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L’arresto di Mario Moretti ed Enrico Fenzi

Redazione Spazio70

Enrico Fenzi verrà inizialmente confuso con il cognato Giovanni Senzani

«È un limpido sabato di primavera. Si sta benissimo. Alle due sono davanti alla Stazione Centrale di Milano. Compero il giornale e mi avvio piano all’appuntamento, godendomi la passeggiata. Risalgo la strada lungo il terrapieno della ferrovia. A un certo punto c’è uno slargo triangolare con una piccola aiuola, a destra. Oltre, appoggiato al muro, mi aspetta Moretti. Lo vedo da lontano e affretto il passo. Al bordo esterno dell’aiuola c’è un giovane seduto a gambe larghe sulla Vespa, e un altro, in piedi, chiacchiera con lui. Hanno giubbotti di jeans, i capelli lunghi e le scarpe da ginnastica. Dall’altra parte un gruppo di giovani è fermo davanti al bar, qualcuno è seduto. Chi parla, chi legge il giornale. Sono ormai a una ventina di metri da Moretti, che non si è mosso.

Quei tipi non mi piacciono: senza pensarci troppo svolto di colpo a destra, in una via deserta. Non so bene perché, e cosa può succedere. Un attimo, e sento dei passi dietro di me: “Ehi! ero lì, non mi hai visto?”. Forse speravo che capisse, che cercasse anche lui di prendere il largo. Ma ormai siamo insieme, è fatta. “Hai visto quelli là sulla piazzetta? sono troppi, non so, non mi vanno”. Riflette un momento, si guarda attorno: “Ma no… sono le due e mezza di sabato, è una bella giornata! Sono tutti lì che decidono come organizzarsi il pomeriggio e la serata”. È del tutto verosimile. Ma sono ancora incerto, mentre lo seguo. Torniamo indietro, andiamo proprio verso il bar. Di fianco c’è il portone della casa nella quale dobbiamo incontrare i tre ragazzi. Lì davanti ce ne sono due, Tiziana e Silvano, appena arrivati. Ma le chiavi ce l’ha Renato, che ancora non c’è.

Ci scherziamo su e aspettiamo un minuto o due. Moretti, si vede che è appena sceso dal treno: ha il soprabito, la sciarpa e due borse, una normale e l’altra a tracolla. I giovani del bar continuano a muoversi. Vanno, vengono. Mi sento ancora a disagio, e sono proprio io a dire: “Sentite, è inutile stare qui tutti insieme. Facciamo ancora un giro, e ritroviamoci qui davanti fra un quarto d’ora. E speriamo che Renato arrivi”. Ci dividiamo. Prendo io la borsa di Moretti, e insieme continuiamo il giro dell’isolato.

C’è un tipo che legge un giornale a fumetti, in piedi, proprio in mezzo al marciapiede, all’angolo opposto. Altri due attraversano la strada, più giù, e ci vengono incontro. Li incrociamo. In fondo, entriamo in un bar. È vecchio e polveroso, con grandi vetri sudici sulla strada. Non ci sono altri clienti. Mentre aspettiamo il caffè mi avvicino alla porta a vetri. Dall’altra parte è posteggiato un camioncino. Dietro, uno con la coppoletta marrone guarda verso di noi. Torno da Moretti che ha aperto la borsa e sta frugando in un pacco di carte, e gli dico: “Guarda che ci siamo… qualcuno ci sta addosso”. Non mi dà soddisfazione. Tira su la testa, ha un foglio in mano, e se lo infila in tasca. Il caffè è pronto. Versa lo zucchero, e dice: “Non possiamo star dietro a ogni impressione, diventeremmo matti, ti pare?”. Con l’occhio ai vetri, butto giù il caffè in un colpo. Scherzo, ma non troppo: “Non sarà che Renato ci ha venduti? invece di venire lui, ha mandato i poliziotti…”. Alza le spalle. Usciamo e ci guardiamo attorno. 

Adesso tutto pare tranquillo: con le mie paure, mi sento un po’ ridicolo. Continuiamo il nostro giro. Riflette: “Sì. In ogni caso è davvero assurdo che ce ne stiamo qui a girare per due ragazzini che non ci servono a niente. È anche pericoloso. Lì dietro, vedi?” mi indica un isolato, a destra “abitava la Besuschio, e io ero spesso da queste parti… ai ragazzi, gli diciamo che ci prendiamo un po’ di tempo. Lasciamo passare qualche mese, e intanto vedremo se sarà possibile arrivarci con uno che faccia da filtro. Che ne dici?”. Giriamo un altro angolo, e ci lasciamo alle spalle un altro bar. Siamo di nuovo nella strada dove ho deviato, prima, e lui mi ha raggiunto. Via Cavalcanti. Mette la mano in tasca e tira fuori il foglio che gli avevo già visto: “Ecco, è l’ultimo invito all’unità che mandano fuori quelli di Palmi. Si vede che non se la sentono ancora di stare con i milanesi, almeno per adesso”. Me lo porge aperto. Lo scorro velocemente… due ombre mi saettano davanti, schizzate dalle macchine posteggiate lungo il marciapiede, due ombre urlanti. “Fermi! Polizia!”. L’urlo fa tutt’uno con l’urto violento e doloroso della bocca della pistola contro il petto. E con una gran botta alle spalle. Non faccio in tempo a muovermi. Cado di traverso, con la faccia in alto, e batto malamente la testa: mi divincolo, istintivamente, ma è come se fossi legato dentro un sacco. Mi stanno sopra in tre o quattro. 

Come in sogno, intravedo più in là la testa di Moretti, in un groviglio di braccia e gambe. Urlano ancora, mentre mi frugano: “Ha la pistola! Ha la pistola!”. E poi: “Senzani, ti abbiamo preso… Porco! Bastardo! Ora ti spariamo in bocca!”. Mi tengono la testa schiacciata sul marciapiede e mi infilano in bocca la canna della pistola. Non vedo più niente, sono sommerso. La apro più che posso. In galera i denti sono uno dei beni più preziosi, e io, sopra, ho la dentiera, una dentiera vecchia e fragile, e non voglio che il grosso ferro che mi arriva in gola e sta per farmi vomitare me ne faccia saltare un pezzo. Non voglio stare per anni senza denti. Allargo le mascelle fino a farmi male, e muovo come posso la testa per assecondarne il movimento. Non ho altri pensieri che questo. Ma sento che la pistola trema impazzita, in bocca, e chi mi sta sopra trema, trema forte, e in quel tremito rilascia la sua tensione, la sua paura. Risuonano altre grida, di là dai corpi che mi schiacciano, e si ripetono con violenza: “Basta! Basta!”. Ci sono spinte, strattonamenti, bestemmie, quasi che un nuovo branco sia arrivato e mi strappi al primo: “Basta! Via ora… via, via!”. Mi sollevano di peso e mi gettano in macchina. Ho le braccia ammanettate dietro la schiena. La strada è piena di gente che corre, di macchine con le portiere aperte, e le sirene sono al massimo. A tutta velocità rifacciamo la strada che ho fatto a piedi, mezz’ora fa. Entriamo come schegge nel cortile della Questura, in via Fatebenefratelli.

Di corsa, mi portano di sopra. Infiliamo un corridoio, non tocco terra. A metà ci sono tre scalini che scendono: oltre, ai due lati, una fila di porte aperte. Precipitiamo giù a capofitto, e finiamo a terra aggrovigliati e ammaccati, io e quelli che mi trascinano. Ma siamo arrivati. Mi riprendono sotto le ascelle e mi tirano dentro un piccolo ufficio. Mi lasciano sul pavimento e mi calano i pantaloni. Mi frugano bene dappertutto e trovano subito, nella giacca, il mazzo di chiavi, il caricatore di riserva, l’agendina con le pagine strappate sino alla data di oggi, sabato 4 aprile. Non dicono più niente, uno si siede e sorride. Il peggio è passato.

Se non altro, sono vivo e intero. È un pensiero inevitabile. Mi rimettono in piedi e mi fotografano, alla buona. Credono ancora che io sia Senzani, e non li contraddico. La poltroncina è scomoda e l’imbottitura di gommapiuma dei braccioli è piena di buchi. Le braccia, ammanettate dietro lo schienale, mi fanno male, e sento che i polsi mi si stanno gonfiando, dove le manette stringono. Ho il petto schiacciato contro un lungo tavolo che occupa tutta la parete della stanza, ricavata da uno stretto ammezzato. È piena di scatoloni, di scartoffie ammucchiate in disordine, e la bassa finestra ad arco, in fondo, che dà su chissà quale cortile interno, non lascia passare neanche un po’ della luce primaverile che ho lasciato fuori. Riesco ad appoggiare la guancia sul piano del tavolo. Non sto troppo scomodo e mi pare che le fitte dolorose che mi attraversano la testa si vadano lentamente calmando. Cerco di non pensare a niente. Chiudo gli occhi e mi assopisco forse per mezz’ora, forse meno. 

Fuori dalla porta s’indovina un brusio affaccendato, un continuo andare e venire. Ogni tanto s’affaccia qualcuno, ma non si fa a tempo a vedere chi sia. Getta un’occhiata dentro la stanza, quasi ad accertarsi che sia tutto vero, e sparisce. Entra un anziano, piccolo e pelato, e sbraita: “Presto, presto, mettete i cappucci, che ora li portiamo di sotto… devono cagare sangue, questi bastardi assassini!”. Se ne va, e il poliziotto che sta lì con noi non lo guarda neppure. Sorride, invece, e si rivolge a Moretti, ammanettato come me, nell’altro angolo della stanza: “Mario, guarda il tuo amico! Riposati anche tu, non te la prendere, doveva finire così, no? Dai, che ti è andata bene!”. Vorrebbe attaccar discorso, ma Moretti tace, gli occhi sporgenti segnati da grandi borse scure, la schiena diritta sulla sedia. Guarda fisso in avanti, è disperato. Tanto calmo e tanto disperato che non ho cuore di guardarlo. Ha una piccola ferita sul labbro inferiore: un colpo durante la colluttazione, una botta sul selciato. Volta la testa verso di me, ma non parla. Da fuori, sentiamo improvvisamente la voce del giornale-radio. Poche parole: “Arrestati a Milano…”. Rumori, forse battimani, coprono il resto. Pare che di là si stia brindando. Non è il botto dei tappi che saltano, questo? Ora sorrido anch’io a Moretti, e mi stringo nelle spalle. Gli dico — sono le prime parole: “Festeggiano noi”. Scuote la testa, s’addolcisce un poco, forse. Ma gli occhi restano disperati.

Chissà cosa stanno vedendo. Ha sbattuto contro un muro, la sua corsa si è fermata e la sua vita è tutta lì e non è più niente e non è ancora qualcosa, in questi attimi in cui il passato e il futuro si spalancano come precipizi senza fondo. È lì, legato a questa sedia, in questa stanza. E basta. È inconcepibile. Fuori, il vuoto e i moti lontani… l’ora che passa, goccia a goccia, e rimbomba nel cervello. Entrano altri due poliziotti, giovani, con l’aria da banditi. Si mettono davanti a Moretti: “Mario, come stai? È da anni che ti cerchiamo…”. Se lo guardano e se lo riguardano con curiosa ammirazione. Godono a chiamarlo: “Mario”, con familiarità. Sorridono contenti: “Mario, ci hai fatto sudare, accidenti a te! Ma come hai fatto?”. Non c’è rancore. Ci tengono a essere lì, a salutarlo, a complimentarsi con lui e con se stessi — è una faccenda di tipo sportivo. Vogliono significare che i cacciatori e la preda sono degni uno dell’altro, peccato che sia già finita, è stata dura ma ne valeva la pena: nemici sì, ma da una parte e dall’altra diversi da tutti gli altri, dalla massa… 

Anche nella caserma Sant’Ambrogio, dove è stato isolato un mese – mi dirà poi Moretti – è andata così. Per vederlo e chiacchierare con lui gli portavano un caffè dietro l’altro, lo trattavano bene, gli facevano domande: “Mario, ne avresti da raccontare, eh! Tanti anni…”. Ci fanno alzare, e per una piccola scala interna ci portano al piano di sotto, un antro piccolissimo nel quale stiamo stretti. Ci fotografano da tutte le parti e ci prendono le impronte, su tante schede diverse, per gli archivi delle polizie di mezzo mondo. Davanti a me, sento che dichiara le sue generalità lentamente, con precisione: “Moretti Mario, nato a Porto San Giorgio il sedici gennaio del quarantasei…”. Faccio anch’io altrettanto. Stanno già per scrivere “Senzani”, e si fermano stupiti. Fenzi. Fenzi chi? Si guardano uno con l’altro, c’è un po’ di fermento. Uno o due escono di corsa. Ci riportano su. Incrocio una persona robusta, con corti riccioli scuri, vestita in modo sportivo. Mi guarda e dice, con voce dura: “Mi permetta di dirle che sono personalmente felice che vi abbiano presi. E prenderemo anche tutti gli altri, ne stia certo”. Mi fanno aspettare cinque minuti in piedi, nella stanza lunga e stretta di prima. Moretti non c’è più. Mi prendono e mi portano in un ufficio, proprio dall’altra parte del corridoio. Dietro il tavolo è seduto il signore che mi ha parlato poco fa.

Si presenta: “Sono il giudice Spataro. Si accomodi”. Ripeto il mio nome. Aggiungo che non ho nulla da dichiarare, e che non risponderò ad alcuna domanda. Non torno in quella stanza. Mi fanno scendere giù, sino al pianterreno, e mi portano nelle camere di sicurezza. Saranno le sei, più o meno»*. 

* Il passo è tratto dal libro di Enrico Fenzi, «Armi e bagagli. Un diario delle Brigate rosse», EGG, 2015