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Dopo l’attentato a Carlo Casalegno. Torino ’77 e l’indifferenza operaia

Redazione Spazio70

Da un articolo dell'inviata Franca Rovelli per «Epoca»

Torino operaia ha risposto sordamente, senza emozione, al ferimento di Carlo Casalegno da parte delle Brigate rosse. Lo sciopero di un’ora, indetto nelle fabbriche l’indomani dell’attentato, ha dato scarsissimi risultati di partecipazione. «Quando è morto il giovane Roberto Crescenzio», ricorda un rappresentante del consiglio di fabbrica Fiat-Mirafiori, «l’astensione è stata del cento per cento. Questa volta hanno scioperato più impiegati che operai». «Questo atteggiamento si può spiegare in molti modi», interviene un altro. «La classe lavoratrice torinese non ha saputo scindere la figura del ferito, della vittima, da quella del vicedirettore della Stampa, il giornale di Agnelli». In queste ultime settimane, infatti, la voce della Fiat si è fatta sentire pesantemente nel commentare il rifiuto degli operai al lavoro straordinario del sabato. Ancora nei giorni scorsi ha scritto: «I clienti che hanno prenotato la 127 aspetteranno 60-80 giorni, mentre la concorrenza consegna in 15-20 giorni. La lotta per conquistare i clienti è feroce e le occasioni di lavoro perdute oggi potrebbero compromettere anche il futuro».

IL RUOLO GIOCATO DAI DELEGATI DEL CONSIGLIO DI FABBRICA NELLO SPIEGARE IL RISVOLTO ANTIOPERAIO DEGLI ATTI DI VIOLENZA POLITICA

Ribatte in sintesi il consiglio di fabbrica: «Lo straordinario che ci viene richiesto non è contingente, ma rivela l’esigenza di un aumento di organico. Noi ne avevamo già fatto richiesta fin dalla primavera scorsa, dopo aver previsto che il mercato avrebbe avuto un lieve miglioramento. Per tutta risposta la Fiat, dopo Pasqua, ci ha mandato in ferie forzate affermando che, invece, il mercato era in discesa. Ora che deve ammettere la validità delle nostre previsioni, tenta di rimediare imponendoci sabati di straordinari o elargendo l’assunzione di 300 operai. Ma quali assunzioni? Abbiamo scoperto che si tratta soltanto di uno spostamento di manodopera da altre piccole aziende che ruotano nella sfera Fiat. Quindi niente assunzioni, ma mobilità. Questo fatto è ancora più grave se si pensa che in città i disoccupati attuali sono circa 16 mila. E’ importante conoscere il clima in cui stiamo lavorando e lottando se si vogliono capire i motivi per cui gli operai – o molti di essi – non hanno saputo distinguere fra il dovere di manifestare contro la violenza e la necessità di protestare anche quando il colpito – o il suo giornale, in questo caso – può essersi trovato dall’altra parte della barricata».

L’atteggiamento degli operai Fiat, in ogni caso, non ha mancato di preoccupare. L’Unità, quotidiano del Partito comunista, ha dedicato ampio spazio al problema e un articolo del presidente del partito, Luigi Longo. Giancarlo Pajetta era domenica scorsa al teatro Alfieri di Torino per parlare, fra l’altro, anche di questo. I delegati del consiglio di fabbrica sentono la necessità di spiegare nuovamente il risvolto antioperaio degli atti di violenza politica di cui il capoluogo piemontese è spesso vittima: «Occorre che tutti», dicono, «ma primi fra tutti noi, abbiano ben chiaro qual è il gioco che fa più comodo al padrone (non solo ai nostri padroni), che cosa gli conviene maggiormente: un operaio che dica no e basta, che si opponga con violenza a ogni iniziativa, che metta in pratica la dottrina dei Nap e delle Brigate rosse, oppure un operaio che si stia impossessando della stessa cultura dei padroni, che vada alle trattative armato di conoscenza tecnica e di dialettica, non di P38? Nel primo caso essi avrebbero poi tutte le giustificazioni per reprimere la classe operaia. Il padrone teme maggiormente l’operaio che gli contesta i tempi di lavorazione, i programmi di produzione, la qualità della vita in fabbrica. E qualsiasi tentativo che fermi l’avanzata della classe operaia è un attentato alla classe operaia stessa. Appunto per questo inviteremo i compagni, i colleghi, a riflettere ancora sull’ultimo avvenimento che, almeno logisticamente, ci ha toccato da vicino».

«A NOI LE BRIGATE ROSSE NON CI AMMAZZANO»

Un altro appuntamento di riflessione è forse necessario. A pochi giorni dal ferimento di Carlo Casalegno, i commenti che si raccolgono ai cancelli della Fiat-Mirafiori, al momento del cambio per il turno pomeridiano, conservano qualche accento di rancore. Un operaio si affretta ai cancelli borbottando: «Casalegno avrebbe fatto lo sciopero se ammazzavano me? Provate a chiederglielo quando starà bene». «Di noi parlano soltanto quando gli fa comodo», aggiunge un altro operaio più anziano. «Ma se moriamo, magari sul lavoro, La Stampa non ci dedica neanche un trafiletto, soltanto il necrologio a pagamento. Lavorare in un certo modo, morire in un certo modo, morire in un certo modo sul lavoro – e non parlo soltanto della Fiat – non è forse violenza?»

«A noi le Brigate rosse non ci ammazzano», tenta di scherzare qualcuno arrivato in quel momento. «Sparano sempre a mezz’aria». Come a mezz’aria? «Non intendevo parlare della traiettoria dei colpi», precisa. «Volevo dire che difficilmente le Br o gli autonomi o chi altro spareranno agli operai o alla gente comune. Ma nemmeno penso che siano disposti a far fuori i pezzi grossi. Perché, in questo caso, potrebbero andare davanti al tribunale di Catanzaro: fra i testimoni del processo per le bombe di Piazza Fontana non avrebbero che l’imbarazzo della scelta. Colpire i giornalisti, la magistratura, uomini politici di secondo piano, il capo del personale o il piccolo dirigente con i quali abbiamo litigato fino a ieri durante le trattative, si presta fin troppo bene a tutte le interpretazioni emozionali e politiche. Dà fiato alla borghesia che si sente minacciata fin dentro casa e nel cuore dei suoi privilegi, alla classe imprenditoriale che ne approfitta per dare un ulteriore giro di vite, a quella parte della classe operaia che trova più comodo rifugiarsi nel qualunquismo. Ma non scoppiano le contraddizioni, non si innesca nessun processo rivoluzionario: questo le Br dovrebbero averlo capito, ammesso che siano in buona fede».

«LE BR ALL’INTERNO DELLA FIAT? CI SONO ALCUNI SIMPATIZZANTI»

Si chiudono i cancelli alle spalle degli operai di Mirafiori che cominciano il turno pomeridiano. Per alcuni c’è un appuntamento nella notte che va dal venerdì al sabato, per l’ultimo picchetto che blocca gli straordinari richiesti dalla Fiat. Gli operai che formano il picchetto davanti a una delle tante porte di ingresso non sono più di trenta: «Ormai è inutile essere in tanti», affermano. «I crumiri non sono sufficienti a far andare nemmeno una linea». Il fuoco acceso per riscaldarsi illumina l’alba: su una griglia abbrustoliscono le salsicce di una robusta prima colazione. Si riprendono i discorsi del giorno precedente. La sera qualcuno ha trovato un pacco di volantini delle Brigate rosse sul tetto di un’auto parcheggiata davanti a Mirafiori. «Le tesi politiche e lo stile di questi volantini non sono così rozzi come i precedenti», afferma un giovane operaio. «Significa che sulla piazza non c’è solo la manovalanza».

Credete che i brigatisti rossi siano anche all’interno della Fiat?, chiediamo. «Può darsi», è la risposta. «Certo ci sono alcuni simpatizzanti, altri che dopo il ferimento di Casalegno hanno detto “uno, cento 100 mila Casalegno”. Ma nessuno ha mai distribuito volantini delle Brigate rosse a viso aperto. Anche nel 1975, quando ci furono alcuni incendi alle linee, si era parlato di Brigate rosse che agivano all’interno. Tutto quello che possiamo affermare è che gli incendi sono avvenuti mentre nei reparti non c’erano più gli operai. E allora? E’ ragionevole pensare che in un gruppo di 60 mila lavoratori possono coabitare tendenze politiche di ogni sfumatura. Non solo fra gli operai, ma anche fra i quadri intermedi e dirigenti».

«Io mi sforzo di essere ottimista», dice un operaio che lavora alla Fiat da venticinque anni, «anche se qui dentro ne ho viste di tutti i colori: da quando, negli anni 50-60 la gente veniva assunta attraverso rigorose schedature politiche; all’impatto con l’immigrazione che in poco tempo ha raddoppiato la popolazione di Torino facendo scoppiare la città, i suoi servizi, il suo equilibrio dentro e fuori le fabbriche. Cerco di essere ottimista e di sperare che le cose si mettano a posto, prima del disastro. Ma devono incominciare a mettersi a posto là». E col braccio fa un gesto che nelle sue intenzioni dovrebbe passare il Po e gli Appennini, arrivare fin su, nei palazzi dei bottoni, nella capitale.