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«Sono stato un desaparecido». Parla Roberto Glen, sequestrato dalla polizia argentina durante la dittatura militare

Redazione Spazio70

Testimonianza inedita. Traduzione e adeguamento a cura di Spazio 70

Di Roberto Glen*

Salve e grazie a tutti per avermi dato questa opportunità di “esorcizzarmi”. Per prima cosa voglio chiarire che il mio è un “caso medio”. Nel senso che c’è gente che se l’è vista molto più brutta di me, che ha sofferto molto più di me, che ha finito per essere uccisa o fatta scomparire. Per questo mi considero un “caso medio”. Lavoravo in banca. Avevo un ottimo rapporto con tutti quanti i miei superiori nonostante facessi parte della rappresentanza sindacale interna. Ero stato scelto per ricoprire questo ruolo grazie alle mie doti di buon collega e per diversi altri motivi. Insomma, era questo il mio incarico: rappresentante sindacale all’interno di una istituzione bancaria.

Mi assegnavano spesso casi particolari, pratiche speciali all’esterno della banca, come ad esempio visitare qualche cliente, qualche istituzione, l’apertura di conti correnti per clienti importanti. Quindi mi chiamavano, andavo in direzione e preparavo tutti quanti i contratti, le carte e registravo le firme.

I PRESUNTI “CLIENTI” SI PRESENTANO COME “SUPERINTENDENCIA DE SEGURIDAD FEDERAL”

Roberto Glen

Un giorno mi chiamarono in direzione. Pensavo fosse per le ragioni di sempre, quindi portai con me tutte le schede, i formulari per le firme etc. per la registrazione di nuovi clienti. Non appena entrai in direzione mi resi conto che non era la situazione che mi aspettavo, non era la situazione solita… Scusate, non voglio stigmatizzare nessuno, ma di solito le persone che venivano in direzione non erano notoriamente “buoni clienti”. Il direttore era assente: c’era solo il vicedirettore e queste persone, i presunti clienti, si presentarono come “Superintendencia de Seguridad Federal”. Mi dissero che dovevo accompagnarli: ricordo che al primo piano avevamo gli armadietti del personale dove lasciavamo i nostri effetti personali, come per esempio il soprabito. Là c’era un telefono con linea esterna; chiesi quindi di poter andare a prendere le mie cose e riuscii così ad avvisare mio padre per telefono.

Quelli della Seguridad, però, mi seguirono e interruppero la mia chiamata, perché avevo già potuto parlare con mio padre e avvisarlo. Quindi perquisirono il mio armadietto e mi chiesero di accompagnarli. Dunque scendemmo e, questo devo farlo notare, la direzione della banca mi disse che potevo andare tranquillamente. Però incaricarono il ragioniere, una persona a me molto cara, affinché mi seguisse con un taxi.

Quando uscii dalla banca notai che ad aspettarmi c’era una Ford Falcon verde, un’auto tristemente famosa nell’Argentina di quegli anni. Una volta salito a bordo, seduto in mezzo a due di loro sul sedile posteriore della vettura, iniziai a tremare, tremare, tremare… Non riuscivo a smettere; mi tremavano le mani, tutto il corpo e loro mi dicevano di stare buono. Io cercavo di farli fermare, ogni tanto, per vedere se il taxi con a bordo il ragioniere della banca, il sig. Maceira, ci stava ancora seguendo, ma loro continuavano e continuavano… Alla fine raggiungemmo la Questura di Rosario, entrammo da un cancello che dava su calle San Lorenzo e poi continuammo ancora per alcuni metri sulla destra (oggi da quel che so non è più una questura, è diventato un museo della memoria).

LE GRIDA DEGLI ALTRI SEQUESTRATI COME TORTURA PSICOLOGICA

Lì, una volta sceso dall’automobile, entrai in un posto vestito con giacca e cravatta come si usava all’epoca lavorando in banca. Attraversato l’ingresso, scendemmo lungo una scalinata: qui mi misero una benda molto stretta attorno agli occhi e subito venni “accolto” con un forte colpo allo stomaco. “Qui dentro funziona così, ti stiamo avvisando”, mi venne detto da una voce. Un’altra mi disse: “Ah, ma che bella giacca, non vedo perché tu debba avere una giacca così bella qua dentro”. Mi tolsero la giacca, la cravatta, la camicia e mi diedero degli indumenti; non so di chi fossero, ma erano logori, in pessime condizioni. Mi fecero togliere anche i pantaloni e così bendato mi condussero giù per una scala riempiendomi di botte.

Chi mi aveva sequestrato si chiamava Beto, il suo soprannome era Beto; da quello che so è l’unico che sia stato identificato ed è stato confermato che abbia partecipato ai sequestri. Mi lasciarono in fondo a una scala di cemento e Beto disse riferendosi a me: “Questo lasciatemelo qui, domani vedremo”. Così passai la notte seduto per terra, con le mani legate dietro e bendato. Mi slegarono soltanto per mangiare qualcosa e poi me le legarono di nuovo.

Il giorno successivo mi svegliarono in modo brusco e iniziarono quelli che credo siano stati tre o quattro giorni — non ho una nozione chiara del tempo trascorso — di botte e scosse elettriche. Io, bendato, sentivo come torturavano gli altri, le grida degli altri e delle altre. Me le facevano ascoltare di proposito, come tortura psicologica.

“NON VOLEVANO ESSERE VISTI IN FACCIA”

Un giorno mi portarono in un un posto dove qualcuno, con una voce deformata, alterata, mi disse: “Noi sappiamo che tu sei stato implicato in questo attentato”. Io risposi subito di no; mi trovavo bendato, in piedi, suppongo al centro di una stanza. Iniziarono a picchiarmi, senza che io potessi ovviamente prevedere da dove sarebbero arrivati i colpi. Allora tornarono a ripetere: “Tu hai partecipato all’attentato, hai incendiato tu la Massey Ferguson” [sede di una multinazionale produttrice di macchinari agricoli, ndt]. Io dicevo di no, che non ero stato lì, in attesa dei prossimi colpi che non sapevo da che parte sarebbero arrivati. Immaginate come potevo stare, ero ridotto molto male. Il giorno successivo, dopo la prima sessione di tortura, mi fecero salire fino a un mezzanino o meglio a una specie di sottotetto, perché era situato sopra le stesse scale dove avevo passato la prima notte. Ecco: c’era un posto dove io, bendato, potevo sentire la presenza di altre persone. Lì potevamo toglierci la benda finché non sentivamo che tornavano su da noi. Naturalmente non volevano essere visti in faccia e quando ci portavano cibo dovevamo per forza tenere la benda sugli occhi; ma tanta era la paura che finivamo per stare tutto il tempo bendati, ovviamente con le mani legate.

Un giorno, dopo che avevamo iniziato a stare meglio e potevamo tenere le mani slegate, mi portarono via e mi somministrarono le scosse elettriche. Io cercavo di difendermi dicendo loro che ero iperteso e che l’anno precedente avevo avuto un brutto incidente d’auto: allora sembrarono avere un po’ di compassione, soprattutto per il fatto della pressione alta e che dopo l’incidente fossi stato ancora male. Li imploravo che non mi dessero più scosse elettriche e allora lì, per un po’, si sono fermati anche se per un periodo mi sono comunque rimasti i segni delle bruciature.

IL VIAGGIO “ASTRALE” E LA SORTE DI UN DETENUTO COMUNE

Dopo qualche giorno vennero nuovamente a prendermi per portarmi giù. Mi pestarono così forte che, quando mi riportarono nel sottotetto, iniziai a fare una sorta di viaggio astrale: vedevo il mio corpo lontano mentre io continuavo a salire, salire… Oltrepassavo il tetto e continuavo a vedere il mio corpo, la stanza nel sottotetto e i miei compagni che si trovavano lì… e mi allontanavo, mi allontanavo, finché tutt’a un tratto ritornai nel mio corpo, grazie ai miei compagni che mi stavano schiaffeggiando le guance per farmi rinvenire. Lì sono tornato, sennò penso che sarei morto. Quel viaggio “astrale” ero io che stavo per morire, così credo.

In un’altra occasione, come dicevo, mi fecero ascoltare le torture a danno degli altri sequestrati: c’era questo ragazzo e… da quanto ne so era un detenuto comune. Questa cosa non l’ho mai dichiarata prima, avrei dovuto farlo, ma per paura non l’ho mai detta. Da quello che ascoltavo, lo afferravano per le gambe e le braccia e lo lanciavano in aria per farlo poi ricadere sul pavimento. Dopo mi dissero che era morto — io ero ancora bendato — e che lo avevo dichiarato ufficialmente deceduto in una sparatoria.

Questi furono i giorni peggiori. Mi rubarono i vestiti, tutto quello che indossavo di valore; si sono portati via tutto. Così, dopo tre o quattro giorni, cominciai a tranquillizzarmi. Dopo quattro giorni circa, sì, perché mi avevano sequestrato di venerdì e… il lunedì mi avevano fatto avere una coperta portata da mia madre. Mi sentii un pochino più tranquillo perché, in quel momento, stavano riconoscendo che ero detenuto: non era una sicurezza assoluta, però era una gran tranquillità.

Mi ricordo che in quel sottotetto arrivarono due persone nuove. Una di queste era un mio amico, un amico di famiglia, assieme con un altro; i due erano stati detenuti in un’altra sezione della questura e quindi trasferiti nella parte dove mi trovavo e poco tempo dopo uscirono. Degli altri… di alcuni di loro non ho saputo mai più nulla, mentre altri ancora li ho rivisti successivamente ma non conoscevo i loro nomi.

“DAL SEMINTERRATO, POTEVAMO VEDERE I PIEDI DEI PASSANTI”

Dopo quello che calcolo essere stato più o meno il quinto o sesto giorno, mi chiamarono e mi dissero di portare con me la mia coperta. Mi fecero scendere dalle scale e mi tolsero via perfino la benda. Mi trovavo in un ambiente molto grande, che poi ho saputo essere il famoso seminterrato della Questura di Polizia di Rosario — un centro clandestino di detenzione. Le cose stavano cambiando. Quelli che già erano lì mi dicevano di star tranquillo; se mi trovavo lì significava che difficilmente mi avrebbero chiamato o portato via per picchiarmi o torturarmi ancora. C’era sì stato qualche caso, ma si trattava di eventi molto rari.

Là insieme a noi c’erano diverse donne e in uno spazio più ampio stavamo noi uomini, ma perché noi eravamo molti, molti di più. Potevamo lavarci: avevo una ferita sul dito a causa dei colpi ricevuti e un signore più anziano che era lì me la medicò con sapone di Marsiglia e cenere di sigaretta, fermando così l’infezione che avevo. E poi dopo undici… o diciassette giorni potei finalmente vedere mia madre, mentre indossavo un pullover a collo alto che mi avevano dato. Dietro di me avevo un poliziotto. Il collo dolcevita serviva a nascondere i segni delle botte, visto che sul viso non avevo segni. Invece il poliziotto dietro di me serviva a dissuadermi dal raccontare che mi avevano pestato.

Quel seminterrato era bizzarro… Oggi potremmo definirlo un poco bizzarro. Dormivamo per terra con dei materassini, potevamo anche lavare i nostri indumenti; c’era una corda che l’attraversava da parte a parte e lì stendevamo i panni. Potevamo anche vedere i piedi dei passanti che camminavano sul marciapiede a fianco della questura; li vedevamo dal seminterrato attraverso delle grate, delle prese d’aria, attenti ovviamente a non dire nulla e a non farci sentire, perché tutti sapevamo che cosa sarebbe successo.

“MI SONO SALVATO GRAZIE AL MIO DIRETTORE”

Alla fine la persona che mi aveva sequestrato, Beto, mi disse che a salvarmi la vita era stato il direttore della banca di cui farò il nome: si chiamava Bestetti. In pratica gli aveva detto che ero il suo migliore impiegato e che non mi avrebbe mai consegnato. Secondo quanto mi disse Beto, lui stesso aveva minacciato il direttore che lo avrebbe fatto arrestare e portare via: era stato allora che Bestetti se ne era andato via delegando il suo compito a Rizzo che a sua volta si era comportato molto bene… No, era Rezzi, era Rezzi credo, che si comportò anche lui molto bene. Era stato lui a dare istruzioni al ragioniere della banca di seguirmi in taxi fino al luogo di detenzione.

Beto mi disse anche che il direttore definendomi “ottimo impiegato” mi aveva salvato la vita perché loro consideravano che mai un terrorista avrebbe potuto essere il migliore impiegato. Successe che io ero stato “cantato”, ero stato denunciato… invece questo giudizio del direttore Bestetti mi aveva salvato la vita. A segnalarmi era stata un’amica di infanzia, fidanzata di un montonero amico mio, con la quale avevamo fatto parte di una rappresentanza sindacale bancaria. Avevamo militato assieme e… lei poverina se l’era vista molto brutta e da quel che sono venuto a sapere aveva fatto il mio nome per dare tempo al fidanzato di scappare.

Risultava anche che io avessi partecipato a un pranzo, un “asado”, come invitato in qualità di sindacalista, per formare una Confederazione Generale dei Lavoratori per la Resistenza — qualcosa di cui sfortunatamente si parla molto poco. Fu un tentativo fallito per la mancanza di appoggio dei leader sindacali. Mi ricordo di questo fatto: l’asado si era tenuto in un club della zona sud di Rosario, credo che si chiamasse “Leña y Leña” e mi ricordo che attorno alla recinzione del club c’erano Montoneros e ERP a sorvegliare l’accesso. Io non ne capivo nulla.

“HANNO FATTO BENE A FARVI SALTARE”

La polizia sapeva, forse o i servizi sapevano, che mi ero trovato in quell’occasione a pranzare là oppure qualcuno aveva denunciato e questo aveva peggiorato moltissimo la mia posizione.

Tornando a parlare del seminterrato, era molto bizzarro come posto: ogni tanto ci portavano giù da mangiare, però a volte le detenute preparavano il loro cibo, tanto per variare un poco. Nella parte delle donne quella che comandava si chiamava Mary, non so perché ci sia questo nome, Mary, a ritornare sempre… Ogni tanto cucinava per le altre detenute e qualche volta scendevano i sequestratori, due o tre di loro, e si fermavano a mangiare. Tutto qui; si cercava di trascorrere il tempo meglio che si poteva. Non è una cosa da condannare , si cercava di passare il tempo meglio che si potesse.

A volte sapevamo anche quando [i sequestratori] uscivano per i loro “procedimenti” [operazioni speciali volte a sequestrare sospetti, ndt ], perché in alcuni posti sequestravano dei libri che poi tenevano da parte [nel seminterrato]. Quando uscivano per le loro operazioni speciali portavano con sé questi libri per “farli trovare” come prova ipotetica di presunta colpevolezza, che però non c’era perché i libri se li portavano loro e li “mettevano” in altre case. Li aiutava un militante della UES [Union Estudiantil Secundaria, ndt] segnalando gente per strada.

In quei tre mesi ricevetti una sola visita di mia madre, da parte di tutta la mia famiglia. Fu l’unica volta che la vidi, nell’incontro di cui ho raccontato prima, perché a Rosario si celebrava “Il giorno della madre cattolica”. Allora chi mi aveva sequestrato mi disse: “Ok, giusto perché è questo giorno, ti lasciamo vedere tua madre”.

Mia mamma poveretta, quando me la facevano vedere, anzi quando non le permettevano di vedermi, li insultava. C’era stato in quei giorni un attentato: avevano fatto esplodere un autobus pieno di poliziotti e la carcassa dell’autobus era là dentro nel cortile della questura. Mia madre gridava che avevano fatto bene a farli saltare per aria,** mentre una nostra amica di famiglia che l’accompagnava, le continuava a ripetere: “Mary, Mary, stai zitta che finisce che portano via pure te”.

Una grande, mia mamma…

* Giornalista argentino, 66 anni, militante politico della Union Civica Radical, residente e precandidato sindaco nella città di Necochea, vittima in qualità di ex detenuto “desaparecido” durante l’ultima dittatura militare (1976-1983). Il suo sequestro risale al 1° ottobre 1976

** L’azione alla quale fa riferimento la signora Glen è nota come “Strage di Rosario”, avvenuta il 12 Settembre 1976, quando una cellula di Montoneros fece esplodere un’autobomba con ordigno “vietnamita” all’incrocio in cui transitava un pullman con a bordo giovani poliziotti di rientro da un servizio di vigilanza allo stadio. L’esplosione ferì gravemente venti persone e uccise nove poliziotti e due civili a bordo di un’auto di passaggio