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«I capi delle BR? coperti dall’alto o diretti dall’estero». Bettino Craxi sul caso Moro

Redazione Spazio70

Dichiarazioni rilasciate per il settimanale tedesco «Stern» e pubblicate in esclusiva in Italia dalla rivista «Epoca» del 31 maggio 1978.

Quale era in realtà il piano di Bettino Craxi? Per la prima volta, il segretario del PSI rivela in questa intervista, concessa al settimanale Stern e in esclusiva per l’Italia a Epoca, i retroscena delle trattative di quei drammatici giorni, i più bui del nostro dopoguerra.

— Durante il periodo della prigionia di Moro, quasi tutti i partiti italiani sono stati unanimi nella decisione di non trattare in nessun caso con i terroristi delle Brigate rosse. Solo il suo partito si è staccato da questo fronte comune. Ora, le si rimprovera di aver indebolito in tal modo lo Stato italiano. Ritiene che ciò risponda al vero?

«Fin dai tempi di Socrate si è dibattuto il dilemma se sia più importante l’essere umano o la legge. Per i socialisti, l’uomo viene innanzi tutto. Quindi, nel caso Moro, ci siamo pronunziati in favore di trattative con i rapitori. L’articolo 2 della Costituzione italiana afferma: “La Repubblica garantisce e riconosce i diritti inviolabili dell’uomo”. Di tali diritti fa parte, a nostro avviso, la vita».

— Anche un articolo della Costituzione tedesca afferma: “La dignità dell’uomo è intangibile. Lo stato ha il dovere di rispettarla e tutelarla”. Tuttavia, nel caso del sequestro Schleyer, la Corte costituzionale ha respinto un’azione giudiziaria della sua famiglia motivata appunto dal diritto alla vita.

«Eppure il governo tedesco ha trattato con i terroristi che avevano in ostaggio Schleyer, ha trattato per poter conoscere meglio l’avversario e combatterlo più efficacemente. Il Partito socialista italiano non voleva niente di più. E non si dovrebbe dimenticare che il successo di Mogadiscio è stato possibile solo perché si era riusciti a coinvolgere i terroristi in un dialogo. Negli ultimi tempi, la polizia italiana ha potuto incriminare sempre più spesso i rapitori di privati cittadini perché le famiglie avevano aperto trattative con i delinquenti. Nel caso Moro, c’erano motivi concreti a sostenere la nostra iniziativa di prendere contatti con i terroristi».

— Quali motivi?

«Il nostro intento era quello di far uscire vivo dalla “prigione del popolo” il Presidente della Democrazia cristiana. Le nostre speranze si fondavano su elementi molto solidi. Nell’ultima lettera scritta al suo partito, Moro chiedeva che si aprissero delle trattative. “Lo Stato non si mette in ginocchio solo perché salva la vita di un innocente e libera un altro uomo dal carcere”, affermava».

— Quali conclusioni lei trasse da questa frase?

«Noi la interpretammo nel senso che, in quel momento, la scarcerazione di un brigatista sarebbe potuta bastare per ottenere lo scambio con Moro. Allora, infatti, sembrava che i terroristi non volessero più irrigidirsi incondizionatamente sulla loro prima richiesta: lo scambio di Moro con tredici brigatisti detenuti. Vorrei sottolineare che, come tutti gli altri partiti italiani, noi socialisti abbiamo giudicato subito tale richiesta come una provocazione e in nessun caso vi avremmo aderito».

— Lei ha fatto riferimento alla lettera di Moro. La mano del presidente non era forse stata guidata sin dall’inizio dai suoi assassini?

«Io non escludo che i terroristi abbiano fatto a Moro delle promesse false per ingannare lui e, in definitiva, anche noi. Tuttavia, il nostro tentativo di aprire delle trattative era giusto. Perché l’alternativa significava rassegnarsi e dare per scontato che “l’esecuzione” di Moro fosse inevitabile. E noi non potevamo rassegnarci a questo. Diversi giornali italiani hanno avanzato l’assurda ipotesi che “la morte di Moro avrebbe salvato la nostra Repubblica”. Che balordaggine!».

— Perché è fallita l’iniziativa del suo partito?

«Ci siamo decisi a prenderla solo quattro settimane dopo il rapimento di Moro, e dopo che le indagini della polizia non avevano fatto nessun evidente progresso. Il tempo che ancora restava non è bastato a salvare la vita di Moro. Noi non conoscevamo il nostro avversario. E non abbiamo trovato nemmeno un interlocutore che potesse fare da intermediario tra noi e le Brigate rosse. Anche l’avvocato Giannino Guiso, che difende i brigatisti al processo di Torino, non ha potuto esserci utile in questo senso. I terroristi hanno rifiutato di servirsene come fiduciario».

— La Democrazia cristiana era disposta a legittimare gli sforzi fatti dal suo partito per venire a delle trattative e, quindi, a scostarsi dalla linea del categorico “no”?

«Abbiamo avuto una seduta di cinque ore col vertice democristiano per esporre e approfondire i nostri punti di vista. Dopo questa riunione, i democristiani si sono dichiarati disposti a un atto di grazia, se i terroristi avessero liberato Moro».

— Quale atto di grazia si contemplava?

«La grazia concessa dal Presidente della Repubblica. Ma non si è parlato del numero dei terroristi che avrebbero dovuto beneficiarne. Il partito di Moro ci ha sempre dato atto di “generosità”, e per noi questo è un indizio che la Dc prendeva in considerazione la possibilità di concedere un’amnistia per determinati reati. Io sono convinto che i democristiani avrebbero rinunziato al loro ostinato rifiuto di trattare con le Brigate rosse, se noi fossimo riusciti a stabilire un contatto con i terroristi. Il discorso del presidente del Senato, Amintore Fanfani, fatto due giorni prima dell’assassinio di Moro, ne è stato un primo sintomo».

«QUESTO ASSASSINIO PORTA LA FIRMA DI KILLER PROFESSIONISTI»

— Perché le Brigate rosse hanno assassinato Moro anche se erano prossime a raggiungere il loro scopo?

«Per rispondere a questa domanda bisognerebbe anzitutto sapere chi sono le Brigate rosse e poterle localizzare. A mio avviso, i capi dei brigatisti o sono inseriti in strutture elevate della compagine statale e vengono quindi “coperti” dall’alto, oppure le loro imprese sono dirette dall’estero. Propendo per la seconda alternativa».

— Vorrebbe motivare questa sua ipotesi?

«La dinamica e la drammaturgia della tragedia di Moro lo dimostrano chiaramente. Moro viene rapito il 16 marzo, mentre si sta recando alla Camera dei deputati. All’ordine del giorno, c’è il voto di fiducia al primo governo democristiano che abbia mai concluso un’alleanza parlamentare con i comunisti. Poco meno di due mesi dopo, il cadavere di Aldo Moro viene trovato proprio tra piazza del Gesù, dove ha sede la Democrazia cristiana, e via delle Botteghe Oscure, dove c’è il quartier generale del Pci, deposto ai piedi dei due partiti, per così dire. Da questo macabro spettacolo io traggo la conclusione che gli assassini di Moro sono, in ogni caso, avversari della coalizione di fatto tra democristiani e comunisti».

— E quali altre conclusioni ne trae?

«Basta considerare le ferite d’arma da fuoco sul corpo di Moro. Gli undici fori di proiettile nella zona del cuore sono vicinissimi, “a rosa”. Questo assassinio porta la firma di killer professionisti. Inoltre, da colloqui avuti con alti funzionari di polizia, ho appreso un fatto: ci sono le prove che terroristi sudamericani e tedeschi hanno collaborato all’operazione».

— Che genere di prove?

«Non posso parlarne per ora».

— Come giudica le ipotesi secondo le quali i mandanti delle Brigate rosse sarebbero comunisti stalinisti della Liguria e del Piemonte che agirebbero agli ordini di un servizio segreto dell’Est?

«È indubbio che le imprese delle Brigate rosse sono orientate contro il Pci e il corso eurocomunista di Berlinguer. Ma è pure indubbio che le Brigate rosse hanno una matrice leninista».

— Perché esclude che le Brigate rosse siano un’organizzazione esclusivamente italiana?

«Una banda di terroristi italiani, che operasse da sola e di propria iniziativa, non avrebbe mai commesso l’errore determinante di assassinare Moro. In questo modo, si è giocata il successo politico che avrebbe avuto, se l’avessero rimesso in libertà. Una banda esclusivamente italiana, che conta di conquistarsi dei simpatizzanti nelle correnti di ultrasinistra per accrescere il proprio peso politico e rafforzare la propria influenza, non avrebbe mai commesso un simile errore. Non avrebbe rischiato di perdere tutto quello che aveva costruito finora con un delitto atrocemente assurdo».

— Nelle ultime settimane, il Pci ha ripetutamente e pubblicamente condannato i simpatizzanti delle Brigate rosse. Si dice che abbia persino denunziato alcuni terroristi. E il Pci accusa i socialisti di aver accolto nelle proprie sedi e sovvenzionato degli estremisti di sinistra, i cui locali di riunione erano stati chiusi dalla polizia.

«A questa accusa posso rispondere solo che i terroristi individuati finora hanno tutti un passato comunista. Nessuno di loro è mai uscito dalle nostre file. Anche la seconda generazione di brigatisti rossi è composta in prevalenza da ex membri del Pci. Il terrorista Cristoforo Piancone, di 28 anni, ferito e arrestato durante un attentato presso Torino, al principio di Aprile, è stato iscritto al Pci fino al 1975».

— Ma il suo partito ha effettivamente aperto un dialogo e stabilito dei rapporti con le correnti di estrema sinistra?

«Noi riteniamo che la scomunica dei giovani contestatori o eretici non sia una soluzione. Quindi tentiamo di attrarre a un colloquio dialettico la nuova sinistra emersa dalla rivoluzione studentesca del 1968. Soltanto così si può evitare che un numero sempre maggiore di giovani si tuffi nella clandestinità. Ma la discussione con i dissidenti non ha niente a che vedere con gli atti terroristici. I comunisti dovrebbero prendere una buona volta l’abitudine di condannare tutti quelli che hanno un’opinione diversa dalla loro linea di partito».

— Come prevede il futuro dell’Italia dopo l’assassinio di Moro?

«Tetro. Ci aspettano tempi difficili. Più difficili di quelli che abbiamo alle spalle. Dal caso Moro, i brigatisti trarranno la conclusione che i sequestri non pagano. Quindi, si limiteranno a sparare. Ci aspetta un futuro alla sudamericana. Ormai siamo solo a un passo dalla situazione in cui si trova l’Argentina».

— Lo Stato è in grado di far fronte ad altri atti di terrorismo?

«Se il nostro Stato fosse in condizioni migliori, saprebbe certo controllare meglio certe situazioni e riconquistare più rapidamente il terreno perduto. Noi siamo stati colti di sorpresa dal terrorismo. E durante le indagini svolte per il caso Moro, abbiamo imparato che, da soli, i blocchi stradali non servono contro quel tipo di criminalità politica. Dobbiamo ricostituire una valida salvaguardia dei principi costituzionali. Ci vorrà del tempo».

— Lei è sembrato depresso dopo la morte di Moro. Questo dipende dalle preoccupazioni per l’avvenire politico italiano, oppure si è sentito sconfitto per il fallimento della mediazione nel caso Moro?

«Sì, sento che abbiamo perso. Meglio: sento che in questa tragedia, unica nella storia italiana del dopoguerra, l’umanità è stata vinta dalla barbarie. Questo darà maggior impulso al terrorismo politico in Italia. Personalmente, ho la coscienza tranquilla. Noi socialisti abbiamo tentato di tutto per salvare la vita di Moro».

— Nonostante l’insuccesso, la sua iniziativa era sensata?

«Dal punto di vista della politica elettorale, avrebbe anche potuto non esserlo, perché andare controcorrente poteva significare perdere voti, specie quando, come in questo caso, l’opinione pubblica invocava la pena di morte. Ma, forse, il nostro tentativo di mediazione ha avuto un effetto pratico positivo. Anche se non abbiamo potuto evitare l’atroce fine di Moro, siamo riusciti a rinviarla. In questo modo, abbiamo regalato alle autorità inquirenti tre settimane preziose, che potevano essere importanti, se non addirittura decisive, per la soluzione del caso».