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Genova, 1977. Le Br rapiscono Pietro Costa

Redazione Spazio70

L'armatore verrà rilasciato il 4 aprile 1977, quasi tre mesi dopo il rapimento

Genova, 12 Gennaio 1977. Ore 19:30. Il dottor Pietro Costa si sta accingendo a lasciare il proprio ufficio presso il grattacielo di via D’Annunzio. Quarantadue anni, sposato con due figlie, l’uomo appartiene a una facoltosa famiglia di armatori e industriali genovesi. È il nipote di Angelo Costa, ex presidente di Confindustria, nonché figlio di Giacomo, gestore di un impero economico che comprende svariati settori: da quello marittimo a quello oleario, da quello immobiliare a quello finanziario. Come ogni sera, l’ingegnere sta rincasando a piedi e alle 19:50 è ormai giunto nei pressi di Spianata Castelletto, a due passi dalla propria abitazione. Le strade sono ancora affollate e in quel viavai di pedoni e autovetture il Costa neppure bada alla Fiat 132 ferma a motore accesso accanto a lui: entro pochi secondi si ritroverà «catapultato» all’interno di quel veicolo. Il commando entra in azione a volto scoperto, dinnanzi a decine di testimoni. Con estrema rapidità due uomini armati afferrano Costa spingendolo con forza nell’abitacolo della 132 che riparte a tutta velocità. Nel frattempo, due complici avevano sbarrato la strada parcheggiando una Fiat 125 di traverso sulla carreggiata, lasciando agire indisturbati gli altri membri del gruppo.

Il tentativo di resistenza della vittima viene soffocato sul nascere e tutto va secondo i piani. L’unico imprevisto si verifica alla fine: la seconda vettura non riparte. L’uomo al volante della 125 compie dei nervosi tentativi, ma il veicolo resta fermo. Nel frattempo i presenti in strada non possono fare altro che concentrare la loro attenzione su quei due uomini che imprecano e bestemmiano dentro l’abitacolo: alla fine abbandoneranno l’automobile e scapperanno via, di corsa a piedi.

I rapitori appartengono alle Brigate rosse e hanno appena dato inizio a quella che per loro è un’importante operazione di finanziamento.

LA PRIMA RICHIESTA DI DIECI MILIARDI DI LIRE

¹/ ³ / ⁴ Andrea Casazza, «Gli imprendibili. Storia della colonna simbolo delle Brigate Rosse», DeriveApprodi, 2013

Dopo qualche ora Pietro Costa è totalmente disorientato: si ritrova disteso su una brandina all’interno di una grossa tenda da campeggio con gli occhi bendati, le mani legate e due auricolari applicati alle orecchie che diffondono, ininterrottamente, musica e notiziari.

Quella condizione estenuante si protrarrà per ottanta interminabili giorni. Dopo i primi quarantatré la radio trasmette una triste notizia: è morto Giacomo Costa, il papà di Pietro. A quel punto i terroristi concedono al sequestrato un quarto d’ora di silenzio. La morte dell’imprenditore genovese influisce nel sequestro anche in altri modi. Alle esequie partecipano alcuni brigatisti: l’obiettivo è quello di fotografare tutti i parenti, in modo da poterli identificare con certezza al momento del riscatto.

La prima richiesta è di dieci miliardi di lire per poi scendere a cinque. Col passare del tempo e delle richieste la famiglia dell’ingegnere propone di concludere la trattativa a un miliardo e trecento, ma alla fine i terroristi riescono ad alzare il prezzo a un miliardo e cinquecento milioni di lire. Il pagamento avviene a Roma, presso il parco di Villa Sciarra, in data 26 marzo. Il dottor Costa viene rilasciato all’alba del 4 aprile, legato mani e piedi in una casupola abbandonata in salita San Bersezio, con dei volantini di rivendicazione nelle tasche.

Il brigatista Mario Moretti ricorderà la fine del sequestro con queste parole: «Rivendichiamo il sequestro subito dopo il rilascio. Facciamo non solo un volantino ma un opuscoletto, tanto ci preme spiegare il significato di questa pratica. (…) Il denaro ottenuto attraverso il sequestro Costa sarà diviso fra le varie colonne, investito nell’acquisto di case e armi e consentirà di sostenere i costi legati all’organizzazione di azioni armate. (…) Il miliardo e mezzo di Costa ci bastò per quattro anni, praticamente fino al mio arresto, nell’81»¹

«DURA? UN PAZZO, MA AVEVA SENSIBILITÀ CHE MANCAVANO AGLI ALTRI »

L’ingegner Costa ricorderà in particolare uno dei suoi rapitori: il famigerato Riccardo Dura.

² Erika Dellacasa, «I Costa, storia di una famiglia e di un’impresa», Gli specchi Marsilio, 2012

«Dura era quasi il solo che parlava con me, eppure era il più violento. In certi momenti sembrava matto. Quando la radio trasmetteva notizie sulle indagini o sulle operazioni di polizia aveva scoppi di violenza, dava in escandescenze. Ho sentito chiaramente, una volta, che gli dicevano: “Sei tu quello che deve essere pronto a ucciderlo”. Era un pazzo e lo avrebbe fatto ma aveva improvvise sensibilità che mancavano agli altri, quando è morto mio padre ha spento la musica nelle cuffie per un quarto d’ora, in segno di rispetto. Quando mi hanno liberato ha scherzato dicendo: quasi mi dispiace»² .

Un’altra nota vicenda legata a questo sequestro riguarda un biglietto dell’autobus.

Sempre Mario Moretti racconterà: «Nel portafogli aveva i documenti, le foto dei figli, le solite cose e qualche biglietto del bus. Al momento del rilascio glielo restituiamo. Lo prende, guarda dentro e fa: “manca un biglietto del bus. Era ancora valido”. Veniva fuori da un paio di mesi non certo allegri, aveva appena pagato un miliardo e mezzo, ma a quel biglietto non voleva rinunciare. Questa è la borghesia genovese»³

Dichiarazioni del pentito Patrizio Peci: «Costa forse faceva lo spiritoso, forse era una questione di principio o forse era semplicemente genovese, fatto è che se l’è vista brutta perché il pensiero dei compagni è stato: ma come, adesso che hai pagato ti senti di nuovo il padrone, te la prendi con noi, ci accusi di aver rubato e ricominci a dare ordini! Non sei ancora uscito da casa nostra e già imposti la questione in questi termini? Come minimo poteva prendersi due schiaffoni»⁴ .

L’ingegnere, tuttavia, dichiarerà successivamente che non si trattava di un biglietto del bus, ma di un’importante tessera di riconoscimento per accedere al porto.