logo Spazio70

Benvenuto sul nuovo sito di Spazio 70

Qui potrai trovare una vasta rassegna di materiali aventi ad oggetto uno dei periodi più interessanti della recente storia repubblicana, quello compreso tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Ottanta del secolo scorso.
Il sito comprende sei aree tematiche e ben ventidue sottocategorie con centinaia di pezzi su anni di piombo, strategia della tensione, vicende e personaggi più o meno misconosciuti di un’epoca soltanto apparentemente lontana. Per rinfrescare la memoria di chi c’era e far capire a chi era troppo giovane o non era ancora nato.
Buona lettura e non dimenticare di iscriverti sulla «newsletter» posta alla base del sito. Lasciando un tuo recapito mail avrai la possibilità di essere costantemente informato sulle novità di questo sito e i progetti editoriali di Spazio 70.

Buona Navigazione!

Inchiesta sull’omicidio di Antonio Annarumma (parte terza)

Redazione Spazio70

Un lungo approfondimento, in tre parti, sull'omicidio della guardia di pubblica sicurezza della Celere di Milano, avvenuto per mano ignota il 19 novembre 1969

di Gianmarco Calore*

Cosa ci fu in realtà quel giorno, in via Larga? Doveva essere un ordine pubblico tranquillo: si trattava di sovrintendere al regolare svolgimento di una manifestazione indetta dai sindacati presso il teatro Lirico contro il cosiddetto «caro-case», vale a dire contro l’esagerato rincaro di affitti che non permetteva soprattutto ai meno abbienti di accedere a strutture abitative dignitose.

GLI ATTI DELL’ISTRUTTORIA

Alla manifestazione parteciparono molti milanesi, come testimoniato dalle cronache della giornata. La colonna del Reparto fu dislocata in posizione defilata, a parecchie decine di metri dal luogo del comizio. Si disse che, a margine del medesimo, un mezzo della polizia nel fare manovra avesse urtato accidentalmente due passanti provocando una prima reazione sdegnata dei partecipanti. Di questo troviamo traccia nell’articolo de L’Unità di giovedì 20 novembre 1969, a pag. 4 — intitolato: «Un brutale e ingiustificato intervento della Polizia ha provocato i gravi incidenti verificatisi a Milano» — ma soprattutto lo riscontriamo nella trascrizione delle udienze del processo per i fatti di via Larga tenutosi nel successivo mese di gennaio: questo pare abbia scatenato l’ira della folla che circondò minacciosamente i mezzi della Polizia. 

La manifestazione si concluse entro l’orario stabilito, vale a dire poco prima di pranzo: i manifestanti iniziarono a defluire lungo via Larga in modo ordinato e civile; la Polizia manteneva la sua attestazione a decine di metri di distanza, nessun poliziotto fu visto scendere dai mezzi né assumere un atteggiamento provocatorio. Anzi, in molti concordarono nel descrivere i mezzi del Reparto che, al fine di garantire un deflusso più regolare, ad un certo momento addirittura retrocedettero. Poi, improvvisamente, si sarebbe scatenato l’inferno, con i gipponi ad azionare le sirene e poi partire come dei razzi per caricare la folla di manifestanti inermi e pacifici. Di lì, i disordini. Letta così, sembrerebbe una reazione assolutamente insensata.

Il vero significato di tutto ciò lo troviamo però sempre negli atti dell’istruttoria, sfrondando la cronaca di quei giorni da tutti quei rami secchi che in modo assolutamente innaturale presero vita a scapito della pianta buona. La manifestazione al Lirico fu utilizzata da un nutrito e organizzatissimo numero di appartenenti alla sinistra parlamentare marxista-leninista per creare disordini. Questi soggetti – fatti di tutt’altra pasta rispetto ai tranquilli manifestanti del Lirico – arrivarono in via Larga già travisati e armati. Molti e inascoltati testimoni asserirono che fu lo stesso servizio d’ordine dei sindacati a cercare per primo di allontanarli provocando le scaramucce iniziali a margine della manifestazione. Ma dovettero cedere. Il cordone di sicurezza sindacalista fu aperto e i giovani rivoluzionari si mescolarono alla folla: il loro obiettivo era uno solo, la Polizia.

Fu allora che il Reparto si mosse. Fu allora che iniziarono gli attacchi. Ora, a voler credere ai negazionisti, si videro «poliziotti che sembravano impazziti, bastava un grido perché lanciassero bombe lacrimogene: i conducenti delle macchine guidavano con gli occhi sbarrati, tremando… parevano colti dal panico di essere circondati» [da L’Unità del 20 novembre 1969, pag. 4]. Molto più semplicemente, le cariche partirono dopo che, all’indirizzo dell’autocolonna, furono lanciate pietre e pezzi di asfalto. Se avere paura è un delitto, allora siamo tutti colpevoli; se invece vogliamo analizzare la faccenda sotto l’aspetto tecnico operativo, che a molti piaccia o no, la Polizia ha agito secondo le disposizioni impartite.

DOPO ANNARUMMA. IL PERICOLOSO DISSENSO DENTRO LE CASERME

Il decesso di un poliziotto avvenuto in un contesto di ordine pubblico accese il fuoco della protesta sociale che si propagò nelle direzioni più disparate.

In sede politica si rilesse l’ennesima trita e ritrita contrapposizione tra il governo in carica e le opposizioni che gridarono per l’ennesima volta  «Fascisti, fascisti!». 

Gli attacchi all’operato della Polizia si moltiplicarono e crearono un humus fertilissimo in cui venne piantato proprio quel seme del negazionismo che anche oggi ammorba l’assassinio di Antonio Annarumma.

Si arrivò al punto di tacciare di falsificazione non solo gli ordini di servizio del Reparto, ma anche le stesse testimonianze rese in istruttoria e le perizie medico-legali; il referto autoptico misteriosamente scomparve, salvo essere poi ritrovato (grazie a Dio) e definitivamente messo agli atti.

I negazionisti, insomma, vollero (e vorrebbero ancora) far passare Annarumma per un povero allocco che non seppe gestire la pressione di quel giorno, per un pivello che perse la testa e – nei casi più blandi – per un ragazzino mandato allo sbaraglio alla guida di un mezzo di cui non sapeva niente. Tanto, i morti non parlano.

Poco serve fare notare che la guardia Antonio Annarumma aveva sulle spalle già quasi due anni di Polizia, che per le tensioni di quell’epoca valevano il doppio. Queste teorie assolutamente fantascientifiche è giusto smentirle nel modo più categorico impedendo a chiunque di mistificare la figura di un poliziotto che morì cercando di fare al meglio il proprio lavoro.

Ma le reazioni si propagarono anche nelle caserme della Polizia in cui non solo i giovani, ma anche i militari più anziani e addirittura qualche ufficiale iniziarono a ribellarsi ad un sistema e a un regolamento ottocentesco.

Iniziarono i primi atti di sabotaggio dei mezzi che dovevano uscire in ordine pubblico, alcune guardie si ammanettarono alle infrastrutture degli alloggi di servizio, un gippone fu scagliato contro la porta del poligono del Reparto e molti si auto consegnarono.

«Voxpopuli» dice che l’alto ufficiale ricevette per tutta risposta addirittura un paio di sganassoni. Sta di fatto che dovette intervenire il Secondo Celere di Padova, già peraltro presente a Milano come aliquota di rinforzo, e che furono sparati candelotti lacrimogeni dentro le camerate per stanare i colleghi dissidenti.

L’episodio più eclatante avvenne proprio all’indomani della morte di Annarumma: due compagnie del Terzo Celere si asserragliarono all’interno della caserma Mediterraneo rifiutandosi di uscire e sbattendo la porta in faccia addirittura al generale Arista, ispettore generale del Corpo precipitatosi sul posto per sedare la rivolta. 

Sul fenomeno delle reazioni viscerali dei poliziotti, riportiamo la testimonianza di Paolo Deotto così come espunta da Storialibera.it: «Quel 20 novembre, saranno state le otto, otto e mezzo del mattino, passavo davanti alla Caserma Sant’Ambrogio, diretto in Università Cattolica. La Caserma e l’Ateneo erano l’una di fronte all’altro. Dalla piazza Sant’Ambrogio vidi arrivare un corteo di pochi studenti, forse poco più d’un centinaio; si vedeva che erano molto giovani, quasi tutti liceali, con gli immancabili “tutor” più grandi che li guidavano. Questi disgraziati ebbero la spudoratezza di sfilare davanti alla Caserma della Polizia gridando uno slogan che ancora ricordo perfettamente: “Poliziotto sfruttato, ufficiale ben pagato“».

IL FILMATO FANTASMA

«In primis lo slogan era cretino», continua Deotto, «poiché tutto il personale militare, in genere, era mal pagato. Ma era vergognoso che il giorno dopo che un loro compagno di fede, magari uno che marciava tra di loro, aveva ammazzato un poliziotto, questi avessero il coraggio (o meglio, la mancanza totale di senso morale) per sfilare davanti a una Caserma». Avvenne tutto in pochi istanti: vidi l’ampio cortile della Caserma riempirsi di guardie che scendevano dagli alloggi; per la maggior parte erano armate, molte col mitra e chiaramente stavano agendo disordinatamente, non certo in base ad ordini. Molti dei poliziotti gridavano, volevano uscire per dare una severa lezione a quei disgraziati giovani. Si sentì gridare: “Andiamo a Festa del Perdono, facciamoli fuori”. Vidi ufficiali e sottufficiali sbracciarsi, urlare ordini, e poi i portoni d’ingresso e la porta carraia vennero chiusi velocemente. Mi portai in Chiesa, prima di entrare in Università, e quando ne uscii vidi arrivare alcuni camion di carabinieri, che parcheggiarono nelle vicinanze, mentre la Caserma restava chiusa.
Quel giorno il governo tremò. A Milano erano venuti precipitosamente Restivo, ministro dell’Interno e Rumor, Presidente del Consiglio, insieme al capo della Polizia, prefetto Angelo Vicari, e al comandante generale del Corpo delle guardie di Pubblica Sicurezza, generale Umberto Mantineo».

La risposta del Ministero fu lapidaria.

La sera stessa in un breve comunicato dichiarò: «Non vi è stato alcun episodio di sedizione ma solo manifestazioni di cordoglio per la morte di un commilitone che, pur legittime sul piano umano, hanno assunto aspetti non consoni con la vita militare».

Del momento cruciale dell’assassinio di Annarumma resta dunque solo la testimonianza dei suoi commilitoni, corroborata peraltro dalle risultanze medico-legali. Nei giorni immediatamente successivi alla morte del poliziotto si parlò tuttavia con insistenza di un filmato girato da un cineoperatore francese, nel quale si vedrebbe proprio il momento dell’attacco al gippone e della successiva sua collisione con la Campagnola. Tale filmato – che al momento attuale nessuno ha visionato – pare sia misteriosamente scomparso addirittura dagli archivi RAI ove si disse fosse stato portato per essere riversato in un formato compatibile con le cineprese italiane. Intorno a questo filmato si è detto e scritto di tutto e di più.

Nel nostro lavoro di ricerca abbiamo parlato con chi quel filmato lo andò a recuperare direttamente in Francia e lo portò al Ministero, consegnandolo nelle mani del Capo della Polizia: questo collega assicurò che il filmato era stato “tagliato” proprio nelle sequenze più drammatiche, magari quelle che avevano ripreso la morte della guardia Annarumma. Ma resta il fatto che non solo nessuno lo ha mai visto, ma anche che questo fantomatico cineoperatore è rimasto sconosciuto, mai identificato. Insomma, un altro fantasma. Anche in questo caso, i detrattori gridarono allo scandalo e alla cospirazione: vi fu addirittura chi affermò di averlo visto e che fu fatto sparire proprio perchè avrebbe confermato la teoria della fatalità, dell’incidente. Ma noi siamo storici, non politici: e soprattutto non crediamo ai fantasmi.

Ora però, a tanta chiacchiera deve seguire anche un riscontro. Tra la marea di materiale cartaceo e fotografico su quella triste giornata abbiamo trovato (grazie anche al Corriere della Sera) molte fotografie che tracciano da sole la sequenza degli avvenimenti. Ve la proponiamo alla fine di ciascuno di questi articoli sperando che servano soprattutto a restituire alla guardia di P.S. Antonio Annarumma tutto quel rispetto che in troppi gli hanno cercato di togliere.

*Gianmarco Calore è Assistente Capo presso la Polizia di Stato e amministratore del sito (e omonima pagina FacebookPolizianellastoria che, a tutt’oggi, rappresenta il più importante database videofotografico sulla storia della Polizia italiana