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La banda XXII Ottobre

Redazione Spazio70

Gli elementi che determinano la veloce dipartita del gruppo sono due: l'incapacità di selezionare gli elementi più motivati sotto il profilo ideologico e la mancanza di collegamenti con le proteste studentesche della fine degli anni Sessanta

L’immagine è di quelle che caratterizzano una intera epoca. È il 26 marzo 1971 e ci sono tre uomini, due su una Lambretta e uno a terra. Tra i due sulla moto ce n’è uno che impugna un’arma: ha il braccio teso e sembra sparare sull’uomo disteso sull’asfalto. Ci vuole poco per capire che l’arma è puntata su un obiettivo diverso, ma il maggior quotidiano di Genova, il Secolo XIX, pubblica un titolo come questo: «Fotografati mentre uccidono». In realtà il corpo mortale è già partito e lo scatto ritrae i due banditi nel momento della fuga. L’uomo a terra è Alessandro Floris, fattorino dell’Istituto case popolari di Genova, colpito mortalmente dalla pallottola sparata da Mario Rossi, ventinovenne imbalsamatore di animali. La foto che lo ritrae assieme a un altro componente della XXII ottobre è stata scattata per caso da uno studente che dopo aver sentito gli spari è accorso alla finestra assieme alla macchina fotografica che portava sempre con sé. La particolarità della banda sta nel fatto che nessuno faccia parte di gruppi extraparlamentari e non ci siano studenti, considerata l’età media elevata del gruppo. Alcuni dei componenti hanno però letto i testi dei Tupamaros, l’organizzazione armata uruguayana di ispirazione marxista-leninista, e soprattutto il Piccolo manuale della guerriglia urbana scritto dal brasiliano Carlos Marighella, una vera e propria bibbia anche per i militanti Br. È il 22 ottobre 1969 quando l’imbalsamatore Mario Rossi torna in treno a Genova, dando il via alla formazione della banda che imperverserà per undici lunghi mesi nel territorio del capoluogo ligure. Dopo l’omicidio del fattorino Alessandro Floris, un immigrato sardo molto diverso dai padroni che i componenti della XXII ottobre dicono di voler combattere, la polizia darà una caccia spietata a Rossi e compagni: ad aspettarli il carcere, le condanne, e un magistrato inflessibile, Mario Sossi. Per loro si muoveranno comitati, ci saranno iniziative di controinformazione e appelli internazionali di intellettuali prestigiosi: strano destino per chi ha dato di sé la definizione di «animali di periferia».

UNO SPESSORE POLITICO NON PARAGONABILE A QUELLO DELLE BR

La banda agisce in una città, Genova, che è già l’anello debole del cosiddetto triangolo industriale, una constatazione, questa, ben con divisa anche dal futuro leader delle Br Mario Moretti. Gli anni delle partecipazioni statali sono ormai alle spalle e il capoluogo ligure inizia a conoscere un lento, ma inesorabile declino anche demografico. I migliori diplomati e laureati scelgono di risiedere nelle altre due capitali industriali d’Italia, Torino e Milano. Le fabbriche dell’Iri hanno perso nel corso degli ultimi anni Sessanta diecimila posti di lavoro, considerando anche le piccole realtà collaterali dell’indotto. In politica domina la figura dell’ex partigiano cattolico Paolo Emilio Taviani che sarà ministro dell’Interno durante la prima clamorosa azione brigatista, proprio il sequestro di quel giudice Sossi che aveva sostenuto la pubblica accusa nel processo contro la XXII ottobre. Genova aveva già dato segnali di inquietudine nel 1960, di fatto decretando la fine del governo Tambroni sostenuto dai fascisti e scongiurando la celebrazione in città del congresso del Msi. Si era trattato di un chiaro esempio di insubordinazione: la rivolta di Genova contro Tambroni, di fatto, bypassava le organizzazioni sindacali e soprattutto i grandi partiti della sinistra storica che predicavano la calma o comunque una opposizione ai fascisti di tipo legale: i genovesi, i portuali, gli operai e soprattutto i cosiddetti ragazzi con le magliette a strisce avevano preferito il ricorso a modalità di lotta sul campo impegnando in scontri violentissimi le forze dell’ordine. Questo sentimento, se non di ostilità, almeno di fastidio verso i partiti storici della sinistra italiana esiste ed è diffuso ancora all’inizio degli anni Settanta, con il Pci che a Genova perde migliaia di iscritti soprattutto tra i più giovani: si determina una sorta di spaccatura tra chi ancora conserva la fede nel Partito – perché la Resistenza l’ha fatta o almeno respirata – e chi pur facendo proprio un antifascismo militante non crede più nella carica rivoluzionaria del Pci. Una crisi di legittimazione che però non porterà grandi vantaggi ai gruppi extraparlamentari di estrema sinistra mai troppo forti a Genova. Sono pochi gli studiosi che si sono interessati alla XXII ottobre e forte è stata la tendenza al giustificazionismo o a una certa sottovalutazione della gravità delle azioni criminali portate a termine dalla banda. Nonostante gli evidenti legami con i primi segni della nascita del fenomeno brigatista, lo spessore politico della XXII ottobre non è certamente paragonabile a quello di altri gruppi organizzati dell’estrema sinistra, tra cui le stesse Br. Certamente gli elementi che determinano la veloce dipartita del gruppo sono due: da un lato l’incapacità di fare ordine al proprio interno, selezionando gli elementi più motivati sotto il profilo ideologico, dall’altro la mancanza di collegamenti con le proteste studentesche della fine degli anni Sessanta.

A colpire è la eterogeneità che caratterizza la composizione della banda: l’aspetto più inquietante è la convergenza, all’interno della stessa, di alcuni delinquenti comuni interessati solo ai vantaggi economici derivanti dal fatto di esser parte di un gruppo armato. Le prime azioni sono quelle contro il consolato Usa di piazza Portello (8 maggio 1970) e la sede del Partito socialista unitario di via Teano del 24 aprile 1970. Una terza azione è quella contro una autoblindo dei carabinieri posteggiata presso la caserma di via Maresco, sempre a Genova. Le modalità sono le stesse: candelotti di dinamite o gelatina collegati a una miccia con le deflagrazioni che non avvengono per puro caso perché lo stoppino si spegne o viene scollegato dal personale di guardia. Il 5 ottobre 1970 la banda compie il sequestro di Sergio Gadolla: è il figlio di un simpatizzante del Msi, ma la motivazione politica è soltanto un pretesto per autofinanziarsi dato che viene chiesto un forte riscatto. L’azione, pianificata con una certa attenzione, è realizzata di notte. Si tratta di un sequestro breve con i rapitori che contattano presto la famiglia Gadolla per il pagamento del riscatto. I sospetti degli inquirenti si concentrano su alcuni pastori sardi presenti nella zona, mentre la famiglia del rapito tenta di accontentare immediatamente le richieste dei sequestratori. Molto banalmente tutto slitta di giorno in giorno perché i Gadolla e i terroristi non riescono a incontrarsi. Il riscatto viene pagato comunque il 9 ottobre 1970 con la conseguente liberazione del giovane Sergio. Una ulteriore azione è quella condotta contro la Ignis – deposito di Sestri Ponente – del 6 febbraio 1971, con la rivendicazione che avviene tramite le consuete interferenze televisive in cui la banda si è ormai specializzata: Donghi, proprietario della Ignis, viene qualificato come «finanziatore di squadre fasciste». Il 18 febbraio 1971 la banda prende di mira una raffineria di Edoardo Garrone, definito «avvelenatore dei proletari e corruttore di stato» nonché «vicino alle idee di Junio Valerio Borghese» cioè dell’ex comandante della Decima Mas: per l’azione viene utilizzato il tritolo che consente di perforare le pareti del contenitore a sfera pieno di propano-butano. Il risultato è una tremenda esplosione, poi rivendicata con le già citate interferenze televisive marchio di fabbrica della banda.

L’OMICIDIO FLORIS E IL SEQUESTRO SOSSI

L’azione che segna però il destino della XXII ottobre è senz’altro quella contro l’Istituto Autonomo Case Popolari che porta all’omicidio di Alessandro Floris. Nonostante la attenta pianificazione del sequestro Gadolla, non con altrettanta perizia viene realizzata l’azione contro il fattorino Iacp: il progetto di alleggerirlo dei soldi delle paghe dei dipendenti dell’Istituto, sommata alla prevista, ma forse sottovalutata, tenace resistenza, porterà all’esplosione dei colpi di arma da fuoco che uccideranno Floris. Il processo alla banda avrà grande risonanza, non solo in Italia ma anche all’estero: il quotidiano francese Liberation definirà la vicenda giudiziaria della XXII ottobre «degna di una dittatura sudamericana». Alcuni importanti intellettuali come Jean Paul Sartre e Jean Luc Godard lanceranno veri e propri anatemi contro il sistema processuale italiano «reo di avere trasformato un omicidio involontario in volontario». L’elemento che, però, lega la banda e le Br è il pubblico ministero Mario Sossi, che ricopre il ruolo inquirente nel processo contro la XXII ottobre. Sossi, a cavallo tra anni Sessanta e Settanta, ha già assunto una fama di intransigente a seguito di alcune importanti inchieste condotte con il piglio del giustiziere: la sua figura viene vista, da una certa parte politica, come quella del rappresentante di uno Stato che fa propri metodi fascisti nella applicazione delle norme. In breve tempo si scatena contro il giudice una campagna mediatica di fatto propedeutica al suo rapimento da parte delle Brigate rosse alcuni mesi dopo la conclusione della vicenda giudiziaria che vede protagonista la XXII ottobre. Sul fatto che Sossi sia effettivamente un uomo di destra non ci sono dubbi: entrato in magistratura nel 1957 si associa ben presto all’Umi, la corrente più conservatrice, salvo poi realizzare una clamorosa dissociazione a seguito della mancata solidarietà della stessa Umi nel momento del sequestro.

Mario Sossi rapito dalle Br

La ratio del rapimento Sossi da parte dei brigatisti è sostanzialmente quella di favorire la liberazione degli esponenti della XXII ottobre con conseguente espatrio verso un Paese terzo, una eventualità resasi ben presto impraticabile grazie anche alla probabile azione dissuasiva del Pci verso la Cuba di Castro inizialmente scelta come luogo nel quale spedire i terroristi della banda genovese. Sossi verrà liberato a Milano dopo una lunga e dolorosa detenzione e conseguente processo proletario, giungendo poi in treno fino a Genova dove raggiungerà una caserma della Gdf. L’ultimo tragico strascico di questa vicenda sarà l’assassinio, assieme a due agenti della scorta, del procuratore della Repubblica Francesco Coco che si era opposto alla scarcerazione degli uomini della XXII ottobre proprio in cambio di Sossi.