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Il «processo proletario» a Germana Stefanini, invalida civile e vigilatrice del reparto femminile di Rebibbia

Redazione Spazio70

Nel 2007 a Germana Stefanini sarà attribuita la medaglia d’oro al valor civile e nel 2012 una strada di Roma sarà intitolata in suo onore

Roma, 11 maggio 1983. Al civico 3 di via Torriglia, gli agenti della Digos scoprono un covo terroristico dei Nuclei per il potere proletario armato, un gruppuscolo di estrema sinistra composto da giovani fiancheggiatori delle Brigate Rosse di Senzani. All’interno dell’abitazione le forze dell’ordine rinvengono il drappo rosso dell’organizzazione, alcuni bossoli e una fotografia che ritrae il «processo proletario» subito alcuni mesi prima da Germana Stefanini, 57 anni, invalida civile e vigilatrice del reparto femminile di Rebibbia, uccisa con un colpo di pistola alla nuca.

La polizia arresta l’affittuario dell’appartamento, un giovane studente di architettura di venticinque anni, figlio di un generale dell’esercito e della preside di un rinomato liceo romano. Risultano invece autori dell’omicidio Stefanini: il ventisettenne Carlo Garavaglia e i ventitreenni Francesco Donati e Barbara Fabrizi. Saranno arrestati qualche giorno dopo durante un tentativo di rapina ad un ufficio postale.

Nel pomeriggio del 28 gennaio 1983, Germana Stefanini viene bloccata nella propria abitazione di via Albimonte, al ritorno dalla giornata lavorativa presso il carcere di Rebibbia. Dopo aver messo a soqquadro l’appartamento e prima di eseguire la condanna a morte, i terroristi sottopongono la donna ad un interrogatorio. Tra i materiali sequestrati dagli agenti all’interno del covo di via Torriglia vi è anche un’audiocassetta che custodisce l’audio dell’intero «processo». Ne riportiamo di seguito alcuni momenti agghiaccianti:

D. «Quanti anni hai?»

R. «Cinquantasette.»

D. «Sei sposata?»

R. «No.»

D. «Hai la licenza media?»

R. «No.»

D. «Che c’hai?»

R. «La quinta elementare.»

D. «Perché hai scelto questo mestiere?»

R. «Perché non sapevo come poter vivere, è morto mio padre… Mio padre è morto nel ’74 e nel ’75 sono entrata a Rebibbia perché non sapevo come poter vivere.»

D. «Che funzione hai?»

R. «Come che funzione ho?»

D. «Che fai a Rebibbia?»

R. «Io faccio i pacchi.»

D. «Solo i pacchi?»

R. «Sì.»

D. «I controlli ai pacchi non li fate?»

R. «No, io è poco che ci sto ai pacchi.»

D. «Ah, è poco? Sono sei anni.»

R. «Prima lavoravo all’orto. Reparto orto di Rebibbia.»

D. «Controllavi il lavoro delle detenute?»

R. «No, lavoravo pure io. Se parli con le politiche nessuna mi dice male, a me tutte me portano così. Io le ho sempre trattate bene. Loro c’hanno l’idea loro e io la rispetto.»

D. «La rispetti chiudendole nelle celle? Facendo la vigilatrice?»

R. «Non ci sono mai andata giù [alle celle, ndr.] non mi ci mandano, come faccio a dire che succede?»

«NUN PIAGNE, NUN ME COMMUOVI PROPRIO!»

D. «Senti un po’ le trimestrali [vigilatrici assunte con contratto a termine, ndr]…dagli una sigaretta [rivolta a un altro terrorista, ndr], tu che fumi, la pipa? No, le Nazionali. Questa che è? Una Merit… Andiamo avanti. Le trimestrali per rimanere che devono fa’?»

R. «Un concorso.»

D. «Tu che hai fatto? un concorso?»

R. «Io sono entrata come invalida.»

D. «Perché ci sono posti riservati come ai ministeri?»

R. «Siccome mio padre era invalido di guerra…»

D. «Tuo padre era agente di custodia?»

R. «No, era idraulico.»

D. «Ma tu questo mestiere perché lo fai?»

R. «Perché, morto mio padre dove andavo a lavorare? Dovevo andare a fare la donna di servizio ma non glie la faccio.»

D. «Spiegaci come sei entrata a Rebibbia.»

R. «Ho una cugina suora e lei me l’ha detto, perché lì non dovevo fare grosse fatiche e non dovevo tenere le mani a bagno. Io risposi: “proviamo”»

D. «Tu, quando hai detto “proviamo” lo sapevi dove andavi a lavorare, no?»

R. «Io sono sempre stata appresso a mio padre e a mia madre. Ho avuto due sorelle malate, che poi sono morte, sono sempre stata a combattere con gli ospedali.»

D. «Ma è il primo lavoro che facevi, questo?»

R. «Sì, perché avevo papà invalido di guerra.»

D. «Tuo marito che stava…»

R. «Non sono sposata. Se avessi avuto marito, mi contentavo di quello che portava lui.»

D. «Tu prendi la pensione?»

R. «No, come prendevo la pensione se non ho mai lavorato?»

D. «La pensione di tuo padre invalido.»

R. «No, non me l’hanno data. Se mi davano la pensione magari non andavo a lavorare.»

D. «Ma in quell’anno della morte di tuo padre a quando sei andata a lavorare a Rebibbia come hai fatto a campare?»

R. «Andavo a mangiare una volta da una zia, una volta da una cugina, una volta da mia sorella, ma con mio cognato non vado d’accordo, mi scoccia andarci a mangiare.»

A questo punto della registrazione si odono i pianti della donna. Uno dei terroristi le dice: «Nun piagne, tanto nun ce frega un cazzo!». La donna risponde singhiozzando: «Ma ve l’ho detta la mia vita! perché ve la dovete prendere con me?» e il terrorista replica: «Te l’ho detto, nun piagne, nun me commuovi proprio!». Pochi minuti dopo, le sparano alla testa. Il corpo della vigilatrice sarà rinvenuto nel bagagliaio di una Fiat 131. I terroristi comunicheranno ai giornali l’avvenuta esecuzione «di un’aguzzina delle carceri». Nel 2007 a Germana Stefanini sarà attribuita la medaglia d’oro al valor civile e nel 2012 una strada di Roma sarà intitolata in suo onore.

L’ARRESTO DEI RESPONSABILI

Carlo Garavaglia

Via Salvatore Di Giacomo, quartiere Ardeatino, periferia Sud della capitale. Il pian terreno di uno stabile dell’Istituto case popolari ospita le stanze dell’ufficio postale Roma 61. Al di là di quei vetri blindati che fanno angolo con via Augusto Vera, negli ultimi tre anni sono già state consumate ben sette rapine a mano armata. È il 17 maggio 1983, sono da poco passate le ore 16.00 e il direttore Bruno Bitonte, assieme alla vicedirettrice Floriana Ubaldi, si sta accingendo ad uscire in strada per far ritorno a casa dopo aver chiuso la cassaforte.

Una Fiat 127 è lì ad attendere. Dagli sportelli dell’autovettura scendono due giovani armati. Sono Francesco Donati e Carlo Garavaglia. «Tornate dentro, questa è una rapina!» esclamano. Barbara Fabrizi è al volante dell’automobile e ha il compito di restare lì con il motore acceso, nell’attesa che i suoi complici ritornino con il bottino. La vicenda, tuttavia, avrà un epilogo completamente diverso.

Un grave incidente stradale, avvenuto a poche decine di metri di distanza, manda in fumo l’intero piano. Due volanti della polizia, accorse dopo la telefonata di un passante che ha assistito al tamponamento, notano i due giovani armati di pistola. I poliziotti scendono dalle vetture con i mitra spianati. Donati e Garavaglia reagiscono sparando. Dopo un breve conflitto a fuoco Garavaglia tenta la fuga a piedi per poi ritrovarsi, in breve tempo, disarmato e in manette. Donati decide quindi di prendere in ostaggio il direttore e la vicedirettrice, spingendoli bruscamente all’interno dell’edificio. Nel frattempo Barbara Fabrizi ha schiacciato il piede sull’acceleratore, dileguandosi rapidamente.

Francesco Donati

Nel giro di pochi minuti l’intero edificio è circondato. L’identificazione di Garavaglia, che si è dichiarato «prigioniero politico e combattente comunista», ha allertato immediatamente il sostituto procuratore Sica, il capo della Digos Andreassi e quello della mobile De Siena. L’intera zona è isolata da cordoni di vigili urbani e agenti di polizia ad ogni angolo di strada. Accorrono decine di volanti a sirene spiegate. I tiratori scelti si dispongono dietro le vetture con i fucili di precisione puntati in direzione della porta di ingresso. Ci sono anche i Nocs, in attesa dell’ordine di irruzione. Ormai la polizia sa benissimo che il rapinatore barricato all’interno di quella struttura è uno degli assassini di Germana Stefanini, scampato per un pelo al blitz di qualche giorno prima in via Torriglia.

Francesco Donati appare molto nervoso ma riesce comunque a mantenere una certa lucidità. Trascorre qualche ora. Il giovane ha sempre una pistola puntata alla fronte del direttore. Con l’altra mano, di tanto in tanto, alza la cornetta del telefono, cerca un accordo con giudici e poliziotti, rispondendo anche a qualche domanda dei giornalisti: «Me ne voglio andare — rivela ad un cronista dell’Ansa — sto trattando con il giudice Sica». Andreassi e Sica si alternano nel cercare un punto di incontro, dialogando anche faccia a faccia con il malvivente, avvicinandosi disarmati e con le mani alzate.

«VOLEVANO RICOSTRUIRE IL PARTITO DELLA GUERRIGLIA»

Barbara Fabrizi

La prima richiesta di Donati è piuttosto ambiziosa: un fucile mitragliatore carico, giubbetti antiproiettile per sé e per gli ostaggi e un’automobile blindata con il pieno di benzina. Il rifiuto è categorico. Il tempo scorre in un clima di forte tensione. Donati chiede di parlare con il suo avvocato, il dottor Rocco Ventre e con Carlo Garavaglia, il suo compagno di militanza arrestato poche ore prima. Entrambe le richieste vengono accolte. L’avvocato e Garavaglia giungono all’ufficio postale scortati da una pattuglia della polizia. Donati teme di essere torturato dalla polizia in caso di resa e vuole accertarsi dello stato psicofisico del suo amico. L’ultima richiesta del terrorista è la seguente: «Mi arrendo, ma dovete portarmi direttamente a Rebibbia, senza farmi passare per la questura». L’ultima verifica, prima di uscire con le mani alzate, è l’attesa di una telefonata rassicurante di Garavaglia dal carcere di Rebibbia. Giudici e poliziotti acconsentono. Alle 21.15 gli ostaggi vengono rilasciati e Donati esce dall’ufficio postale esibendo il pugno chiuso.

Non è finita, manca ancora una persona all’appello. Barbara Fabrizi bussa alla porta dell’avvocato Ventre in piena notte. È in lacrime, stanca, sola, allo sbando. Chiede al suo legale di chiamare la polizia poiché ha intenzione di costituirsi. «Hanno arrestato Francesco, che altro posso fare? non so nemmeno dove andare, cosa fare» afferma. La giovane, 23 anni, con una sorella più piccola e un fratello arruolato in marina, è figlia di un autista di autobus e di una casalinga ed è legata sentimentalmente al Donati dal 1978.

La seconda Corte d’Assise di Roma condannerà all’ergastolo con 18 mesi di isolamento i tre estremisti, ritenuti responsabili dell’omicidio di Germana Stefanini, del ferimento di Giuseppina Galfo (una dottoressa del penitenziario di Rebibbia) e di una serie di rapine di autofinanziamento.

Dal quotidiano l’Unità del 21 febbraio 1985:

«Quando ammazzarono con un colpo alla nuca la vigilatrice di Rebibbia Germana Stefanini il più giovane del killer aveva 23 anni, il più vecchio 27. L’esecuzione fu preceduta da un processo assurdo, registrato su nastro con il tragico rimbombo finale del colpo di pistola. Erano In tre. Tre giovanissimi “mostri” di freddezza ed ambizione. Francesco Donati, forse il “capetto” del gruppo, Carlo Garavaglia, un ex aviere, e Barbara Fabrizi, che si consegnò in lacrime all’avvocato dopo l’arresto degli altri due, volevano ricostituire da soli il partito della guerriglia distrutto con l’arresto di Senzani.

Così scrive il giudice istruttore D’Angelo nell’ordinanza di rinvio a giudizio per l’omicidio della Stefanini, per il tentato omicidio di un’altra dipendente del carcere di Rebibbia, la dottoressa Giuseppina Galfo, per una ventina di rapine ed “espropri proletari” ed infine per l’assalto alla caserma dell’Aeronautica di Castel di Decima. Un curriculum agghiacciante per questi giovani “autodidatti” della lotta armata».