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Gli esordi di Gianni Agnelli in Fiat. Breve storia politica dell’Alfasud

Redazione Spazio70

L’Alfasud avrà, tutto sommato, dei buoni riscontri di vendite: saranno infatti venduti oltre 640 mila esemplari della prima serie (1972-80)

La sfida della Alfasud contro la FIAT presa in mano da Gianni Agnelli solo nell’ultima parte degli anni Sessanta rappresenta una delle pagine di maggiore importanza nella storia dell’industria automobilistica italiana. La scommessa? Rendere finalmente competitivo e industrializzato il Sud. Agnelli era stato accolto bene dall’establishment FIAT per il nome che portava e le doti personali: comandava senza fatica e anzi otteneva quello che voleva senza bisogno di comandare. Fu però ben presto informato che l’Alfa Romeo, ormai da anni industria di Stato, piccola rispetto alla FIAT, avrebbe creato un grande stabilimento presso Napoli producendo automobili a prezzo contenuto, di quelle definite utilitarie, o comunque medio-piccole, adatte a invadere il mercato che proprio la FIAT aveva sempre considerato il suo. L’Alfa Romeo avrebbe quindi invaso quel mercato sfoggiando sul radiatore un simbolo famoso reso celebre da tante corse e da tante vittorie: uno stemma che molti automobilisti italiani sognavano senza mai raggiungerlo per questioni di prezzo.

Alla notizia, sentimenti diversi agitarono la dirigenza torinese. Vi erano preoccupazioni commerciali, in una fascia di mercato di fondamentale importanza per la FIAT: preoccupazioni gravi, ma pur sempre temperate dallo spirito di corpo prevalente in FIAT, dall’orgoglio aziendale, dalla certezza che comunque a Torino si era più bravi nella produzione di quel tipo di vetture. C’era la certezza che non sarebbe stato difficile battere una industria di Stato, uno stabilimento napoletano per giunta.

La FIAT si era creata negli anni la fama di potentato imbattibile: si diceva che la sua volontà fosse legge, che Torino comandasse e Roma obbedisse e si affermava che essa dettava le proprie condizioni ai compratori, ai concessionari, ai fornitori e pure ai ministri. Per questa sua potenza non era amata, ma temuta. Adesso l’annuncio di Alfasud era un affronto, uno schiaffo all’orgoglio aziendale, una dimostrazione che si potevano ignorare i desideri della vecchia signora.

Come difendersi? Che cosa avrebbe fatto Gianni Agnelli, il giovane ed elegante signore, per vendicare l’offesa? Non era per caso, con tutta la sua annoiata signorilità, privo di grinta? E se ci fosse stato Vittorio Valletta? Molti lo pensavano anche se pochi avevano il coraggio di dirlo: se ci fosse stato ancora Valletta, non sarebbe successo.

«NOI DI AUTOMOBILI CE NE INTENDIAMO»

Agnelli si rendeva conto di tutte queste apprensioni, di questi sentimenti e sospetti, e decise di fare quello che meno gli garbava: impegnarsi nella lotta. Gli sarebbe piaciuto con ogni probabilità alzare le spalle all’annuncio che si sarebbe fatta l’Alfasud, pronunciare uno dei tanti giudizi taglienti, sarcastici o irrisori che gli venivano spontanei alle labbra, e partire per un campo di neve per non pensare più alla faccenda. Accettò invece la sfida: decise di impegnarsi perché non si facesse l’Alfasud, ben sapendo che se avesse perso non avrebbe più potuto ostentare superiorità e indifferenza, dando a tutta l’Italia la conferma che la FIAT potesse essere sfidata e, peggio, sconfitta. 

Vi fu a Torino un periodo di affannose riunioni, che cominciavano la mattina e si protraevano fino a notte avanzata per preparare conteggi e proiezioni sul prevedibile sviluppo del mercato automobilistico in Italia e nel mondo, per mettere insieme una documentazione capace di convincere gli organismi governativi dell’inopportunità di produrre un maggior numero di auto: «Sentite», questo era il tenore del discorso, «noi di automobili ce ne intendiamo, ci passiamo la vita; credete a noi, non se ne potranno vendere sempre di più all’infinito; questo mercato ha un limite, non vi conviene varcarlo». Un discorso che sembrava dettato da un complesso di superiorità. Si studiarono anche proposte di collaborazione da presentare all’Alfa Romeo, quella stessa società verso la quale si ostentava, fino a un istante prima, altezzosa indifferenza, perché così piccola di dimensioni, così antieconomica, così statale.

Neppure all’Alfa Romeo la battaglia dell’Alfasud era vissuta come una vicenda puramente industriale. Era anche una sfida passionale, che coinvolgeva l’orgoglio, l’amor proprio, la suscettibilità dell’establishment di un’altra casa famosa, quella appunto dell’Alfa.

Vi lavoravano, come in tante altre industrie dello Stato, persone di prim’ordine, tecnici provetti, dirigenti che amavano il proprio lavoro, uomini impegnati nella loro battaglia, che consisteva nel ridare vita a un’industria di antiche tradizioni e di gloria mondiale. Giuseppe Luraghi, il presidente, aveva preso in mano l’Alfa dopo un periodo alla Finmeccanica e vi si era dedicato anima e corpo, trovando la sua ragione di vita: non per sete di guadagno, non per ambizioni di carriera, ma per un bellissimo gioco fine a sé stesso, quello di guidare un gruppo di uomini che avrebbero ideato nuovi modelli, conquistato mercati, e ricondotto la società al profitto cioè al successo.

ALFA E FIAT. LE RECIPROCHE ACCUSE

Luraghi aveva fatto due «en plein», prima con la Giulietta, poi con la Giulia: due modelli che avevano avuto successo, che avevano invaso le strade italiane (e non solo) e che lui amava quasi fisicamente. Bastava sentire i suoi commenti quando viaggiava su una di esse: «Senti come sono dolci, senti come sono morbide», diceva, e la voce di vecchio ingegnere lombardo prendeva una tonalità più sottile e più tenera. Era proprio convinto che si trattasse di grandi macchine: c’era un modello che gli piaceva in modo particolare, si chiamava Duetto, e già il nome sembrava una dichiarazione d’amore.

Ma esisteva la FIAT, tanto più grande, tanto più forte, e alteramente ignara dell’esistenza dell’Alfa, come dimostrava il fatto che produceva vetture di tutte le dimensioni, piccole e utilitarie, e sta bene, erano la sua specialità, ma anche medie e grandi, di rappresentanza, insomma tali da occupare quella fascia di mercato che l’AlfaRomeo avrebbe voluto per sé.

Ogni tentativo di accordo, diceva Luraghi, era fallito: pareva che non fosse neanche preso in considerazione. All’Alfa Romeo erano animosi verso la FIAT, a cominciare da Luraghi. 

Dicevano alla FIAT«Accordi? Non sapete che cosa è la concorrenza. Noi dobbiamo reggere alla concorrenza degli altri grandi del mercato internazionale, siamo grandi anche noi, non possiamo legarci le mani perché voi siete piccoli». Concorrenza? Benissimo, si rispose all’Alfa Romeo: entriamo nel gioco della concorrenza anche noi, allora. Facciamo Alfasud per insidiarvi nella vostra stessa fascia di mercato. Lo facciamo coi fondi di dotazione? Cioè col denaro dello Stato? E’ vero, ma dove dobbiamo prenderlo? Dobbiamo forse rassegnarci a morire per fare un favore ad Agnelli? La FIAT accusava l’Alfa di non rispettare le regole del gioco perché era industria di Stato e giocava con le carte truccate: quando perdeva denaro non falliva, perché si faceva aiutare dallo Stato. Ma all’Alfa si rispondeva: forse che anche la FIAT non ha truccato le carte, non ha avuto aiuti dallo Stato, sotto forma di accordi e commesse?

Il dibattito poteva continuare all’infinito: intanto avanzavano i preparativi di Alfasud, ormai le offerte della FIAT per accordi di collaborazione venivano troppo tardi, le decisioni erano state prese. Alla fine Alfasud si fece.

ALDO MORO POSA LA PRIMA PIETRA DEL NUOVO STABILIMENTO

Il progetto di produrre auto di dimensioni medio-piccole nel Meridione risaliva agli anni Cinquanta, ma fu di fatto reso operativo soltanto agli inizi dei Settanta. Uno dei motivi che spinse Luraghi a realizzare l’Alfasud fu quello di limitare la disoccupazione nel Mezzogiorno d’Italia e quindi il massiccio esodo di migranti verso il Nord.

La realizzazione dello stabilimento fu ultimata in tempi relativamente rapidi: a partire dal 1967 fu progettata sia la fabbrica che il nuovo modello di auto, cioè l’Alfasud, tutto sotto la direzione dell’ingegner Rudolf Hruska: la Alfasud spa fu resa formalmente autonoma dalla «Alfanord» di Arese. L’approvazione definitiva del progetto del nuovo stabilimento avvenne nel gennaio 1968, prevedendo l’inizio della produzione nel gennaio 1972. La posa della prima pietra del nuovo stabilimento avvenne il 28 aprile 1968, alla presenza del presidente del consiglio Aldo Moro. Nonostante le agitazioni sindacali, la produzione slittò di soli tre mesi, iniziando nell’aprile 1972.

L’Alfasud fu la prima Alfaromeo a trazione anteriore e venne presentata al Salone dell’automobile di Torino del 1971: si trattava di un’auto «compatta» a due volume con coda «fastback». Il portellone venne aggiunto soltanto nell’ultima parte di produzione a partire dai primi anni Ottanta. L’Alfasud ebbe, tutto sommato, dei buoni riscontri di vendite: furono infatti venduti oltre 640 mila esemplari della prima serie (1972-80).

Rudolf Hruska«Il prodotto Alfasud doveva essere “aggiuntivo” alla gamma AlfaRomeo.
Era necessario predisporre un “cahier de charge”, cosa che ho fatto in un piccolo ufficio vicino all’Alfa. Si stava in posti riservati perché erano già in giro dei giornalisti. Si doveva progettare e mettere in serie una nuova vettura e anche costruire ex-novo la fabbrica che l’avrebbe prodotta. Era necessario eseguire un pre-studio che doveva contemplare gli investimenti globali il costo della vettura, il sistema organizzativo, il personale necessario, le tempificazioni.
Il dott. Luraghi non poteva fornire il personale poiché le risorse Alfa erano impegnate per lo stabilimento di Arese, che era allora in fase di completamento».

 

«L’ALFASUD? UNA UTILITARIA DI LUSSO»

«Una prima risposta al problema», continua Hruska, «venne da ex-personale Simca che in quel periodo era stata venduta dalla Fiat alla Chrysler: si trattava di 28 persone, quasi tutte italiane, molto esperte in personale, organizzazione, tecnologie, impiantistica e amministrazione. Fu così che si iniziò lo studio della parte meccanica della vettura. A metà gennaio 1968 è stata fatta la prima presentazione al management Finmeccanica. Furono predisposti un modello in gesso della vettura (a 4 porte), un modello di abitabilità, un espanso della giardinetta e tutta la documentazione necessaria nella quale si indicava in 300 miliardi di lire l’investimento totale, 60 dei quali erano previsti per il prodotto (progetto, prototipi, messa a punto ecc.).

Il piano prevedeva l’inizio della produzione al primo gennaio 1972. Erano quindi disponibili 4 anni per creare il prodotto e la fabbrica. In quindici giorni ricevemmo l’OK e si iniziò a lavorare attivamente. Desidero ora alla fine dire che andammo in produzione con tre mesi di ritardo perché avemmo quasi un milione di ore di scioperi in cantiere. Malgrado la diffusa opinione che la fabbrica e la macchina non sarebbero nate in quei tempi (molti erano convinti che non sarebbero mai nate!) e le difficoltà nei cantieri, si ritardò di soli tre mesi, mentre i consuntivi indicavano la rimanenza di 25 miliardi di lire rispetto al budget previsto. Debbo ricordare che gli anni ‘70 furono segnati da scioperi in tutta Italia. Moltissime furono le fermate allo stabilimento, si lavorava a singhiozzo con conseguenze sulla qualità, non ultima la ruggine. Ricordo anche, di sfuggita, che in quegli anni fui accusato di spionaggio industriale.

Adesso parliamo del prodotto. La vettura doveva essere un’utilitaria di lusso, una vettura a 5 posti con bagagliaio molto capiente. Si doveva trattare, naturalmente, di un’Alfa Romeo. Scontato che la vettura era a trazione anteriore, si voleva il motore in asse vettura per poter realizzare facilmente la versione a 4 ruote motrici (eravamo nel 1967!). Fu scartato il 4 cilindri in linea perché troppo lungo: il 4 cilindri a V ed il contrapposto erano abbastanza corti, e l’ultimo fu il preferito perché più basso e molto bilanciato. Fu così possibile realizzare una berlina piuttosto bassa con una buona visibilità anteriore».

 

«NON AVEVAMO ROBOT, MA TUTTI GLI OBIETTIVI SONO STATI RAGGIUNTI»

Rudolf Hruska/2«Un discorso particolare va fatto per le dimensioni del bagagliaio: a quell’epoca possedevo una valigia di grandi dimensioni che mi consentiva di stare in giro otto-dieci giorni. Sistemate due valigie nel simulacro dissi a Giugiaro di piazzarne altre due. Così è nata la parte terminale della vettura. Faccio notare che le quattro valigie non ci stanno su vetture moderne come la Thema e la 164 [Hruska rilascia queste dichiarazioni nel 1991, ndr]. La vettura doveva pesare a secco 800 kg. Abbiamo superato di circa 30 kg questo valore, in buona parte per causa di pneumatici e cerchi. La vettura era destinata a crescere di cilindrata e prestazioni e si decise di adottare, sin dall’inizio, pneumatici e cerchi adeguati, che pesavano circa 15 kg in più di quelli della 128 Fiat. Parliamo ora dello stabilimento: è interessante ricordare che non adoperammo cemento, ma strutture metalliche. I vantaggi stavano nel facile intervento se si desiderava cambiare e nella possibilità di prefabbricare le dette strutture. Ricordo che costruimmo i Reparti con altezza di due metri e mezzo superiore agli altri stabilimenti dell’epoca. Per quanto riguarda l’impianto idraulico esso assicurava il riscaldamento d’inverno ed un certo raffrescamento d’estate. Prima di scaricare definitivamente l’acqua utilizzata in stabilimento si effettuavano più ricicli e questo riduceva notevolmente i consumi. Tutto questo e altro è stato possibile anche per le conoscenze di quei 28 collaboratori venuti dalla Simca, che avevano una esperienza di trenta-quaranta anni in industrie similari. Avevamo definito in 50 ore il tempo di fabbricazione della vettura. Si puntava, dopo un adeguato periodo di addestramento delle persone del primo turno, ad arrivare a 45 ore per la cosiddetta vettura base o standard. Il costo corrispondente, o costo standard, è la base di partenza per tutti gli altri costi che vengono ottenuti aggiungendo i costi delle varianti delle vetture derivate, gli opzionali, ecc. Con mio dispiacere, per molto tempo tutto ciò non è stato apprezzato e solo oggi è stato espresso apprezzamento per questa fabbrica che è tuttora moderna. Non avevamo i robot, non li aveva nessuno, ma tutti i programmi sono stati raggiunti, siamo andati in produzione dopo 4 anni e costruimmo al tempo programmato le cento vetture di pre-serie. Gli italiani sono rapidissimi nell’apprendere ma bisogna seguirli fino in fondo; con i tedeschi si discute molto tempo prima di partire, poi, però, si può andare in vacanza. Questa è la differenza. Debbo citare, prima di finire, un episodio a causa di certi articoli apparsi sul giornale II Borghese. Non sopportando questa situazione andai a trovare il direttore della rivista, il senatore Tedeschi. Avemmo un colloquio di due ore e mezzo al termine del quale egli decise di non scrivere più contro l’Alfasud: impegno che mantenne. In seguito, disse a un comune amico di aver discusso con uno degli ultimi Asburgo. Sulla situazione Alfa di oggi ci sarebbe da discutere molto, ma voglio solo riferire quanto ha recentemente dichiarato il Direttore Generale dell’Audi, un nipote del Prof. Porsche. In un’intervista a un giornalista, ha definito l’Audi l’azienda nobile della Volkswagen e ha ammesso che, mentre dal punto di vista della qualità Audi e VW sono eguali, prestazioni e prodotto debbono essere differenti. Se non fosse così l’Audi sarebbe destinata a chiudere. A Torino non si è capito che per l’Alfa è la stessa cosa, ma la Ford, pare, l’aveva ben compreso».

GiuseppeLuraghi«L’Alfasud doveva essere realizzata perché l’Alfa Romeo era arrivata a
una produzione ad Arese che, per gli ulteriori sviluppi richiesti dal mercato, richiedeva altri ingrandimenti con altra immigrazione di popolazione del Sud, che a Milano non poteva trovare i mezzi necessari per una vita civile. D’altra parte, noi avevamo una tradizionale attività a Napoli e un grande stabilimento, distrutto dalla guerra che aveva fatto motori d’aviazione. In tali stabilimenti parzialmente ricostruiti avevamo ripreso una produzione di autocarri e motori, che poteva costituire un nucleo di base anche per la preparazione dei tecnici e del personale da destinare a nuove iniziative. Per fortuna, la Fiat si è accorta molto tardi che quello dell’Alfasud era veramente un progetto serio, che noi dell’Alfa volevamo tutti realizzare. Dico per fortuna, perché dal momento in cui alla Fiat hanno cominciato a vedere che effettivamente le cose si facevano, l’atteggiamento cambiò violentemente; in proposito, è significativo l’atteggiamento del signor Gianni Agnelli il quale, ad una Commissione Parlamentare del 1969, (per fortuna Aldo Moro aveva già posato la prima pietra nel 1968, in una cerimonia ufficiale), presieduta da Giolitti, ha dichiarato cose, a mio avviso, non corrispondenti al vero.

«IL POPOLO ITALIANO PAGA E STA ZITTO»

«La prima affermazione», continua Luraghi, «era che, in quel momento, la produzione e la strumentazione italiana per fare automobili era largamente sufficiente per i successivi dieci anni. In quel momento, circolavano otto milioni di automobili, dieci anni dopo ne circolavano 16 milioni e poi 23 milioni nel giro di vent’anni, con un vertiginoso aumento di importazioni. La seconda era che non si poteva sviluppare l’industria automobilistica nel Sud per ragioni tecniche ed economiche.

Ebbene, esattamente tre mesi dopo che Agnelli aveva fatto queste dichiarazioni, l’ingegner Bono, vice-presidente Fiat, andò a dichiarare all’allora ministro della programmazione che la Fiat avrebbe costruito due stabilimenti proprio nel Sud. E adesso voi sapete che la Fiat dichiara che i suoi sviluppi sono tutti previsti nel mezzogiorno (naturalmente con l’aiuto dello Stato). Da quel momento, noi abbiamo avuto una quantità di difficoltà di carattere sindacale e politico, però siamo andati avanti, perché sapevamo che il nostro programma era onesto e adeguato alle nostre necessità ed a quelle del Paese.

Prima della opposizione della Fiat, avevamo ottenuto il permesso del CIPE, del Ministero delle Partecipazioni, dell’IRI per fare questa fabbrica, però a Napoli non riuscivamo ad ottenere il permesso di realizzare il nuovo impianto nel nostro stesso terreno già predisposto. Ne dicevano di tutti i colori. Chi violentemente si opponeva diceva, per esempio, che non c’era la possibilità di realizzare i trasporti necessari: ciò mentre, figuratevi, da molti anni esisteva un raccordo ferroviario con la fabbrica, che funzionava; l’autostrada passava a circa due o tre chilometri; l’aeroporto era a un quarto d’ora di tempo. 

Moro aveva mostrato interesse per l’iniziativa: allora, sono andato dal presidente per sbloccare la situazione e gli ho raccontato cosa stava avvenendo. Moro mi disse che se ne sarebbe occupato. Qualche giorno dopo mi invitò ad andare con lui a Pomigliano perché doveva inaugurare un treno veloce sulla linea Roma-Napoli; io non potevo andarci e lo feci ricevere dal Direttore di allora della nostra fabbrica locale, che era al corrente di tutto. Moro andò a vedere il terreno, accompagnato dal prefetto (un uomo che io ricorderò sempre perché dimostrò di essere veramente coraggioso). Dopo aver visto il terreno, Moro domandò al prefetto: “Ma allora perché non viene dato questo permesso?” E la risposta fu: perché ci sono dei politici locali, i quali hanno ottenuto un’opzione su altri terreni, che intendono vendere all’Alfa Romeo con relativo beneficio. 

Moro ha dimostrato di essere molto diverso da quello che io in quel momento credevo; dopo pochi giorni arrivò il permesso per costruire la fabbrica e alla posa della prima pietra, fatta dallo stesso Moro, erano gioiosamente presenti anche tutti coloro che l’avevano ostacolata. Sapete che io sono stato cacciato dall’Alfa Romeo perché mentre stavamo rodando, fra molte difficoltà anche sindacali (comprese minacce camorristiche) l’Alfasud, ad un certo momento arrivò un tassativo ordine dell’onorevole
Gullotti, allora Ministro delle Partecipazioni Statali, e dall’obbedientissimo presidente dell’IRI, prof. Petrilli, che fece una proposta inaccettabile: voi dovete fare un’altra fabbrica automobilistica ad Avellino. A chiaro vantaggio di De Mita.

La fabbrica ad Avellino era assolutamente impossibile da fare perché richiedeva una spesa di molte centinaia di miliardi, che sarebbero stati buttati via. Avrebbe anche danneggiato l’inizio dell’attività dell’Alfasud, e tutto ciò per favorire la base elettoralistica di un politico. Tutti noi dell’Alfa Romeo ci opponemmo, io in testa, come massimo responsabile. La fabbrica, allora, non si fece, però, dopo alcuni anni, hanno fatto quella inspiegabile combinazione Alfa-Nissan che, naturalmente, ebbe vita breve. Il popolo italiano paga e sta zitto. Questo tipo di abusi, secondo me, sono anche peggiori delle vergognose bustarelle, perché rovinano strutture delicate»