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Brigate rosse. L’attentato a Carlo Castellano

Redazione Spazio70

Un lungo calvario fatto di interventi chirurgici e rieducazioni dolorose

Carlo Castellano, direttore della pianificazione, studi e sistemi informativi del raggruppamento Ansaldo, nel 1979 ha 43 anni. Nel luglio di quell’anno subisce l’ultima di quattordici operazioni agli arti, epilogo di due terribili anni di sofferenze.

Carlo Castellano gravemente ferito dalle Brigate rosse

Ricorda ancora benissimo il 17 novembre 1977 in cui viene «gambizzato»: è un giovedì, un giorno in apparenza come gli altri.

Dopo avere incontrato alcuni colleghi, esce da lavoro e si dirige verso casa. Sono le 18,30 quando vede davanti a sé due ragazzi che gli sparano contro con una pistola: fa a tempo a notare anche una fiammata, ma in un primo momento pensa a uno scherzo, a una scacciacani. Dopo poco sente però i primi dolori alle gambe e capisce che lo hanno colpito. Prova a fuggire, ma viene inseguito: nella sua testa c’è ancora il ricordo degli occhi di quel ragazzo che gli scarica addosso un caricatore. Sono pieni di odio.

Quel giovane vuole distruggere Castellano e quasi ci riesce perché lo lascia in mezzo alla strada con otto proiettili alle gambe e uno al ventre. Il dirigente Ansaldo giace lì, davanti a casa propria, in una pozza di sangue. Arrivano in tanti, richiamati dagli spari: sono fotografi, ma soprattutto curiosi. Castellano è lucido: dice di avvisare la moglie. «Chiamate un’ambulanza, presto!», fa a qualcuno, ma per interminabili momenti non succede nulla. I primi soccorsi arriveranno solo trenta minuti dopo e Castellano giungerà in ospedale mezzo morto.

LE RESPONSABILITÀ DEL MONDO CATTOLICO

I medici gli ricostruiscono l’arteria femorale, ma dopo una settimana si sviluppa nella gamba destra un processo infettivo che tiene in apprensione tutti: il dubbio è se amputare o meno l’arto. Riescono a salvarglielo, ma da lì comincerà un lungo calvario fatto di interventi chirurgici e rieducazioni dolorose.

A Torino, al Centro traumatologico, Castellano conosce altri nelle sue stesse condizioni: si tratta, in gran parte, di dirigenti e capi Fiat colpiti dalle Brigate rosse, alcuni dei quali considerati «riformisti» e per questo paradossalmente più esposti. La colpa è quella di essere parte di un processo capace di far maturare ruoli e rapporti tra dirigenti e operai. Uomini in molti casi distrutti, fisicamente e psicologicamente, che non si danno ragione del perché siano stati colpiti dai terroristi.

Castellano, in particolare, viene ferito perché considerato il «berlingueriano» per eccellenza, espressione di un progetto, quello del Pci, volto al controllo delle fabbriche. L’imputazione è quella di voler addormentare la classe operaia, di volerla irretire, nel tentativo di integrarla nei processi, ormai avanzati, di riorganizzazione capitalistica.

Quando gli chiedono di chi è la colpa non dà risposte definitive, ma si limita a fornire uno spunto utile a comprendere dove sia nato il terrorismo. Gli viene suggerito dall’esperienza fatta vivendo per molto tempo tra i cosiddetti «cattolici del dissenso». Castellano ricorda l’integrismo, una certa visione manichea del mondo e dei rapporti tra persone e classi, tale da portare a considerare gli altri come nemici più che come avversari.

La conclusione alla quale giunge è chiara: anche i cattolici dovrebbero fare i conti con il loro album di famiglia.

Sul tema delle conseguenze, spesso sottovalutate, delle cosiddette «gambizzazioni» compiute dal partito armato durante gli anni di piombo, ci pare interessante riportare la recente testimonianza di Carlo Castellano, dirigente Ansaldo a Genova, rimasto vittima di un attentato nel novembre 1977. «Ero andato a trovare l’ingegner Puri perché stavamo scrivendo un paper sulle partecipazioni statali. Era novembre, il 17 novembre, sono uscito da casa sua e volevo andare all’edicola che è all’inizio di via Nino Bixio. A un certo punto mi sono visto davanti due giovani, molto giovani, che hanno incominciato a spararmi. Io sentivo e vedevo i proiettili. Vedevo la fiamma dalle pistole e sentivo il dolore alle gambe. Allora ho cercato in qualche modo di scappare ma non riuscivo a muovermi. Ho cercato di fare qualche passo, per sottrarmi al fuoco. A un certo punto sono caduto, il proiettile che mi ha colpito all’addome probabilmente mi ha preso mentre stavo cadendo. Se volevano ammazzarmi mi ammazzavano subito, non c’era bisogno di spararmi soltanto alle gambe. Poi si è saputo che erano due, e uno che faceva il palo. […] Mi hanno sparato quattro proiettili: uno ce l’ho ancora in un ginocchio, ma non dà fastidio, un altro ha colpito più in basso, le dita del piede sono un po’ tutte contorte, ma chi se ne fotte. Un terzo è passato a un centimetro dal fegato. Quello è andato via, è entrato e uscito. Per fortuna, perché un centimetro più in là e io non starei qui a parlare. Il quarto ha spaccato l’arteria nella gamba ed è cominciato il disastro. Il sangue usciva a fiumi e quando sono arrivato al San Martino ero quasi dissanguato. Sono riusciti a salvarmi, però si è manifestata nei giorni successivi un’infezione devastante alla gamba. Praticamente era andata in pezzi, una necrosi gravissima. A Torino c’era un professore molto bravo. Mi ha fatto un’operazione per prendermi un pezzo di pelle qui sull’addome, isolarlo da una parte all’altra, poi me l’ha attaccato qui alla mano. E poi alla gamba, per farlo hanno tagliato il perone. Dieci anni fa mi avevano detto che era meglio tagliarla, la gamba. Ma l’idea di farmi tagliare la gamba mi sembrava un modo di dargliela vinta. Ho preferito resistere e sopportare decine di operazioni. Ma non gliel’ho data vinta. E qui mi fermo, non ce la faccio ad andare avanti. È stata ed è ancora durissima». [Fonte: Corriere della Sera, 7 dicembre 2019]