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Mistero della fede. L’attentato al Papa e le sue ombre. La messa a S. Tommaso D’Aquino e il silenzio «bulgaro» del Vaticano

Tommaso Nelli

«Guardando con attenzione le foto scattate nell’occasione della cerimonia, notai una somiglianza di una persona ripresa sul luogo con le foto dell’attentatore al Pontefice. Tale somiglianza non fu notata solo da me, ma anche da mia moglie»

Quarant’anni di silenzi. Tanti ne sono trascorsi dall’attentato al Papa e tale è rimasto l’atteggiamento della Santa Sede verso l’episodio più drammatico della sua storia. Anche a maggio, nei giorni della commemorazione del ferimento di Giovanni Paolo II, da piazza San Pietro è giunto un ermetico riserbo che, se da un lato stride con la verità invocata da quel suo testo di riferimento che è il Vangelo, dall’altro è però di sconcertante coerenza con la linea adottata dalle sacre stanze fin dall’indomani degli spari di Mehmet Alì Ağca: il silenzio.

Una certezza che però non scioglie gli interrogativi irrisolti di quel 13 maggio 1981, ma semmai li aumenta. Soprattutto per un episodio che chiama in causa l’attentatore, la sua potenziale vittima e il microcosmo ecclesiastico all’ombra del Cupolone: la messa celebrata da Karol Wojtyla alla chiesa di San Tommaso D’Aquino il 10 maggio 1981. Per capire meglio di che si tratta, ritorniamo a quei giorni. Mentre il Santo Padre è ricoverato all’ospedale Gemelli di Roma e sta lentamente recuperando la piena efficienza psicofisica, la foto del suo attentatore imperversa a ogni latitudine mediatica e richiama l’attenzione di molti. Fra questi c’è anche Don Pietro Todini, parroco di San Tommaso, che ha un sussulto. Quel viso si nota anche in un’istantanea scattata la domenica precedente tra i fedeli presenti alla funzione. La conferma agli inquirenti arriva anche da uno dei due fotografi della parrocchia presenti quel giorno, Daniele Petrocelli: «Guardando con attenzione le foto scattate nell’occasione della cerimonia, notai una somiglianza di una persona ripresa sul luogo della cerimonia con le foto dell’attentatore al Pontefice. Tale somiglianza non fu notata solo da me, ma anche da mia moglie». La donna condivide le parole del marito e aggiunge come quel soggetto fosse per i parrocchiani un perfetto sconosciuto: «Ciò che più ci colpì nel vedere questa persona […] il fatto che nessuno lo conoscesse e che sicuramente non faceva parte né di quel quartiere né della parrocchia».

«I AM ONLY»

Si pensa dunque che il turco si fosse intrufolato tra la folla per studiare da vicino il suo futuro bersaglio. Un ragionamento del tutto pertinente con la logica criminale. Ma altrettanto incomprensibile con il contesto nel quale è maturato l’attentato, soprattutto se ci atteniamo alle parole del suo esecutore. Già perché Ağca, quando viene arrestato, proclama subito l’autonomia della sua azione: «I am only». Per cui, se era senza complici, come faceva a sapere che quel giorno Giovanni Paolo II sarebbe andato in quella parrocchia? E come la raggiunse se, come ha sempre affermato, non conosceva Roma? La parrocchia di San Tommaso D’Aquino si trova nel quartiere di Tor Tre Teste, Roma Est, nel 1981 ancora più periferia di oggi, a ben quindici chilometri dal centro e da piazza S. Pietro. Quindi: o uno ci va con un mezzo proprio – ma Ağca ne era sprovvisto – oppure ci viene accompagnato. Certo, potrebbe anche prendere un taxi ma, al di là che lui non spiccicava una parola d’italiano (difficoltà comunque raggirabile mostrando al tassista un biglietto con scritta la meta), una volta familiarizzato il suo volto dalla tv e dai giornali nessun tassista si fece avanti per ricordare l’episodio. E uno straniero che pochi giorni prima di sparare al Papa chiede di essere portato a una parrocchia di periferia, non passa certo inosservato. Soprattutto per una categoria, i tassisti romani, che non difetta in discrezione.

Come si può notare, regnano troppe contraddizioni e troppe oscurità. Rese ancora più fitte dalla reticenza e dall’immobilismo della Santa Sede nei confronti dell’indagine del giudice istruttore Rosario Priore che ha avuto il merito di voler chiarire l’episodio di San Tommaso D’Aquino anche per dirimere l’eventualità che l’uomo della fotografia non fosse Ağca. Un dubbio più che altro astratto, come si può evincere dalla sua sentenza di archiviazione del 21 marzo 1998 – «La somiglianza tra il personaggio effigiato nella fotografia e Ağca, l’Ağca di quel periodo, come appare nella foto segnaletica scattata subito dopo il suo arresto e cioè tre giorni dopo, è impressionante. […] Se costui non è Ağca, ne è di certo un perfetto sosia» – dalla quale si apprendono però altre preoccupanti anomalie.

UN PERFETTO SCONOSCIUTO A DUE PASSI DAL SANTO PADRE

La prima è che quella persona si trovava sì in uno dei cinque settori destinati al pubblico, ma riservata. Perché era la zona dei comunicandi, cioè coloro che potevano ricevere la comunione dalle mani di Sua Santità e che erano antistanti all’altare. Per accedervi, come per le zona dei parrocchiani e degli ospiti, occorreva l’invito. A rilasciarli, la parrocchia e la Prefettura della Casa Pontificia, l’organo della Santa Sede che tra i suoi compiti annovera anche l’organizzazione delle cerimonie del Santo Padre, il cui reggente all’epoca era monsignor Dino Monduzzi. «Quelli (gli inviti, ndg) emessi dalla Parrocchia erano stati distribuiti esclusivamente a gruppi o singoli parrocchiani. Quelli emessi dalla Prefettura pontificia erano stati circa una ventina nel settore riservato ai comunicandi», stabilisce l’indagine di Priore attraverso sempre il contributo di Don Pietro e di altri parrocchiani. Il reverendo inoltre precisa come fra questi ultimi vi fossero degli stranieri e soprattutto che «Mons. Monduzzi non trasmise l’elenco nominativo degli invitati».

«Perché?», ci si chiede ancora a distanza di così tanto tempo. Questa è la seconda anomalia. Quel documento avrebbe permesso di sciogliere un arcano che il 16 giugno 1995 spinge Priore a inoltrare in Vaticano una rogatoria per acquisire, fra le altre, «copia della documentazione della Prefettura pontificia sulla visita del Sommo Pontefice alla parrocchia di San Tommaso d’Aquino il 10 maggio ’81, e in particolare della lista degli invitati dalla stessa Prefettura della cerimonia». Da Oltretevere stavolta accolgono la richiesta, che stabilisce come non vi fosse «alcun elemento relativo al rilascio dei biglietti per ricevere la Comunione dalle mani del Santo Padre». E lo stesso monsignor Monduzzi dichiara che per quella visita «non risultava la concessione di qualsivoglia biglietto a titolo individuale». Ma com’è possibile, se proprio Don Todini aveva affermato il contrario? E allora quell’uomo come aveva fatto ad arrivare in uno spazio così esclusivo nonostante fosse un perfetto estraneo e i controlli – sempre per voce di Don Todini – particolarmente rigorosi? Mistero della fede. E non è certo l’unico di questa storia, sulla quale si registra un’altra anomalia, la terza.

LE CONCLUSIONI, PESANTI COME MACIGNI, DI PRIORE

Nelle ore successive all’attentato del 13 maggio un uomo, qualificato come appartenente alla Digos, si presenta a casa dei Petrocelli, chiede in consegna le foto in cui appariva la persona somigliante all’attentatore senza però redigere un verbale. La signora Petrocelli racconta che alcuni mesi dopo la Digos le riconsegnò una delle due immagini specificando che quella persona era stata «identificata per un uomo della Sorveglianza della Santa sede». Si è mai saputo il suo nome? E com’è che la Polizia sapeva dell’esistenza di quelle immagini? Visto che alla cerimonia di Tor Tre Teste erano presenti anche il fotografo personale del Papa, Arturo Mari, e alcuni suoi colleghi de L’Osservatore Romano, quel volto era presente anche in alcuni loro scatti? Molto probabile. Ma se fosse stato un uomo della vigilanza, che bisogno c’era di precipitarsi dai Petrocelli, acquisire quelle immagini, dire di «non parlarne con nessuno» e poi restituirne una sola?

A Priore non rimangono così che i ricordi dei dipendenti della Prefettura, incaricati alla distribuzione degli inviti, fra i quali c’è anche Ercole Orlandi, padre di Emanuela, la cittadina vaticana scomparsa a Roma il 22 giugno 1983. «Gli inviti per le cerimonie e le udienze pubbliche sono consegnati il giorno prima a mani dall’Ufficio centrale di Vigilanza, già Gendarmeria Pontificia, nell’ambito di Roma. […] A questo lavoro sovrintende il mio ufficio. Io e il mio collega provvediamo personalmente a distribuire le lettere ai vari vigili. […] Per quanto concerne la questione dei recapiti dei biglietti di invito alle cerimonie e alle udienze, devo dire che ho una buona memoria, e quindi mi sarei ricordato del nome Agca se gli avessi recapitato un biglietto di tal genere», dice quando viene ascoltato sull’episodio nel 1995, un anno dopo i Petrocelli e Don Todini, ma soprattutto a quattordici anni dai fatti.

La datazione degli approfondimenti investigativi è la quarta anomalia. Già, perché l’episodio di S. Tommaso D’Aquino non fu sviscerato nelle precedenti inchieste, quando erano trascorsi pochi anni dai fatti e i ricordi dei testimoni erano più freschi? Ma soprattutto ci si domanda il motivo del rifiuto della Santa Sede a collaborare nell’accertamento di un episodio a ogni modo preoccupante al di là che quell’individuo fosse effettivamente Alì Ağca. Perché contempla un soggetto che senza autorizzazione, almeno volendo credere ai racconti delle Mura Leonine, si era infiltrato a una cerimonia papale ed era arrivato a due passi dal Pontefice. Una situazione di per sé preoccupante per l’incolumità di quella che anche la sentenza di Priore definisce  «l’augusta persona», indipendentemente dall’attentato che ne seguì a breve.

Ma non c’è soltanto Tor Tre Teste a ombreggiare la condotta del Cupolone. Non dimentichiamo l’episodio dei Padri Premostratensi, che non hanno mai chiarificato come portarono a conoscenza l’entourage di Giovanni Paolo II del rischio di un attentato riferito dai servizi segreti francesi, con l’allora segretario di Stato cardinal Agostino Casaroli che addirittura si limitò a risposte in forma scritta. L’unica veste talare disponibile con i giudici è monsignor Francesco Salerno, consulente legale presso la Prefettura degli Affari Economici della Santa Sede. Parla tanto, però su S. Tommaso D’Aquino dice poco: «Io non ho visto le fotografie di udienze e cerimonie in cui si sarebbe visto il volto di Alì Agca».

Priore ne trae le conclusioni. Pesanti come macigni. Perché certificano l’assenza di collaborazione della Santa Sede a fare chiarezza: «Atteggiamento che appare comune a molteplici soggetti e entità che dovrebbero ausiliare questi inquirenti e che, non in pochi tra essi, appare come intento – non si comprende da quali finalità determinato – di chiudere ogni indagine sul delitto e porre una pietra tombale sulla ricerca della verità». Un muro inspiegabile. Si trattava della vita del Papa, possibile non voler sapere come erano andate le cose? O forse dentro le Sacre Stanze era già tutto chiaro? Rimane sempre il dubbio, accompagnato però dalla certezza di aver dimenticato il Vangelo di Giovanni – «La verità vi farà liberi» – in nome di oscurità e silenzi ottimi per un’altra citazione evangelica: «Padre, perdona loro perché non sanno quel che fanno».