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Tra morti e misteri. L’oscura vicenda dell’amputazione delle mani di Perón

Michele Riccardi Dal Soglio

Se viene naturale chiedersi il motivo della profanazione del corpo del Generale, la scia di morti e minacce che gli inquirenti e le persone coinvolte a vario titolo subiranno negli anni lascia intendere che non si sia trattato di un semplice vilipendio di cadavere

Mancano pochi minuti alle sette del 22 Novembre 1988: è una tranquilla sera d’estate e sulla statale numero 3 che collega Bahia Blanca a Mar del Plata c’è ancora un discreto traffico alimentato dai locali e dai primi vacanzieri che vanno avanti e indietro dalle spiagge verso la capitale. All’improvviso, davanti agli occhi degli automobilisti, si verifica una scena terrificante: una Ford Sierra Ghia bianca, che procede in linea retta a velocità molto sostenuta, si solleva per aria con uno scoppio secco e inizia a cappottarsi più e più volte sull’asfalto, espellendo i corpi degli occupanti come bambole di pezza, prima di arrestarsi, spezzata in due tronconi, avvolta dalle fiamme.

Gli automobilisti, accorsi sul posto, si rendono presto conto che per due dei tre occupanti scagliati sull’asfalto — un uomo, una donna e un bambino — c’è poco da fare: il primo giace morto sul colpo e presenta ferite orrende; la seconda, stesa poco più avanti, è ormai in fin di vita e destinata a spirare poco dopo l’arrivo in ospedale. Soltanto il bambino, che viaggiava sul sedile posteriore del veicolo, sopravvivrà nonostante le gravi lesioni.

UNA TRADIZIONE OSCURA FATTA DI NECROFILIA E REALISMO MAGICO

I resti della Ford Sierra del procuratore Far Suau

L’incidente avrebbe potuto essere uno dei tanti, tipici, delle morbose dirette-lampo del canale d’informazione “Crónica TV”, tranne che per l’identità del conducente, nientemeno che il procuratore Jaime Far Suau, incaricato di una difficilissima indagine su un crimine che l’anno precedente aveva sconvolto l’opinione pubblica argentina, ovvero il furto delle mani del generale Perón. Il 1° Luglio del 1987 il Paese sudamericano si era infatti svegliato con una macabra notizia: alla salma imbalsamata del Caudillo, conservata all’interno della tomba di famiglia del cimitero della Chacarita, qualcuno aveva amputato e sottratto entrambe le mani.

Quello che poteva sembrare in apparenza soltanto un gesto odioso di vilipendio avrebbe invece destato una serie di reazioni fortissime, inserendosi  in una sorta di tradizione oscura squisitamente argentina fatta di eventi che paiono fondere la vocazione alla necrofilia con il “realismo magico” da romanzo latinoamericano capace di caratterizzare da sempre le vicende storiche del Paese. Basti pensare che nel 1902, in occasione della riesumazione delle spoglie di Manuel Belgrano, i ministri Ricchieri e Gonzalez si erano appropriati cadauno di un dente dell’illustre Padre della Patria argentina. Lo scandalo che ne era derivato — e che aveva infiammato la stampa dell’epoca — aveva fatto sì che i “feticci” fossero prontamente restituiti di lì a poco.

Ben diversa è invece la sorte toccata alla più celebre salma nazionale, quella della Primera Dama Eva Duarte de Perón che, grazie alle cure del dottor Ara, si era mantenuta intatta benché lungo un periplo durato venticinque anni fosse stata dapprima esposta alle masse, poi trafugata, vilipesa, occultata, riesumata e infine rimpatriata, con l’epilogo di una contesa politica e di un florilegio di aneddoti che non hanno mancato di ispirare romanzi e serie televisive. Lo stesso corpo dell’ex-presidente de-facto Pedro Eugenio Aramburu, assassinato da Montoneros nel 1970 perché accusato di aver ordinato la sottrazione della salma di Eva, verrà trafugato quattro anni più tardi da una cellula della stessa organizzazione armata e usato come pegno di riscatto per reclamare il rimpatrio proprio del corpo della Primera Dama, poi restituito a Perón. Questi, dopo il suo ritorno dal lungo esilio aveva preferito affidarlo, assieme al resto del mobilio, alle buone cure dei domestici della sua residenza madrilena di Puerta de Hierro.

Pochi mesi prima del rientro della salma di Evita in Argentina, lo stesso Perón era morto, esattamente il 1° Luglio 1974. Anche il corpo del Generale era stato imbalsamato ed esposto alle masse per il cordoglio nazionale, per poi essere trasferito all’interno della residenza presidenziale di Olivo. Qui il suo feretro era stato affiancato a quello della seconda moglie ed entrambi affidati alle premurose cure della terza consorte, ora vedova e presidente della Repubblica, María Estela Martínez de Perón  o “Isabelita”, fino al colpo di Stato del 24 marzo 1976.

UNA PROFANAZIONE COMPIUTA SENZA EFFRAZIONI

La tomba della famiglia Perón nella Chacarita

Narrano le cronache che sia stata la nuova padrona di casa, Alicia Hartridge, moglie del neo presidente de-facto Jorge Rafael Videla, a insistere perché i due silenziosi ma ingombranti ospiti venissero fatti sloggiare dalla residenza per essere finalmente tumulati: così nel 1977 il corpo di Eva finirà nell’esclusivo cimitero monumentale de La Recoleta, mentre quello del Generale nel più grande e popolare della Chacarita. Questo dettaglio non è un semplice aneddoto: il fatto che la salma di Peròn sia stata trasferita e tumulata per mano dell’esercito argentino, che deteneva le copie delle chiavi di accesso alla tomba di famiglia, darebbe, secondo il procuratore Far Suau e gli altri inquirenti, un indizio molto importante sull’ambiente nel quale il progetto di profanazione del corpo sarebbe avvenuta.

Se da un lato appare poco credibile che le ben dodici serrature che nella cappelletta della Chacarita davano accesso al feretro del Generale potessero essere state forzate in breve tempo e senza rumori, dall’altro si scoprirà presto che le stesse serrature erano state aperte una a una senza manomissioni e che il vetro blindato di protezione al feretro era stato rotto per pura messinscena e non per reale necessità. Pertanto chi aveva agito era in possesso di almeno una copia del mazzo di chiavi — destinato a riapparire molti anni più tardi durante la riapertura dell’inchiesta a cura del giudice Baños — che risulterà appunto esser stato a disposizione dell’esercito.

UN RISCATTO DA 8 MILIONI DI DOLLARI

Il procuratore Far Suau (a sinistra nella foto)

Quello dei tredici livelli di sicurezza che avrebbero dovuto proteggere la salma di Perón è un altro dettaglio che viene richiamato nella lettera anonima firmata a nome di “Hermes IAI e i 13” che, poco prima della scoperta della profanazione, era stata inviata a Carlos Grosso, leader del peronismo locale, a Vicente Leonides Saadi, capo del partito stesso, e al presidente della CGT Saul Ubaldini. “Con la presente”, si legge nella missiva, “porto alla vostra conoscenza che il gruppo che rappresento ha provveduto a rimuovere o amputare le mani dai resti di colui che in vita è stato il General Perón”. La cifra richiesta nella lettera per il riscatto delle mani ammontava a 8 milioni di dollari dell’epoca: oltre alle mani, risultavano essere stati trafugati dal feretro anche la sciabola del caudillo e un frammento di un poema scritto dalla vedova Isabel, inserito nell’alta uniforme con cui il Generale era stato tumulato. Nessuno dei tre riceventi aveva dato peso alla lettera, fino alla denuncia della avvenuta profanazione da parte di un nipote di Perón recatosi in visita alla cappelletta il 29 giugno 1987.

La risonanza del caso si rivela enorme. Il procuratore Far Suau ha sulle spalle un compito difficilissimo e molto stressante perché le indagini sin dagli inizi si scontrano con ostacoli, reticenze e una serie interminabile di minacce al magistrato e alla sua famiglia. Lo stesso guardiano della Chacarita, Paulino Lavagno, viene ucciso a bastonate poco prima della scoperta della profanazione, mentre Maria del Carmen Melo, un’anziana e fervente peronista che quasi ogni giorno portava fiori sulla tomba del generale, viene rinvenuta morta a poco tempo di distanza, brutalmente massacrata nel suo appartamento, messo a soqquadro nella ricerca di qualcosa. Entrambi avevano detto di aver visto movimenti sospetti ed erano in procinto di deporre di fronte a Far Suau: lo stesso, a seguito delle minacce e di un attentato alla sua abitazione, viveva già una crisi familiare che poi gli costerà il divorzio.

Secondo i giornalisti Cox e Nabot, che hanno indagato a fondo su questo caso, Susana Guaita, l’ultima compagna di vita di Far Suau, sarebbe stata a sua volta un’agente del SIDE, utile a controllare i movimenti del procuratore e poi destinata a essere sacrificata nell’incidente d’auto occorso un anno più tardi.

NON UN SEMPLICE VILIPENDIO DI CADAVERE

La salma inbalsamata di Juan Domingo Perón

Di incidente però non si trattò, nonostante l’inchiesta ufficiale avesse descritto una perdita di controllo accidentale del veicolo causata dall’alta velocità e un successivo incendio del carburante. Risulterà invece, anche dalle indagini di Cox e Nabot, che gli pneumatici della Ford Sierra erano saltati dopo esser stati riempiti con un gas esplosivo che avrebbe incendiato e fatto uscire di strada l’auto. Il serbatoio, intatto, sarebbe stato rinvenuto a decine di metri dall’abitacolo. A distanza di poco tempo dopo morirà di un improvviso attacco cardiaco anche Juan Angel Pirker, capo della Policia Federal, mentre sopravvivrà a un’aggressione armata, pur restando gravemente ferito, il capo del commissariato 29 di Buenos Aires: entrambi assistevano Far Suau nelle indagini.

Se viene naturale chiedersi il motivo della profanazione del corpo di Perón, la scia di morti e minacce che gli inquirenti e le persone coinvolte a vario titolo subiranno negli anni seguenti lascia intendere che non si sia trattato di un semplice vilipendio di cadavere, ma che dietro vi sia stato qualche movente e, soprattutto, qualche mandante di grande influenza.

La ricostruzione effettuata dai giornalisti Cox e Nabot appunta alla decifrazione della lettera anonima inviata ai peronisti: da una accurata ricerca risulterebbe infatti che lo “Hermes IAI” della lettera assocerebbe la figura del dio greco, accompagnatore delle anime dei morti negli inferi, a quella omologa di Toth nell’antica tradizione egizia e alla figura del “grande asino” IAI il quale, alle ore tredici di ogni giorno, quando ha luogo il giudizio alle anime dei defunti, tenterebbe di impedire a costoro il passaggio verso l’aldilà, per arrivare al quale è necessario che il corpo sia integro di ogni parte. Tredici sono le ore, tredici i livelli di sicurezza della tomba conteggiando le serrature e la barriera antiproiettile, tredici gli anni intercorsi tra la morte di Perón e la scoperta della sua mutilazione che gli impedirebbe quindi di trovare la pace eterna dopo la morte.

LA PISTA ESOTERICA

Licio Gelli in paramenti massonici

Come è facile capire, la conoscenza di questo culto esoterico e di questa divinità minore, scoperti verso la fine degli anni Settanta, è qualcosa riservato a pochissimi eletti studiosi tra i quali un certo Frank Ripel (pseudonimo di Gianfranco Perilli). A costui, nientemeno che lo stesso Licio Gelli avrebbe indirizzato una missiva di elogio per i suoi studi su questi rituali egizi a dimostrazione che il capo della P2 sarebbe quantomeno stato a conoscenza delle figure menzionate nella lettera.

Una delle tre teorie sulla profanazione identifica come mandante proprio Gelli il quale avrebbe voluto così vendicare un presunto sgarro fatto da Perón alla P2, che aveva dapprima negoziato la restituzione della salma di Eva Duarte e poi finanziato il rientro in patria del generale — favori che la loggia aveva concesso al fine di garantirsi, con l’appoggio dello stesso Andreotti, un canale esclusivo per la rappresentanza e la negoziazione degli interessi italiani in Argentina. Perón, una volta reinstallatosi al potere nel 1973, non avrebbe mantenuto la promessa giustificando con sdegno “che la patria non si vende”. Sebbene la pista esoterica sia fondata su argomentazioni molto valide, vi sono delle forti riserve riguardo agli altri due punti: diversi storici considerano che Licio Gelli non abbia avuto alcun ruoto attivo nella restituzione del corpo di Eva Duarte a Peròn soprattutto perché, dati alla mano, alla loggia erano stati invero garantiti grandi poteri già con l’insediamento del presidente Campora, con Gelli nominato rappresentante diplomatico esclusivo degli interessi commerciali italiani in Argentina e console onorario del Paese sudamericano in Italia, ricevendo sia la più alta onorificenza patria del Collar de San Martì e il passaporto argentino senza dover a sua volta rinunciare alla cittadinanza italiana come previsto all’epoca. È difficile dunque pensare che la P2, che in Argentina si era infiltrata fino ai livelli delle più alte cariche dello Stato e delle forze armate anche dopo il golpe, non abbia avuto la soddisfazione richiesta già ai tempi in cui Perón era ancora vivo.

L’IPOTESI DEL CONTO SVIZZERO RICONDUCIBILE A PERON

Il presidente argentino Raúl Alfonsín nel 1984

La seconda tesi, all’epoca la più immediata e popolare, vede nell’amputazione delle mani un atto necessario a utilizzare le impronte digitali del Generale per sbloccare un suo fantomatico conto cifrato in una banca svizzera. Le indagini successive appureranno tuttavia che non solo non risultavano conti bancari riconducibili a Perón in alcun istituto di credito svizzero, ma che questo escamotage non sarebbe stato possibile con la tecnologia esistente all’epoca in cui il Generale avrebbe necessariamente dovuto registrare le proprie impronte. Una variante di questa ipotesi sostiene invece che la chiave di accesso ai conti sarebbe stata incisa sul lato interno di uno degli anelli del Caudillo, ma viene quindi da chiedersi perché il disturbo di amputarle e prelevare entrambe le mani.

Le mani, questo potentissimo strumento di evocazione nella vita politica argentina; le mani che Raúl Alfonsín sollevava incrociate come gesto di vittoria, ma anche di riconciliazione nazionale; le mani che Evita agitava, le palme rivolte in alto e le dita tese come ad afferrare il cielo, mentre incendiava coi suoi discorsi le folle dei descamisados e quelle stesse mani di Perón, incise a fuoco nell’immaginario collettivo argentino, usate dal Generale, con un gesto di sapore quasi pontificio, per “benedire” le masse radunatesi in Plaza de Mayo. Sono quelle stesse mani, scomparse, che secondo i commenti spietati di tanti radicali e oppositori avrebbero dovuto essere tagliate via a Perón molti anni prima, quando era ancora in vita, affinché non saccheggiasse le ricchezze del Paese.

Non per niente il peronismo accuserà immediatamente il governo radicale di essere responsabile del gesto, benché le circostanze in cui svolse la profanazione non rientrassero assolutamente nella tradizione radicale e men che meno in quella alfonsinista. Come detto, è proprio il governo di Alfonsín che si trova a farne le spese, dovendo affrontare l’ennesima situazione di tensione e discredito politico. Il peronismo, da parte sua, da tempo fa di tutto per indebolire la presidenza radicale anche mediante l’arma sindacale, con Saul Ubaldini che promuove scioperi e manifestazioni a raffica per assediare il governo. In questo contesto, la profanazione del cadavere del fondatore del peronismo e soprattutto il valore simbolico dell’amputazione delle mani hanno una ripercussione enorme.

UNA “LONGA MANUS” INTENZIONATA A DESTABILIZZARE ULTERIORMENTE ALFONSIN?

La terza teoria infatti, vede una “longa manus” (!) non meglio identificata, ma intenzionata a destabilizzare ulteriormente il Paese generando un nuovo motivo di conflitto tra le due maggiori aree politiche dell’epoca. Se oggi ai nostri occhi questo può sembrare un’esagerazione, bisogna invece calarsi nella realtà dei mesi centrali del 1987 quando l’Argentina sta vivendo “l’inverno del proprio scontento”: mentre la riforma monetaria, passata alla storia come “Plan Austral”, inizia a mostrare le prime crepe che condurranno a una mostruosa iperinflazione l’anno seguente, già l’autunno del 1987 si rivela denso di tensioni e momenti di grande paura per la presidenza Alfonsín e per tutto il Paese, con il tentativo di colpo di Stato dei “Carapintadas” durante la Settimana Santa.

Va ricordato che quella di Alfonsín è una democrazia recuperata da pochissimo tempo e ancora molto fragile, in un Paese che si è risvegliato dall’incubo del regime scoprendo di avere migliaia di morti e scomparsi, un debito estero e una popolazione sotto la soglia di povertà decuplicati rispetto al 1975 e le persistenti minacce di sollevamenti militari da parte delle forze armate a causa del celebre “Processo alle Giunte”, esempio pressoché unico di esercizio democratico della giustizia, ma con un altissimo costo politico. Questo tentativo di rovesciamento militare dell’autunno 1987 scatenerà la reazione di milioni di argentini, che si riverseranno nelle strade e nelle piazze per sostenere il governo costituzionale, con il Paese sull’orlo di una guerra civile. La CGT peronista, poi, organizzerà uno sciopero generale, questa volta però a sostegno del governo radicale.

La crisi rientra dopo alcuni giorni grazie alla negoziazione di Alfonsín che concederà più tardi la famigerata “Legge di obbedienza dovuta” che riconosce diversi gradi di responsabilità penali a seconda della gerarchia dei militari coinvolti nell’esecuzione degli ordini durante la repressione del Proceso de Reorganización Nacional. Un evento che finisce per creare una enorme spaccatura nella politica e nell’opinione pubblica argentine; la progressiva e inarrestabile iperinflazione e la feroce opposizione peronista condurranno a una situazione di instabilità politica tale da portare Alfonsín alle dimissioni anticipate due anni più tardi. Il Paese sarà affidato al nuovo governo peronista di Carlos Saúl Menem il quale, screditate le manovre economiche e i procedimenti giudiziari del suo predecessore, porrà immediatamente una pietra tombale sulle condanne inflitte ai militari del Proceso, con il famigerato indulto, e inaugurerà un decennio considerato come uno dei più corrotti e disastrosi della storia costituzione dell’Argentina.

Le successive indagini sulla profanazione, riaperte dal giudice Baños durante il governo Menem e proseguite sotto quello Kirchner, si scontreranno contro un muro di omertà e minacce alla vita del procuratore facendo sì che ancora oggi, a distanza di trentacinque anni, quello delle mani del Generale continui a essere uno dei misteri più impenetrabili della pur già surreale storia recente dell’Argentina.