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Mario Tanassi di fronte ai giudici. Le parti del memoriale Moro su piazza Fontana

Redazione Spazio70

La decima parte di una serie di articoli di approfondimento sulla strage di piazza Fontana

Un altro tema sconveniente da affrontare è quello che da tre anni pone Andreotti in polemica nei riguardi di Miceli: la dichiarazione fatta alla Camera dallo statista democristiano circa i rapporti tra il SID e Giannettini. Nel 1974 il generale a capo dei servizi riferì all’allora Ministro della Difesa democristiano che con quel giornalista non vi era più alcun tipo di contatto. Un’affermazione del tutto falsa poi trasmessa da Andreotti al parlamento. Il generale si giustifica dando la colpa al suo collega Maletti, il quale, a suo dire, avrebbe lasciato intendere tale circostanza. Ma le controversie in merito alle dichiarazioni di Miceli continuano a emergere anche nell’udienza successiva, in presenza del Ministro Tanassi. Il 17 settembre 1977 l’onorevole siede dinnanzi al giudice Scuteri che gli pone la prima domanda:

«SIGNOR MINISTRO, PERCHÉ NEGA DI AVER PARLATO CON ME DI GIANNETTINI?»

Mario Tanassi

«Onorevole, ricorda se il generale Miceli, allora capo del SID, ebbe a parlarle di Giannettini e della questione relativa all’opportunità o meno di rivelare il nome di Giannettini all’autorità giudiziaria?»

«Come… come ho dichiarato in istruttoria, non mi s… non… il generale Miceli non mi parlò…»

«Lo esclude?»

«Di questa…. escludo. Né… né mi mostrò… parlo sempre della dichiarazione che ho reso in istruttoria, né mi mostrò la lettera…»

«Ma il generale Miceli lo ha affermato in istruttoria che non solo glie ne parlò diverse volte… più volte, ma che gli mostrò questa lettera».

Il clima che si respira è indubbiamente molto teso. Durante il confronto con Miceli, l’onorevole Tanassi appare imbarazzato e in evidente difficoltà. Il generale incalza:

«Signor ministro, la verità bisogna dirla: mi dispiace per lei. Io non so perché nega di aver parlato con me di Giannettini: io so soltanto che ne abbiamo parlato persino dopo e cioè quando il giudice istruttore firmò il mandato di cattura. In quell’occasione, anzi, io mi preoccupai di avere un parere tecnico dal SID e il generale Alemanno mi suggerì di tacere sino a quando il magistrato non avesse chiesto altre notizie e mi avvertì che il generale Malizia e l’ammiraglio Castaldo condividevano quest’opinione».

MILITARI CONTRO POLITICI

Tra i rappresentanti dello Stato sono ormai ben visibili due fronti contrapposti che si sfidano in aula. Quello dei militari contro quello dei politici. Guido Giannettini è l’emblematico principio di conflitto tra le due parti. Per chi ha lavorato costui mentre la magistratura indagava? Chi ha gestito i contatti con il giornalista? Chi ne ha decretato la segretezza? Sotto quale supervisione? Simili responsabilità gravano come una montagna di cui nessuno vuol farsi carico. Giannettini è stato certamente agevolato da chi aveva interesse a coprirlo durante lo svolgimento delle indagini. Ma tra balbettii e mancate ammissioni, tra scaricabarile e vuoti di memoria, il quadro che emerge a oltre sette anni dalla strage è quello di un processo destinato a durare in eterno. A ogni udienza la situazione sembra complicarsi ulteriormente e la fiducia nei riguardi delle istituzioni, per l’opinione pubblica, perde sempre più terreno.

Aldo Moro nel carcere brigatista

Quest’ultimo dettaglio rappresenta una delle conseguenze più gravi dell’intera vicenda, poiché è in questo clima di generale sconforto che in Italia lo scontro politico sta raggiungendo l’apice della più cieca violenza. Il 16 marzo 1978 l’onorevole Aldo Moro viene rapito a seguito della sanguinosa strage di via Fani. Gli uomini delle Brigate rosse si ergono a giudici del popolo e interrogano lo statista democristiano sui fatti di Piazza Fontana. Dal Memoriale Moro si possono leggere le seguenti dichiarazioni dello statista: «Debbo dire che in quell’epoca ero Ministro degli esteri e quasi continuamente fuori d’Italia, come si potrebbe documentare dal calendario degli impegni internazionali. Fui colto proprio a Parigi, al Consiglio d’Europa, dall’orribile notizia di Piazza Fontana. Le notizie che ancora a Parigi, e dopo, mi furono date dal Segr. Gen. Pres. Rep. Picella, di fonte Vicari, erano per la pista rossa, cosa cui non ho creduto nemmeno per un minuto. La pista era vistosamente nera, come si è poi rapidamente riconosciuto. Fino a questo momento non è stato compiutamente definito a Catanzaro il ruolo (preminente) del SID e quello (pure esistente) delle forze di Polizia. Ma che questa implicazione ci sia non c’è dubbio. Bisogna dire che, anche se con chiaroscuri non ben definiti, mancò alla DC di allora e ai suoi uomini più responsabili sia sul piano politico sia sul piano amministrativo un atteggiamento talmente lontano da connivenze e tolleranze da mettere il Partito al di sopra di ogni sospetto. Risulta invece, mi pare soprattutto dopo la strage di Brescia, un atteggiamento di folla fortemente critico e ostile proprio nei confronti di esponenti e personalità di questo orientamento politico, anche se non di essi soli. Dislocato, come può essere asserito e dimostrato, prevalentemente all’estero, non ebbi occasione né di partecipare a riunioni né di fare distesi colloqui. Ricordo una viva raccomandazione fatta al Ministro dell’Interno On. Rumor (egli stesso fatto oggetto di attentato) di lavorare per la pista nera. Ricordo un episodio che mi colpì, anche se mi lasciò piuttosto incredulo. Uscendo dalla Camera tempo dopo i fatti di Piazza Fontana, l’amico on. Salvi, antifascista militante e uomo di grande rettitudine (cugino di una persona morta e di altre ferite nella strage, di nome Trebeschi, già appartenente a mondo cattolico) mi comunicò che in ambienti giudiziari di Brescia si parlava di connivenze e indulgenze deprecabili della DC e accennava all’On. Fanfani come promotore, sia pure da lontano, della strategia della tensione. Io ebbi francamente una reazione d’incredulità e il Salvi stesso aggiunse che la voce non era stata comprovata né aveva avuto seguito».