logo Spazio70

Benvenuto sul nuovo sito di Spazio 70

Qui potrai trovare una vasta rassegna di materiali aventi ad oggetto uno dei periodi più interessanti della recente storia repubblicana, quello compreso tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Ottanta del secolo scorso.
Il sito comprende sei aree tematiche e ben ventidue sottocategorie con centinaia di pezzi su anni di piombo, strategia della tensione, vicende e personaggi più o meno misconosciuti di un’epoca soltanto apparentemente lontana. Per rinfrescare la memoria di chi c’era e far capire a chi era troppo giovane o non era ancora nato.
Buona lettura e non dimenticare di iscriverti sulla «newsletter» posta alla base del sito. Lasciando un tuo recapito mail avrai la possibilità di essere costantemente informato sulle novità di questo sito e i progetti editoriali di Spazio 70.

Buona Navigazione!

Piazza Fontana. Entrano in scena Freda e Ventura

Redazione Spazio70

La terza parte di una serie di articoli di approfondimento sulla strage di piazza Fontana

A Roma, poche ore dopo gli attentati del 12 dicembre 1969, vengono trattenuti dalla Polizia anche altri avventori del circolo 22 marzo. L’accusa che si prefigura è quella di concorso in strage. Tra i fermati, Mario Merlino è senza dubbio quello che mostra maggior propensione alla loquacità. Alle prime domande degli agenti risponde affermando di essere uscito di casa nel tardo pomeriggio per recarsi presso l’abitazione del professor Marcello Lelli, in Piazza Esedra, con il quale aveva un appuntamento per discutere di fatti inerenti alla sua tesi di laurea. Tuttavia, non sentendosi adeguatamente preparato, alla fine avrebbe cambiato idea e sarebbe rincasato intorno alle ore 19:00. Ma è nelle dichiarazioni del 14 dicembre che il giovane «anarco-fascista» si lascia andare ad affermazioni molto più interessanti. Oltre a quello di Valpreda, Merlino fa anche i nomi di altri membri del circolo, come Roberto Mander, Emilio Borghese e Giorgio Spanò.

LE PAROLE DI MERLINO E VALPREDA

Mario Merlino ritratto in un vecchio articolo di giornale

«In merito agli attentati di Milano e di Roma», dice Merlino, «sono in grado di riferire che Emilio Borghese, Roberto Mander e Giorgio Spanò in occasione di incontri che hanno avuto separatamente con me, mi hanno parlato della esistenza di un deposito di armi e di esplosivi a Roma. Giorgiò Spanò mi disse di conoscere gli attentatori al Palazzo Madama; Roberto Mander mi chiese, il 28 novembre durante la manifestazione dei metalmeccanici, del materiale esplosivo perché era necessario agire. Emilio Borghese mi disse che sulla via Casilina aveva un deposito di esplosivo, dove era andato qualche giorno prima del 10 dicembre insieme a Valpreda e Mander. Borghese aggiunse anche di essere andato con la macchina di Valpreda e di aver prelevato o depositato un certo quantitativo di esplosivo».

A parlare di esplosivi con gli agenti sono anche altri membri del gruppo. Nel corso del suo interrogatorio, Borghese ammette di aver sentito parlare di questo deposito, collocato sulla Tiburtina o forse sulla Casilina, ma afferma di aver mentito quando disse a Merlino del trasposto, aggiungendo che a dislocare il materiale assieme al ballerino milanese sarebbe stato invece Roberto Mander.

Le dichiarazioni di Valpreda saranno invece molto diverse.

«Non ricordo di aver parlato con amici nel mio negozio di via del Boschetto», dice l’anarchico agli inquirenti, «di esplosivi o di altro materiale del genere. Comunque confesso, anzi ricordo che Ivo Della Savia, prima di partire da Roma l’ultima volta, passando sulla via Tiburtina, all’altezza della Siderurgica Romana e della Ditta Decama, e a circa duecento, trecento metri dal Silver-Cine, mi indicò, sul lato sinistro venendo da Roma, un tratto di boscaglia dicendomi: “Non molto lontano dalla strada, ai piedi di una pianta non molto alta, tengo della roba conservata.” (…) Non mi precisò di che si trattasse, comunque con la parola “roba” noi intendiamo far riferimento ad esplosivi, detonatori, micce. Ripeto, non mi precisò né la quantità né la qualità. Nell’indicarmi il deposito non fece alcun commento, per cui non posso dirvi se egli aveva usato parte del materiale o se di quello che deteneva intendeva farne uso. (…) Dopo che Ivo Della Savia mi indicò il deposito, non ho mai verificato se quanto da lui dichiarato corrispondesse o meno a verità. (…) Nego nel modo più assoluto di aver portato al deposito sopra specificato, del quale ripeto, non ho mai accertato l’esistenza, Roberto Mander ed Emilio Borghese, per prelevarvi o depositarvi materiale esplosivo. Confermo tutto quanto ed intendo precisare che al deposito, se esiste, non ho portato né le persone sopra indicate, né altre di mia conoscenza e non comparse nel presente verbale. (…) Non conosco amici e compagni di fede che detengono materiale esplosivo ed armi, sia a Roma che a Milano».

UN PROFESSORE DI FRANCESE: GUIDO LORENZON

Intanto, mentre testimoni, inquirenti e organi mediatici sono tutti concentrati tra Roma e Milano, da qualche parte in Veneto c’è un signore che avverte un peso sulla coscienza. Quest’uomo si chiama Guido Lorenzon ed è un insegnante di ventotto anni originario di Maserada sul Piave in provincia di Treviso. Il professor Lorenzon è un onesto docente di francese e non ha fatto nulla di male, tuttavia, non riesce a tenersi dentro ciò che ha sentito dire da un suo vecchio amico. Si tratta di rivelazioni gravi, molto gravi, e dopo gli avvenimenti del 12 dicembre non parlarne con nessuno potrebbe rappresentare una forma di complicità. Così la pensa il professore e infatti pochi giorni dopo la strage decide di recarsi presso uno studio legale di Vittorio Veneto.

Giovanni Ventura

Dinnanzi all’avvocato Alberto Steccanella, Lorenzon rivela l’esistenza di un’organizzazione eversiva di estrema destra alla quale sarebbe legato un giovane libraio di Castelfranco Veneto, tale Giovanni Ventura. Questo Ventura, secondo l’insegnante, si sarebbe lasciato andare ad audaci confidenze in merito all’utilizzo di armi e ordigni esplosivi da impiegare al preciso scopo di rovesciare l’ordine politico costituito e instaurare un regime autoritario. Tra le altre cose, Ventura avrebbe parlato esplicitamente anche degli attentati del 12 dicembre e delle esplosioni sui treni verificatesi nell’estate del 1969 in varie zone d’Italia. Non è tutto. Secondo le dichiarazioni del libraio esisterebbe anche un’altra organizzazione parallela, sempre d’ispirazione neofascista, facente capo al conte Loredan di Volpago del Montello. Lorenzon consegna all’avvocato dei manoscritti che costituiscono una serie di appunti sulla faccenda e vi aggiunge anche un libro dalla copertina rossa intitolato «La giustizia è come un timone: dove si gira, va», donatogli dal suo amico.

Tali informazioni Steccanella le trasmette a Pietro Calogero, sostituto procuratore della Repubblica di Treviso. Il 19 dicembre 1969, il mandato del giudice Calogero autorizza una perquisizione nell’abitazione di Ventura. In cantina gli agenti rinvengono un piccolo arsenale composto da un fucile da caccia calibro 12 a due canne con tredici cartucce, due baionette, una sciabola per ufficiale, tredici cartucce calibro 9 per arma da fuoco automatica ed una granata a pallette da 75/27 con spoletta a doppio effetto. Il padrone di casa afferma che quelle armi per lui rappresentano soltanto vecchi oggetti appartenuti al padre defunto e ne giustifica la detenzione in nome di un valore affettivo.

I «NUCLEI DI DIFESA DELLO STATO»

Calogero appura dunque che le rivelazioni di Lorenzon non sono inattendibili, tuttavia, per provare in maniera inequivocabile l’inquietante disegno criminoso denunciato dal professore, bisogna reperire altri elementi. Inoltre, al giudice non è ben chiaro il movente di una simile rivelazione, talmente ardita e imprudente da mettere a repentaglio l’esistenza stessa di questa presunta cellula eversiva. Per quale motivo Ventura avrebbe fatto al suo vecchio amico una confidenza così pericolosa? Gli anni di conoscenza, e magari anche di stima reciproca, non possono certo giustificare un modo così grossolano di mettersi allo scoperto, specie se lo si fa dinnanzi ad una persona che non condivide le idee politiche che vengono esposte. Guido Lorenzon è infatti un attivo militante democristiano. Cosa accomuna un fascista ad un uomo della DC? Sicuramente lo spiccato sentimento anticomunista. L’eclatante confessione, inoltre, ha anche un piccolo precedente, se pur di natura meno esplicita e rigorosamente anonima. Tre anni prima, un avviso era già stato recapitato, tra gli altri, anche a Guido Lorenzon. Duemila volantini furono spediti ad altrettanti ufficiali dell’esercito. Nel 1966 Lorenzon è infatti sottotenente nel reparto carristi presso Aviano. Il testo è firmato da sedicenti «Nuclei di difesa dello Stato» e riporta le seguenti parole:

Franco Freda

«Ufficiali! La pericolosa situazione della politica italiana esige il vostro intervento decisivo. Spetta alle Forze armate il compito di stroncare l’infezione prima che essa divenga mortale. Nessun rinvio è possibile: ogni attesa, ogni inerzia significa vigliaccheria. Subire la banda di volgari canaglie che pretendono di governarci, significa obbedire alla sovversione e tradire lo Stato. Militari di grande prestigio e di autentica fedeltà hanno già costituito in seno alle Forze Armate i Nuclei di difesa dello Stato. Voi dovete aderire ai NDS. O voi aderite alla lotta vittoriosa contro la sovversione, oppure anche per voi la sovversione alzerà le sue forche. E sarà, in questo caso, la meritata ricompensa per i traditori».

Un comunicato che esorta i militari ad agire contro l’avanzata comunista, il cui implicito riferimento appare scontato. Come in futuro accerteranno le perizie calligrafiche, uno degli autori di quel volantino sarebbero anche Giovanni Ventura assieme a un suo camerata padovano, un giovane editore e procuratore legale di ventotto anni di nome Franco Freda. Nell’aprile del 1971 entrambi i neofascisti vengono arrestati con l’accusa di associazione sovversiva, ma la vera svolta per le indagini sulla «pista nera» avrà luogo dopo il rinvenimento di un altro arsenale, ben più compromettente.