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I riformatori come «moltiplicatori» di criminalità. Le rivolte nelle carceri minorili di Milano e Torino

Redazione Spazio70

Da un articolo di Francesco Madera per «Epoca» (1977)

Violenza, paura e rabbia. Il filo del malessere torna a tendersi nelle carceri minorili. L’ultimo lunedì di luglio una dozzina di giovani detenuti è salita sui tetti del Beccaria: per quattro ore ha scagliato tegole e insulti contro gli agenti di custodia, contro le pattuglie di poliziotti e carabinieri che circondavano il muro di cinta. Tutto è cominciato per un bicchiere d’acqua. Nella notte fra la domenica e il lunedì un agente era stato aggredito e picchiato perché colpevole di non aver concesso un bicchiere d’acqua a un giovane detenuto. La mattina seguente, il consiglio di disciplina dell’istituto decideva di rinchiudere gli aggressori in cella d’isolamento per quattro giorni. A mezzogiorno la rivolta. Vetri rotti, letti bruciati, tavoli e armadi distrutti.

Alla testa dei più scatenati, un ragazzo che non ha ancora compiuto i 17 anni. Una vecchia conoscenza del Beccaria, dove era entrato per la prima volta a 14 anni quando a Milano, dalla Puglia, era arrivato, tutto solo, da appena tre mesi. Subito intrappolato da una organizzazione di balordi che lo avevano costretto a prostituirsi, uscito una prima volta dal carcere milanese, era stato rispedito al Sud. Senza speranza. La famiglia l’aveva abbandonato piccolissimo. Laggiù c’era soltanto il ricordo amaro e buio degli istituti assistenziali dove era cresciuto. Un calvario di miserie e privazioni. Dopo tre giorni era di nuovo a Milano. Coinvolto in una rapina a un travestito, processato in contumacia e assolto, ma destinato a un riformatorio, una volta ripreso, veniva temporaneamente assegnato al Beccaria – che riformatorio non è.

LE RIVOLTE AL FERRANTE APORTI, IL CARCERE MINORILE DI TORINO

Al Beccaria quel «temporaneamente» s’è dilatato e allungato fino a coprire lo spazio di un anno e mezzo. Il giorno successivo alla rivolta, si sarebbe finalmente dovuto tenere il processo di appello. Ma anche assolto definitivamente, nulla avrebbe potuto impedire la partenza del ragazzo per il riformatorio di Bologna. Senza scadenza di pena, forse fino al compimento del diciottesimo anno di età. Questo era scritto e questo è avvenuto. Nonostante la rabbia, la corsa sui tetti, lo scontro con gli agenti di custodia.

Due giorni dopo le stesse scene si ripetevano al Ferrante Aporti, il carcere minorile di Torino. Celle date alle fiamme, agenti di custodia finiti in infermeria, tentativi di fuga a ripetizione. Oltre 10 milioni di danni. «E’ anche il periodo, l’estate», dice con un mezzo sorriso il direttore del Beccaria, Antonio Salvatore. «I ragazzi sanno che gli altri vanno in vacanza». Tenta di minimizzare, ma non ci crede neppure lui. Vorrebbe soltanto che non si facesse troppo inutile chiasso su un problema antico, che richiederebbe attenzioni e interventi ben diversi dai facili scandalismi di prima pagina.

Troppo spesso, secondo Salvatore, con la scusa della notizia, si fa uno squallido commercio della violenza minorile. E, alla fine, da una parte restano soltanto vuote parole, dall’altra l’esplosione di rabbia sui tetti del Baccaria, le trentadue evasioni degli ultimi due mesi dal Ferrante Aporti, la ventina di agenti ricoverati in ospedale, i milioni di danni, l’allarmante aumento dei tentativi di suicidio all’interno delle carceri minorili, i 1600 ragazzi che in un anno entrano al Beccaria (con permanenze medie tra i 20 e i 30 giorni) e che sempre più spesso ci ritornano.

«CARCERI E RIFORMATORI? SE RESTANO COSÌ, SARANNO SEMPRE PIÙ DEI MOLTIPLICATORI DI CRIMINALITÀ»

«Questi sono i problemi. E non si risolvono con sterili polemiche su cosa sia più utile fra repressione e tolleranza», continua Antonio Salvatore. «Carceri e riformatori, se restano come sono, qualunque sia il metodo usato all’interno, sono destinati a diventare sempre più dei moltiplicatori di criminalità. Bisogna andare alle radici della violenza, scoprire da dove nasce, quasi sempre dall’emarginazione, nelle periferie delle grandi città, fra il sottoproletariato, e dal disadattamento familiare: e bisogna darle una risposta che non sia una ulteriore emarginazione. Occorre personale specializzato, che possa sostituire gli agenti di custodia. Occorrono centri sociali inseriti nelle comunità cittadine. Occorrono la sensibilizzazione e la collaborazione della gente. Ma l’ideale, almeno in tempi brevi, è arrivare a costituire (per ora all’interno degli istituti esistenti) dei gruppi di lavoro professionalmente più omogenei. Come infermieri e medici in un ospedale, così deve essere da noi. Una vocazione comune, comuni interessi professionali. Gli agenti di custodia, per esempio, oggi, qui dentro, sono anche loro delle vittime. Questo non è il loro posto. La loro vocazione e la loro carriera andavano verso altri obiettivi. Altre esigenze e interessi. In questi giorni anche loro pagano le contraddizioni della situazione. Sono nervosi, scontenti. Tutto questo si sente. Lo sentono i ragazzi. E non è certo un bene».

Antonio Salvatore è molto diplomatico. Di origine lucana, 48 anni, cresciuto tra le due guerre in una famiglia di solida e paziente fede antifascista, sa che il tempo lavora in suo favore. Prima di arrivare a Milano è stato a Torino, dove ha diretto proprio il Ferrante Aporti. In confronto al carcere torinese, il Beccaria è già un buon salto di qualità. Dall’esterno sembra quasi un albergo se non fosse per la squallida e anonima periferia che gli fa da sfondo. E comunque con la legge 382 (la famosa legge che dovrebbe smantellare inutili carrozzoni romani e rafforzare la capacità di intervento delle regioni) è anche probabile che il Beccaria ottenga il necessario per riorganizzarsi e per creare quei centri sociali nella città che sono il sogno di Antonio Salvatore.

IL CONTROVERSO ATTEGGIAMENTO DEI COSIDDETTI «EDUCATORI»

Intanto nel carcere, oltre la rabbia dei ragazzi, cresce quella degli agenti di custodia che accusano apertamente il direttore e i suoi collaboratori di cedimenti e paure. Respingono l’accusa di usare violenze. Ribattono che le proteste e le prepotenze dei ragazzi sono favorite dal doppio atteggiamento dei cosiddetti «educatori», morbidi e permissivi nei confronti dei più scatenati («per tenerseli buoni») e del tutto indifferenti alle angosce e agli smarrimenti dei giovanissimi. «Siamo stanchi, non ne possiamo più», ripetono. Due di loro, quest’anno, hanno già cambiato mestiere. Gli altri si dicono pronti a lasciarsi mettere le manette, a farsi arrestare per disobbedienza, piuttosto che continuare così. Di più, anche loro riconoscono che il carcere è un «moltiplicatore di criminalità», ma ne addossano tutta la responsabilità al direttore che, contro il regolamento, terrebbe nell’istituto – che è solo di carcerazione preventiva – ragazzi già condannati e altri di età superiore ai 18 anni.

In tutta questa tensione, fra scambi di accuse, violenze fisiche e verbali, una sola testimonianza manca. Quella più importante. Quella dei ragazzi. Ma la burocrazia, a loro, non consente di parlare. Se non quando urlano dai tetti o sotto le botte di qualcuno, come capita spesso di sentire, di là dai prati, nelle case dei quartieri popolari, dove altri ragazzi crescono con l’inferno sotto gli occhi e nel cuore.

LE STORIE DI ENRICO, CLAUDIO E ROBERTO

Claudio M., quindici anni, pugliese di origine, vive a Milano dal 1971. Ha nove fratelli. Padre e madre, da tempo divisi, sono tornati a vivere insieme soltanto di recente. Abitano in una casa popolare del quartiere Gallaratese. Il padre, più volte ricoverato in ospedali psichiatrici per alcolismo e violenze, attualmente lavora all’aeroporto di Linate. Assunto come scaricatore ai mercati generali, Claudio ha perso il posto di lavoro perché il padre si dimenticava di svegliarlo alle 4 di mattina. Fuggito di casa, è stato ingaggiato come «palo» da una organizzazione di adulti specializzata in furti d’appartamento. Il padre e la madre hanno fatto sapere che, in casa, non lo vogliono più a meno che non si impegni a mantenere gli altri nove fratelli.

Roberto S., è nato nel 1959 a Milano, da genitori calabresi (sposati nel 1945, ventotto anni lui, sedici anni lei). Dal 1946 ad oggi la madre è rimasta incinta ventiquattro volte. I fratelli attualmente viventi sono undici. L’ultima nata, una bambina, è morta sei mesi fa. Fra un parto e l’altro, la madre ha sempre cercato lavoro come domestica, ma raramente ha trovato. Il padre, lucidatore di mobili, è già in pensione. Dei tre fratelli maggiori, il primo ha ereditato il mestiere del padre, il secondo fa il muratore, il terzo è detenuto in un carcere sardo. In casa, due locali più servizi, abitano in sette. Tutti di salute fragilissima. Roberto, in più, è mancino: e per questo, fin da piccolo, è sempre stato punito. In collegio dagli 8 ai 13 anni, da quando è tornato in famiglia non ha mai trovato un lavoro stabile. Per mantenersi ha imparato a rubare, compiendo piccoli furti sempre da solo.

Enrico D., milanese di origini piccolo-borghesi, 16 anni, abita in zona Ticinese con la madre e il patrigno. Il padre, proprietario di un negozio di mercerie, è morto di infarto nel 1971 a 42 anni. La madre lavora alla Centrale del latte, soffre di gravi disturbi nervosi. Nato prematuro, dopo una gravidanza difficile e non voluta, Enrico è cresciuto fino ai sei anni con la nonna paterna. Scuole elementari e medie in collegio. Al ritorno, rivela una particolare vocazione alla meccanica (trova subito lavoro in una officina) e un’incontenibile esuberanza sessuale di cui la madre va particolarmente orgogliosa. Finché un giorno, Enrico, decide di fuggire di casa in compagnia di una ragazza. La madre allora lo denuncia. Ma il ragazzo non torna. Continua invece la fuga. Alcol e droga. E alla fine una rapina.