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Piazza Fontana, ultimo atto

Redazione Spazio70

La quattordicesima e ultima parte di una serie di articoli di approfondimento sulla strage di piazza Fontana

Nella lunghissima vicenda giudiziaria per la strage di piazza Fontana c’è anche un altro personaggio che con le sue dichiarazioni si rivela un elemento chiave nella raccolta di elementi contro «il samurai». Si chiama Carlo Digilio ed è noto nell’ambiente neofascista con lo pseudonimo di «zio Otto», nomignolo che trae origine da una cartuccia per fucili mitragliatori, la «8 mm Lebel». Digilio è infatti un grande esperto di armi da fuoco e di esplosivi. Classe 1937, figlio di un agente dell’OSS, zio Otto è un ex militante ordinovista dell’area veneta. Nei primi anni Ottanta viene tratto in arresto per detenzione illegale di munizioni. La permanenza dietro le sbarre dura pochissimo, ma il neofascista è coinvolto in indagini ben più preoccupanti e così decide di darsi alla fuga. Condannato in contumacia a dieci anni di reclusione per vicende legate alla ricostituzione del disciolto Movimento Politico Ordine Nuovo e alla detenzione di armi e detonatori, Digilio resta da latitante a Santo Domingo fino al 1992, anno del suo arresto. Consegnato all’Italia diventa collaboratore di giustizia.

CARLO «ZIO OTTO» DIGILIO CONTRO DELFO ZORZI

Personaggio controverso, afferma di avere legami con gli ambienti NATO e con i servizi segreti americani. Zio Otto è un consulente di questioni tecnico-logistiche nonché esperto in problemi militari. Il suo lavoro non avviene in prima linea, ma all’interno dell’organizzazione svolge mansioni di grande rilevanza operativa. L’accusa che Digilio muove a Zorzi è più che esplicita: la bomba alla Banca Nazionale dell’Agricoltura l’avrebbe messa proprio lui, quel camerata con la passione per le arti marziali e le dottrine esoteriche. Il giovane orientalista, secondo le dichiarazioni del pentito, prima della strage, avrebbe anche chiesto consulenza tecnica in merito al trasposto in automobile dell’ingente quantitativo di materiale esplosivo verso Milano.

Il 21 maggio 1998 la Procura di Milano chiude l’inchiesta e vengono rinviati a giudizio Delfo Zorzi, Carlo Digilio, Carlo Maria Maggi e Giancarlo Rognoni, quest’ultimo appartenente al gruppo La Fenice. Dal Giappone l’ex ordinovista nega ogni accusa ritenendosi «un mostro creato a tavolino» alla pari di Valpreda e Freda. Secondo Zorzi le accuse provenienti dai collaboratori di giustizia sarebbero tutte false e calunniose, frutto di una cospirazione da parte dei servizi segreti. Ai microfoni del Tg2 il cittadino giapponese Hagen-Roi afferma: «Martino Siciliano riceve una comunicazione giudiziaria per Piazza Fontana, fatta apposta per spaventarlo. Per questo perde il lavoro e si riduce alla fame. I servizi segreti gli danno sotto banco più di 100 milioni. In cambio, riferisce mie presunte confidenze rese davanti a presone che però lo smentiscono». In quanto a Digilio invece afferma: «Mi accusa perché è convinto che sia stato io a spargere la voce che il vero autore della strage fosse lui».

L’ULTIMO OLTRAGGIO

L’ottavo processo ha inizio nel febbraio del 2000. Molti dei parenti delle vittime sono ormai persone anziane, stanche, segnate da anni e anni di lunghe udienze e continue disillusioni. Tuttavia, la brama di giustizia li spinge ancora una volta a chiedere la verità. «Sono passati trent’anni, la gente dimentica ma io no, non ho dimenticato: mio padre ucciso, la corsa in ospedale, mia madre che sviene con un infarto, io che piango. Adesso ho 80 anni ma finché muoio andrò a seguire tutti i processi fino a quando qualcuno non mi dirà chi ha messo quella bomba». Con queste parole Clementina Gherli, figlia del signor Paolo, si rivolge ai microfoni dei giornalisti. «Il colpo più brutto è stato quando hanno assolto i “neri” Freda, Ventura e Giannettini…» dice Eugenia Garavaglia, figlia sessantottenne del signor Carlo «…Perché vede, la verità storica ormai è già venuta fuori e non si scappa. Son stati i fascisti e i servizi segreti deviati. È quella processuale che ancora non è uscita, speriamo sia la volta buona anche se non mi faccio troppe illusioni».

Ma le illusioni, ancora una volta, sono lì ad attendere dietro l’angolo. Il 30 giugno 2001 la Corte d’Assise di Milano condanna all’ergastolo per strage Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi e Giancarlo Rognoni. Applausi scroscianti in aula, abbracci tra i familiari delle vittime. I condannati dovranno anche farsi carico delle spese processuali. Nelle motivazioni della sentenza esposte nel gennaio del 2002 si parla di un disegno criminale volto a destabilizzare il Paese per attentare alla democraticità dello Stato a favore di forze golpiste. Secondo la Corte, le testimonianze sarebbero attendibili. Non è dello stesso avviso la difesa di Zorzi. «È sconcertante…» dice l’avvocato Pecorella «…che l’unico imputato sui cui c’erano elementi d’accusa certi per la preparazione della bomba, Carlo Digilio, se la sia cavata, accusando degli innocenti. Ma i processi politici sono segnati fin dall’inizio e Milano si aspettava questa sentenza; lo dimostra l’applauso». Digilio, infatti, se l’è cavata con la prescrizione e con le attenuanti dovute alla disponibilità nel collaborare con la corte. Dalla sentenza ne esce sostanzialmente illeso. La difesa dei condannati non ci sta e ricorre in appello.

Milano, 12 marzo 2004. Un colpo al cuore delle parti civili. La Corte d’Assise d’appello di Milano assolve tutti gli imputati. Insufficienza di prove per Zorzi e Maggi. Il fatto non costituisce reato per Rognoni. Dopo trentacinque anni di processi la strage è di nuovo senza colpevoli, ma questa volta in maniera definitiva. L’oltraggio più spregevole giunge il 3 maggio 2005. Oltre alla conferma delle assoluzioni viene reso noto un dettaglio raccapricciante. Le spese processuali sono a carico dei parenti delle vittime. Una decisione inammissibile. La triste storia di Piazza Fontana sembra proprio concludersi così, nel peggiore dei modi possibili, dopo trentacinque anni di rabbia, di attesa, di viaggi interminabili e udienze fallimentari. Dopo trentacinque anni di depistaggi, di strascichi giudiziari, di amare verità inconfessate. Trentacinque anni di una storia nata nel sangue e morta nella rassegnazione. La memoria non può far altro che scorrere fino a quel nebuloso 15 dicembre del 1969. Il pensiero non può che tornare a quelle parole di speranza, alla sincera volontà di giustizia di un’Italia violata e raccolta, un’Italia che ha perso la propria innocenza in un freddo pomeriggio d’inverno. La mente dei familiari delle vittime si rilega con amarezza ai solenni discorsi di quel giorno di lutto e ai milioni di cittadini che avevano creduto a solenni promesse di assoluta giustizia. Una giustizia che ora afferma di compiere una funzione morale, astratta, quasi simbolica.

«Il giudizio circa la responsabilità di Freda e Ventura in ordine alla strage di Piazza Fontana non può che essere uno: la risposta è positiva».

Come in un cinico gioco beffardo, le motivazioni della sentenza affermano che gli indizi a carico degli imputati non rappresentano delle prove sufficienti. I testimoni sono adesso considerati inattendibili. Tuttavia, viene riconosciuto ciò che prima era stato negato: la responsabilità di ex imputati ormai già assolti e quindi non più condannabili: Franco Freda e Giovanni Ventura. La verità storica resta quella di un attentato di matrice neofascista eseguito da ordinovisti veneti. La verità giudiziaria è invece soltanto una.

Per queste diciassette persone non pagherà nessuno: Giovanni Arnoldi, Giulio China, Eugenio Corsini, Pietro Dendena, Carlo Gaiani, Calogero Galatioto, Carlo Garavaglia, Paolo Gerli, Luigi Meloni, Vittorio Mocchi, Gerolamo Papetti, Mario Pasi, Carlo Perego, Oreste Sangalli, Angelo Scaglia, Carlo Silva, Attilio Valè.