dopo le quali Renatino fu tumulato al Verano, nella tomba di famiglia della moglie. Salvo poi, dopo nemmeno cento giorni, essere traslato nei sotterranei della basilica di S. Apollinare. In una cripta tutta per sé all’interno di un sarcofago in marmo bianco con incisi nome e cognome sul davanti mentre su un lato, incastonato in oro e zaffiri, lo pseudonimo Renato. Questo scrisse la DIA (Direzione Investigativa Antimafia) nel settembre 1995. Ma perché tributare un così alto privilegio al soprannome anche in quest’occasione? La sepoltura venne autorizzata dal cardinale Ugo Poletti in persona. Cioè il vicario del Papa su Roma, che il 10 marzo 1990 acconsentì alla richiesta formulata da Don Vergari soltanto quattro giorni prima: «Si dichiara che, da parte del Vicariato, nulla osta per quanto di sua competenza alla tumulazione della salma di Enrico De Pedis, deceduto il 2.2.1990, in una delle camere mortuarie site nei sotterranei della Basilica di S. Apollinare in Roma».

La motivazione di un onore così principesco? La beneficenza. «Il defunto è stato generoso nell’aiutare i poveri che frequentano la Basilica, i sacerdoti e i seminaristi e in suo suffragio la famiglia continuerà a esercitare opere di bene, soprattutto contribuendo nella realizzazione di opere diocesane», scrisse il monsignore a Sua Eminenza. Al pm Andrea De Gasperis, che nel 1995 aprì un fascicolo su quella faccenda senza però riuscire a saperne di più nonostante un’indagine capillare, precisò che «De Pedis si mostrò generoso con i poveri elargendo somme non eccezionali nell’ordine di 100-200mila lire». Una spiegazione a dir poco risibile, soprattutto se abbinata alle parole del monsignore del dicembre 2009, quando precisò che «a S. Apollinare, ogni sabato, assistevamo una cinquantina di poveri in vestiti e denaro ed Enrico dava i suoi contributi». Perché, stimandole dal suo ritorno in libertà fino al giorno della morte (due anni), chiunque di noi, al giorno d’oggi, con circa 20000 euro potrebbe permettersi una sepoltura in ambienti sacri. Senza contare che durante la mia inchiesta sulla scomparsa di Emanuela Orlandi inquirenti e personale della scuola di musica T. L. Da Victoria, situata all’epoca nell’adiacente palazzo di S. Apollinare, mi hanno raccontato come nella basilica non ci fossero né poveri e né mense.

IL CASO ORLANDI E L’INTERCETTAZIONE DI «SERGIONE» DE TOMASI

Sulle cronache la storia comparve nel luglio 1997 per merito della collega Antonella Stocco (Il Messaggero). Seguirono proteste del sindacato delle forze di polizia e un’interpellanza parlamentare della Lega Nord. Ma non cambiarono la situazione. E ancora oggi, nel rileggere la vicenda, sconcerta anche la celerità ad approvare quel trasferimento da parte del Vicariato e del Comune di Roma. Come mai così tanta premura a concedere il via libera, specialmente da parte del cardinal Poletti, depositario dell’ultima parola? Una domanda la cui risposta è un silenzio sempre più ingombrante.

La storia di quella sepoltura fu riattualizzata tra il 2005 e il 2012, quando il nome di De Pedis fu associato alla scomparsa di Emanuela Orlandi. Un discorso che qui non affrontiamo per esigenze di spazio – meriterebbe almeno un articolo a sé – e perché sviluppato da chi scrive nella sua opera sulla giovane cittadina vaticana. Facciamo presente che la magistratura aprì la sua tomba, nella quale non c’erano tracce della povera Emanuela bensì soltanto la sua salma (riconsegnata poi alla famiglia che la cremò), e rileviamo soltanto due aspetti su quella connessione, buona per prelibate suggestioni letterarie e cinematografiche. Il primo: non fu Renatino la persona che Emanuela seguì la sera del 22 giugno 1983 quando si persero per sempre le sue tracce. Una considerazione fondata sulla logica. Un latitante, come lui in quel periodo, non adesca minorenni nel centro storico di Roma, trafficato a ogni ora del giorno e della notte, per di più di fronte al Senato della Repubblica, col rischio di essere riconosciuto. Sempre che non sia un pazzo. E non era certo il caso di De Pedis che – come abbiamo visto – viveva con circospezione al punto da non utilizzare il telefono per evitare controlli.

Secondo aspetto: non è comunque da escludersi un suo ruolo nella vicenda della giovane cittadina vaticana. Perché c’è un’intercettazione ambientale di fine aprile 2010, uno degli inediti del nostro libro Atto di Dolore e di cui vi abbiamo già raccontato, dove De Tomasi lo vorrebbe come l’uomo che, insieme a Er Principe Luciano Mancini, avrebbe seppellito il corpo della ragazza a Torvajanica. Particolare trascurato dagli inquirenti, che mai interpellarono Sergione dopo quelle parole, e altro mistero della breve quanto avventurosa vita di questo intoccabile personaggio. L’ennesimo. E non ci stupirebbe che non sia l’ultimo.