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«Se troveranno un cadavere sotto un ponte, quello sarò io». Vita e morte di Giangiacomo Feltrinelli

Redazione Spazio70

Da una inchiesta di Marzio Bellacci, Gualtiero Tramballi, Raffaello Uboldi e Livio Caputo per «Epoca» (marzo 1972)

Verso le ore 10 di giovedì 16 marzo, Mariano Rumor, ministro dell’Interno, seppe che l’uomo trovato morto a Segrate il giorno prima era con certezza l’editore Gian Giacomo Feltrinelli. Questa sarebbe stata una bomba in ogni caso: ma nella situazione di quel giorno era una bomba che poteva farne scoppiare cento altre e provocare qualsiasi cosa. Appena sospeso il processo Valpreda (senza turbamenti per l’ordine pubblico nella capitale) c’era stato il sabato di guerriglia a Milano, con il centro-città in mano ad alcune migliaia di fanatici. C’era stata una rapina a Roma con l’assassinio di un agente, c’erano i risultati inquietanti di perquisizioni in mezza Italia, col ritrovamento di ordigni esplosivi, con la scoperta di autentici laboratori per la confezione di bombe molotov e di depositi di manganelli. Anzi: una delle polveriere clandestine era saltata in aria da sé in via Pacinotti 8, a Milano: una bomba a strappo difettosa era scoppiata incendiando un deposito di molotov.

Ed ecco scoppiare anche il caso Feltrinelli, ma non da solo. Con singolare rapidità, la notizia della morte dell’editore fu seguita da furibonde prese di posizione negli ambienti estremisti. A destra veniva preparato un manifesto che diceva: «Il miliardario pazzo si è autogiustiziato». Dall’ultra-sinistra arrivarono subito eccitate accuse di assassinio. Si chiedevano a intellettuali adesioni a imminenti manifesti di protesta. Paese Sera uscì a Roma sostenendo clamorosamente la tesi dell’omicidio, manifesti della stessa intonazione cominciarono ad apparire a Milano e infine alle 20,30, mentre gli inquirenti ancora non si sentivano di dire una parola sul fatto, il Telegiornale diede clamorosa pubblicità a un comunicato assolutamente di parte, che sosteneva senza alcuna incertezza: hanno ucciso Feltrinelli. Milioni di italiani si sentirono dire pressappoco, quella sera, che un complotto del fascismo e della «reazione internazionale» aveva soppresso Gian Giacomo Feltrinelli. Milioni di italiani furono indotti a sospettare che anche il governo, la polizia, la magistratura tenessero il sacco a bande di assassini finanziate per instaurare nel Paese una situazione di tipo hitleriano.

UNA CARTA D’IDENTITÀ INTESTATA A VINCENZO MAGGIONI

La falsa carta d’identità ritrovata nel corpo senza vita di Feltrinelli

Il morto era stato trovato alle 15,30 di mercoledì 15 sotto il pilone numero 71 di una linea ad alta tensione gestita dall’Azienda Elettrica Municipale di Milano, in seguito alla segnalazione dei fratelli Lorenzo e Luigi Stringhetti che abitano a circa 400 metri di distanza e che erano stati guidati sul posto dall’abbaiare del loro cane Twist. Arrivarono i carabinieri, la polizia, un medico e un magistrato, il dottor Bevere, iscritto al PSIUP. Trovarono il cadavere con addosso una carta d’identità intestata a Vincenzo Maggioni, alcuni candelotti inesplosi e, ai limiti del campo, un furgone Volkswagen verde chiaro, targato MI-GE4262. Il morto indossava giubba e pantaloni color verde oliva, simili alle tute da combattimento dei marines americani nel Vietnam. Sotto questa divisa aveva una giacca marrone di stoffa inglese, calzoni di velluto color nocciola, un maglione rosso scuro, canottiera e slip con etichetta di un negozio di via Montenapoleone.

Nelle tasche dell’uomo si erano trovate duecentomila lire, oltre a novanta franchi svizzeri, un biglietto da mille lire tagliato a metà, una moneta cubana da un peso e una rudimentale bomba a mano formata con un pacchetto di sigarette (Astoria, svizzere) riempito con tritolo pressato e innescato con un detonatore a percussione. Nella carta di identità si trovavano due micronegativi che raffiguravano una donna e un bambino. Ma il documento risultò falso. Era stato rubato, in bianco, nella notte fra il 20 e il 21 dicembre 1969 dal municipio di Preganziol, in provincia di Treviso.

A questo punto, attorno alla scrivania del colonnello Petrini (capo del gruppo di Milano dei Carabinieri) la tensione diventò frenetica. Chi era il dinamitardo? L’attenzione si concentrava nuovamente sulla fotografia del documento falso. Quella fotografia aveva già colpito qualcuno. A chi somigliava? Finalmente uno dei presenti azzardò un nome: Feltrinelli.

A ROMA, POCHE ORE DOPO, TUTTI GIÀ SANNO

Nel luogo dell’esplosione, il corpo senza vita di Feltrinelli sta per essere deposto in una bara alla presenza di alcuni funzionari di polizia (Epoca, 26 marzo 1972)

Erano le 23 di mercoledì e si rimetteva in moto l’operazione di controllo: fotografie, impronte digitali, ingrandimento dei micronegativi trovati addosso al morto, convocazione di persone vicine al Feltrinelli. Alle 10 del mattino successivo, giovedì 16 marzo, il colonnello Petrini saliva agli uffici della Procura della Repubblica di Milano. Poco dopo la notizia si diffondeva in città. A Roma, verso mezzogiorno, tutti già sanno. Gli agenti di polizia stanno ancora battendo la città e la campagna alla ricerca di chi ha ucciso nella rapina il loro collega Cardillo (120 mila lire al mese e una scarica di mitra in faccia). Poi ci sono i risvolti romani dell’inchiesta Stiz, il giudice istruttore che ha incriminato un gruppo di destra per le bombe milanesi del 25 aprile 1969 e per gli attentati ai treni dell’agosto successivo. In pratica, polizia e carabinieri sono impegnati al limite delle possibilità su due binari, quello dell’estremismo politico e quello della delinquenza. In tutta Italia, secondo calcoli ottimistici, occorrerebbero almeno cinquemila agenti in più. Ma non ci sono. Se accadesse qualcosa…

Potrebbe accadere giovedì 16 marzo, in questo pomeriggio primaverile che vede le edizioni straordinarie dei giornali con le accuse di assassinio (senza autopsia, senza che gli inquirenti abbiano fatto conoscere altro che l’identità del morto). Convulse telefonate preannunciano altre iniziative dell’estremismo, poi la TV ha l’incredibile trovata di quel comunicato con allusioni alla «strage di Stato». E i comunisti cosa fanno? I comunisti sono tutti a Milano per il loro congresso ispirato al motto «Il PCI partito di governo». Reagiscono alla notizia di Feltrinelli chiedendo la verità, come è logico, ma chiedendola agli istituti dello Stato democratico, non fanno processi, non promuovono manifestazioni: dicono la loro sul caso, poi riprendono il dibattito previsto dall’ordine del giorno.

Rumor è sempre in contatto con Andreotti, col Capo della Polizia Vicari, col Comandante dei Carabinieri. Per la ricerca dei mandanti, il ministro è d’accordo: è una idea che ha già espresso dopo i disordini milanesi di sabato 11 marzo. A Roma viene perquisita la libreria Feltrinelli, si fanno indagini a Casale, Bologna, Genova, le sedi estremiste vengo setacciate. I giornali del mattino, l’indomani, sono in grado di presentare al pubblico un quadro più organico della situazione. Si registrano i primi mutamenti di bandiera. Taluni che fino a ieri potevano essere giudicati «compagni di strada» di Feltrinelli, adesso denunciano questo ricco che giocava alla rivoluzione, con accenti di sdegno che sarebbe stato più utile leggere quando era ancora vivo.

«NON ESCLUDIAMO CHE IL MORTO SIA FELTRINELLI»

Inge Schönthal e Giangiacomo Feltrinelli

Sempre a Milano, nella mattinata di giovedì, si susseguono gli ordini di perquisizione nelle ville e negli uffici che l’editore possedeva in mezza Italia. E proprio in questo clima arriva un’altra notizia allarmante: nelle campagne di Gaggiano, sulla strada per Abbiategrasso, è stato scoperto un altro traliccio dell’alta tensione minato. Le cariche poste alla base del pilone nella nottata di lunedì 13, a causa della pioggia che cadeva nella zona, non sono esplose. Il pilone di Gaggiano sostiene una delle principali linee ad alta tensione che alimentano la città. Trasporta l’energia prodotta dalla centrale termoelettrica di La Spezia. Proprio su questa linea, nella notte del 22 dicembre dello scorso anno, era stato compiuto un attentato di cui le autorità non avevano dato notizia per non allarmare l’opinione pubblica. Una carica di tritolo aveva tranciato netto uno dei quattro «piedi» che sostengono un pilone dell’ENEL, alto 107 metri, situato sulla riva sinistra del Po, a Pieve Aldignano in provincia di Pavia. Il traliccio non era caduto perché in quel momento non c’era neppure un alito di vento. Altrimenti ne avrebbe trascinato con sé un altro sulla riva opposta del fiume e i cavi sarebbero piombati sull’Autostrada dei Fiori. Gli esperti sostengono che mettendo fuori uso un singolo traliccio non si arreca un grave danno alla città. È tuttavia indubitabile che gli attentatori avevano scelto con cura i piloni da colpire.

Alle 19 di giovedì 16, il sostituto procuratore della Repubblica, Bevere, cede finalmente alle pressioni dei giornalisti e dichiara di «non poter escludere che il morto sia Feltrinelli». Quattro ore dopo l’inchiesta acquisisce un primo riconoscimento speciale. Portata davanti alla salma, Inge Schönthal, terza compagna dell’editore, non ha avuto un attimo di esitazione: il morto è proprio Gian Giacomo Feltrinelli. Nella mattinata successiva la triste realtà sarà confermata anche da Sibilla Melega, ultima moglie del miliardario milanese.

Mentre Melega, all’obitorio di Milano, scoppia in lacrime davanti al cadavere del marito, sul campo di Segrate magistrati e carabinieri compiono un altro sopralluogo. In un raggio di cinquanta metri si trovano brandelli di carne, frammenti di ossa e gli occhiali (manca solo una stanghetta) che evidentemente Feltrinelli portava al momento dello scoppio. Ci sono tracce di sangue anche sul longherone del traliccio tranciato dall’esplosione. Si accerta pure l’ora dello scoppio: i testimoni sono concordi nell’affermare di aver udito un boato verso le 21,15 di martedì.

UN DECESSO RAPIDISSIMO

Enrico Berlinguer ritratto in occasione del congresso Pci del 1972

Mentre l’inchiesta giudiziaria si muove su ogni pista («non abbiamo sposato alcuna tesi», ha detto il procuratore capo De Peppo), in tutta Italia continuano le polemiche. Nel suo discorso di chiusura al congresso del Partito comunista svoltosi a Milano, il segretario del PCI, Berlinguer, dichiara: «Sull’uomo che è stato trovato morto a Milano, il meno che si possa dire è che le spiegazioni che vengono date non sono credibili: pesante è il sospetto di una spaventosa messa in scena». Il professor Dall’Ora, legale di Sibilla Melega, chiede una sollecita autopsia della salma «per poter conoscere il tempo della morte, le cause e, in particolare, se le ferite da squarcio, conseguenti all’esplosione, sono state prodotte in corpo vivo oppure no; se vi sono comunque tracce di precedenti lesioni, già causa di morte o infermità grave, se vi sono tracce che possano far ritenere che la persona sia stata sottoposta a trattamento di sostanze ad effetto stupefacente o simili».

Sabato 18 marzo: autopsia. Gli otto periti (tre dei quali scelti dalla famiglia Feltrinelli) rispondono a buona parte dei quesiti. Gian Giacomo Feltrinelli è morto per una violentissima emorragia dovuta allo scoppio che lo ha dilaniato; il corpo non presentava lesioni da lama o da arma da fuoco; aveva invece sul viso e in altre parti del corpo ferite da schegge provocate dai residui metallici del traliccio. Ci sono pure lesioni craniche e toraciche, ma per ora non se ne può indicare la successione cronologica. Per l’eventuale presenza di tossici occorrono ulteriori esami di laboratorio.

Così l’autopsia dà maggior credito alla ricostruzione degli ultimi istanti di vita di Feltrinelli, effettuata dagli inquirenti: l’editore, dopo aver piazzato la carica di dinamite, era in piedi a gambe divaricate sul lungherone trasversale del traliccio. A questo punto, per cause da accertare, una carica è esplosa investendo tutto il lato destro del corpo dell’uomo che è precipitato da un’altezza di circa quattro metri. Si spiegherebbero così le contusioni craniche e toraciche. Gian Giacomo Feltrinelli deve essere morto in pochissimo tempo, tra i 40 secondi e il minuto. La zolla di terra su cui poggiava l’arto disintegrato è stata trovata intrisa di sangue.

UN FURGONE E UNO O PIÙ COMPLICI

La prima pagina dell’Unione Sarda con la notizia della morte di Feltrinelli. Nel sottotitolo, l’editore viene definito «anarchico miliardario». Interessante anche il riferimento a «un piano di vasta portata» sul quale si sarebbe concentrata l’attenzione degli inquirenti

A questo punto le autorità si concentrano sulla soluzione dell’interrogatorio chiave dell’inchiesta: Feltrinelli era solo la sera dell’esplosione? Il protagonista di questa fase è il furgone Volkswagen trovato nel viottolo ai bordi del campo di Segrate. Sull’automezzo — attrezzato a roulotte, con cucina, divano letto e piccola libreria — non è stata trovata la chiave d’avviamento e delle portiere. La prima idea è che le avesse addosso l’editore e che l’esplosione le abbia scagliate lontano: ma le ricerche non danno alcun risultato. Se non le ha intascate qualche curioso, si dovrebbe concludere che con Feltrinelli ci fossero uno (o più) complici, fuggiti poi alla vista dell’amico dilaniato dallo scoppio.

Il furgone era stato venduto il 4 marzo 1969 alla signora Luigia Giudice, 60 anni; in realtà la donna aveva solo «prestato» il proprio nome al genero Lucio Di Gregorio, commerciante di detersivi, che usava questo ed altri furgoni dello stesso tipo per il proprio lavoro. Poco più di due anni dopo, il furgone era stato rivenduto a una commissionaria Fiat che a sua volta l’aveva passato all’automercato di Cinisello Balsamo, alle porte di Milano. Qui il primo maggio 1971, viene acquistato da qualcuno che presenta documenti intestati a Olivio Invernizzi, un pensionato residente a Milano in via Cechov, ma che fino a cinque anni fa abitava in via Pacinotti 8 proprio nello stabile cioè dove domenica 12 marzo è esplosa la «Santa Barbara» di due giovani appartenenti a un gruppuscolo della sinistra. Ma Olivio Invernizzi nega recisamente di aver posseduto un furgone del genere. La sua buona fede sembra provata dalle indagini successive. Innanzitutto risulta che il bollo di circolazione dell’automezzo è stato rinnovato l’ultima volta a Carmerlata (Como) dove risiede la famiglia di Orlando Pozzi lo studente di filosofia introvabile dopo l’esplosione di via Pacinotti. Inoltre si accerta che l’assicurazione del furgone è stata sottoscritta, sempre a nome dell’Invernizzi, da un certo Carlo Fioroni che diventa così d’improvviso il personaggio-chiave della vicenda. Anche perché c’è motivo di ritenere che il loden trovato sul furgoncino sia suo.

UN GIOVANE PROFESSORE DI LETTERE: CARLO FIORONI

Una immagine di Carlo Fioroni pubblicata a metà anni Settanta dal Corriere della Sera (riproposta sul profilo Flickr di Antonella Beccaria)

Chi è Fioroni? Un giovane di 28 anni, piccolo, magro, con una rada barba nera, figlio di un distinto funzionario di banca in pensione, professore di lettere in una scuola media a Settala (Milano). Il suo nome non è ignoto alla polizia. Egli era almeno fino all’ottobre scorso uno degli ideologi di Potere operaio. Fino a quando si separò dalla moglie Silvia Francioli circa quattro mesi fa, Fioroni abitava in un nuovo stabile di via Buschi, quasi al confine tra il comune di Milano e quello di Segrate, dove —  secondo la testimonianza della custode — arrivavano spesso gruppi di chiassosi «barbudos», con ingombranti pacchi, a bordo di un camioncino simile a quello trovato poco lontano dalla salma di Gian Giacomo Feltrinelli.

Dopo la partenza da via Buschi, Fioroni ha condotto una vita randagia: ogni tanto dormiva in casa dei genitori, più spesso ad altri recapiti. Si era legato di grande amicizia con una ragazza di buona famiglia, la giovanissima dottoressa Nicoletta Nisler, anche lei attratta dalla contestazione. Quelli di Potere operaio dicono che, alla fine di ottobre, Fioroni si staccò dalla loro organizzazione. In compenso, ai primi di marzo, egli fu coinvolto nell’ancora oscuro sequestro del dirigente della Siemens Idalgo Macchiarini da parte di una sedicente «brigata rossa». Nella sua ultima abitazione la polizia trovò due carte d’identità rubate al municipio di Magnago. Una era corredata dalla fotografia del professore, ma intestata a Lorenzo Maggi, di 26 anni, nato a Verbania; sull’altra c’era la fotografia della moglie.

Giovedì 16 marzo, 24 ore dopo il ritrovamento del cadavere del Feltrinelli, Carlo Fioroni, interrogato dal colonnello Petrini, già al corrente dei suoi «legami» con il furgone, disse di aver pagato l’assicurazione per fare un favore a un collega, residente a Desio. Si scoprì che aveva detto il falso soltanto egli era già uscito dalla caserma dileguandosi.

AL MINISTERO DELL’INTERNO SI COMINCIA A RESPIRARE

La prima del Corriere della Sera sulla morte di Feltrinelli (17 marzo 1972)

È la notte di sabato 18 quando a tutte le Questure e ai Comandi dei Carabinieri d’Italia arriva la richiesta di collaborare nelle ricerche di Carlo Fioroni. Lunedì scoppia una nuova bomba: in uno stabile in costruzione a Como viene trovato il corpo di Michele Panza, uno studente barese di 21 anni residente a Milano. Accanto a lui ci sono una boccetta di veleno, vuota e una lettera in cui dice di non riuscire più a tirare avanti. In tasca ha una tessera di Potere operaio. Anche Michele Panza è un nome noto agli inquirenti. Ex seminarista, era un frequentatore di circoli d’estrema sinistra e aveva cominciato la sua avventura di contestatore nella «comune» studentesca dell’Albergo «Commercio» di Piazza Fontana a Milano. Il 12 dicembre 1969, giorno delle bombe, ebbe una violentissima crisi di nervi. Da allora gli era rimasto un forte esaurimento. Il 17 marzo, dopo l’identificazione di Feltrinelli, ha avuto una seconda crisi che lo ha portato prima alla fuga e poi al suicidio. In casa sua le autorità hanno trovato, oltre a numerosi volantini di propaganda estremista e a una strana contabilità con entrate e uscite per cifre superiori alle sue possibilità, anche due diari. In uno, alla data del 17, il giovane aveva tracciato uno schizzo di Feltrinelli con le parole Pax et vita.

Al Ministero dell’Interno, si comincia a respirare. Al contrario di quanto accadde per la strage di piazza Fontana, tutta l’Italia ha l’impressione che le indagini si svolgano rapide, senza prevenzioni e su basi concrete. Gli stessi uomini che pochi minuti dopo l’identificazione di Feltrinelli parlavano di «strage di Stato» sono diventati singolarmente cauti. La tesi degli amici di Feltrinelli adesso non è più che l’editore sia stato portato a Segrate morto o drogato e fatto saltare per aria ad arte, ma che sia stato plagiato da provocatori, convinto a compiere una impresa che in realtà poteva giovare soltanto alle destre e poi messo nelle condizioni di saltare in aria mentre cercava di improvvisarsi artificiere.

«Potere operaio?», ci ha detto un autorevole esponente della sinistra extra-parlamentare. «Abbiamo sempre sospettato che fossero al servizio della reazione. L’anno scorso erano quasi scomparsi, erano ridotti a poche decine; solo nelle ultime settimane sono tornati a galla, pieni di baldanza e di quattrini. Sono stati loro l’anima dei disordini di Milano di sabato 11 marzo, loro che hanno iniziato la carica alla polizia che è stata la causa di tutti i guai. Adesso questa storia. non bisogna proprio fidarsi di nessuno».

FELTRINELLI VISTO DA VICINO

Il pamphlet scritto e pubblicato da Feltrinelli nel ’69

Com’era Feltrinelli a stargli insieme, a vederlo da vicino? È più facile rispondere a questa domanda adesso che è morto che quando era vivo, quali che siano i lati oscuri di questa sua scomparsa e i molti interrogativi non risolti dei suoi ultimi anni. Il fatto è che, da vivo, poteva anche apparire un personaggio più complesso di quanto, in verità, non fosse. Il suo dato di fondo era l’inquietudine, che negli ultimi tempi pareva essersi trasformata in uno stato di sovraeccitazione patologica quasi permanente.

Questa almeno fu l’impressione che mi diede nel corso di un incontro dell’estate ’69. Aveva appena pubblicato un suo opuscolo ideologico intitolato Estate 1969, che dava per imminente in Italia un colpo di Stato di destra e ipotizzava la necessità di organizzare nel Paese la guerriglia rivoluzionaria. Ne parlava a scatti, con punti di allucinazione nella voce, incurante di ogni obiezione. I fatti gli diedero torto, il colpo di Stato non ci fu, ma Feltrinelli rimase egualmente fedele all’idea della guerriglia. La situazione italiana, a suo avviso, giustificava la «violenza rivoluzionaria».

Chi ha avuto modo di avvicinarlo in questi ultimi mesi lo descrive in preda ad ancora più radicate ossessioni. Un amico lo ammonisce. «Bada che potresti essere tu stesso vittima della violenza». E un altro gli dice: «Bada che potresti essere ucciso». «Lo so, lo so», risponde lui con insofferenza. Lo stesso tipo di insofferenza alle obiezioni che ha manifestato più di una volta nella sua vita pubblica e privata. Anche se non è detto che l’uomo non potesse, di tanto in tanto, diventare il docile strumento di qualcuno.

UN GIOVANOTTO MAGRO, INTROVERSO E AGGRESSIVO

Feltrinelli nei primi anni Quaranta (fonte: Feltrinellieditore.it)

Delle quattro mogli che ha avuto, quella che gli è stata più a lungo vicina è Bianca Dalle Nogare, la prima: una donna bella, intelligente, con una classe innata, anche se di modeste origini sociali. Dieci anni di vita in comune, mentre le altre, Alessandra De Stefani, Inge Schönthal e Sibilla Melega si spartiscono fra tutte sedici anni di matrimonio. La prima moglie lo ricorda nei tempi dell’immediato dopoguerra. Un giovanotto magro e asciutto, fisicamente un po’ fragile, a tempo incerto e testardo, introverso e aggressivo, capace di molti entusiasmi, ma anche di parecchia superficialità: più che nelle idee, che presuppongono riflessione, credeva negli slogan, un difetto che si poterà dietro per tutta la vita.

All’età di nove anni ha perduto il padre e l’avvenimento lo ha segnato profondamente (c’è stato anche il suicidio di uno zio, pare per dissesti finanziari). Cinque anni dopo la morte del marito, sua madre, Giannalisa, si risposa con Luigi Barzini junior. Donna terribile, autoritaria, alleva i figli con pugno di ferro, in pieno accordo col monocolo alla prussiana che porta bizzarramente incastrato in un occhio. Gian Giacomo non viene mandato con gli altri ragazzi a una scuola pubblica: cresce in solitudine, istruito da precettori privati, in una atmosfera vagamente alla Buddenbrook. Durante la guerra, i Feltrinelli sfollano in una delle ville di famiglia sull’Argentario, poco lontano da Orbetello, dove è situata una base per idrovolanti italiani. La zona è scelta male, perché viene bombardata più volte dagli Alleati e il giovane Feltrinelli passa mesi sotto l’incubo della bombe. Ne cadono di enormi, da 500 chili. Ma a tutto ci si abitua: con una decisione a mezzo fra il coraggio e l’incoscienza il ragazzo (ha sedici anni) ne disinnesca alcune che sono cadute inesplose.

È nato nel 1926: nel ’43 ha dunque diciassette anni, diciannove alla fine della guerra. Molte delle sue scelte di allora avvengono in lite con la madre: la decisione di arruolarsi nella Legnano (una divisione del Corpo italiano di Liberazione che risale la penisola con l’Ottava Armata) l’iscrizione al PCI, il matrimonio con Bianca Dalle Nogare. È in gioco, tra l’altro, il futuro di un enorme patrimonio familiare. Feltrinelli sogna di abbandonare tutto alla madre per dedicarsi alla carriera di funzionario del partito comunista. Ma poi ci ripensa, non lascia nulla a nessuno, e al compiersi dei ventuno anni entra regolarmente in possesso di una ricchezza valutabile a parecchi miliardi.

DA «MILIARDARIO ROSSO» A «MILIARDARIO GUERRIGLIERO»

Roma, 8 luglio 1955. Giangiacomo Feltrinelli presenta a Jawaharlal Nehru l’edizione italiana della sua autobiografia (fonte: Feltrinellieditore.it)

Nasce così il mito del «miliardario rosso» che diverrà un giorno quello del «miliardario guerrigliero». Di questo patrimonio si occuperà per alcuni anni; sembra con buoni risultati. Quindi si stanca, affidando la maggior parte delle sue imprese a manager intraprendenti (negli ultimi tempi, convinto che il Paese debba cadere sotto una dittatura di destra, pare abbia trasferito molti capitali all’estero). In casa è disordinato, negato agli orari, un po’ sciatto. Non gli piace vestir bene: l’ideale, per lui, sono un paio di pantaloni di tela e una vecchia camicia rattoppata. Quando viaggia, scende in alberghi di seconda categoria. Tra i suoi hobbies del momento: scattare fotografie.

La prima moglie (cui debbo parte delle notizie sul Feltrinelli di quegli anni) ne possiede centinaia. Altre passioni: le armi e la vela (è un ottimo timoniere). Lo si incontra alle manifestazioni del PCI, tra i diffusori domenicali dell’Unità, fra le squadre di giovani che tappezzano Milano di manifesti comunisti. La madre gli chiede: «Ma perché non ti limiti a pagare qualcuno che vada ad attaccare manifesti per conto tuo?». «No, debbo farlo io, altrimenti diventerei un estraneo per i compagni», replica lui: il consueto stato d’animo del ricco che tenta di far dimenticare la sua posizione sociale all’interno di un partito proletario.

È capace di esplodere in tempestose sfuriate o di lasciarsi guidare con remissività infantile. C’è chi afferma che egli non sia mai cresciuto del tutto. Un enorme potere economico finisce così col trovarsi nella mani di un uomo psicologicamente insicuro. E forse è questa insicurezza che lo spinto verso il PCI, il partito che ha una risposta per ogni cosa. Quelli che si chiudono verso il ’56 sono in ogni caso fra i suoi anni più producenti: prima la fondazione della Biblioteca e dell’Istituto Feltrinelli di Storia del movimento operaio, in seguito la Casa editrice con l’autobiografia di Nehru come primo libro in vendita. Acquista per 15 milioni l’archicio di Tasca, l’ex-dirigente comunista che ha lasciato il partito nel ’29 perché in disaccordo con Stalin. Feltrinelli però tradisce la fiducia di chi glielo ha ceduto e consegna a Togliatti i documenti più scottanti sui rapporti tra comunisti italiani e sovietici.

«GLI AMICI? IMPORTANTE AVERNE DI VERI, MA NON AVREI IL TEMPO DI DEDICARMI A LORO»

L’inaugurazione della libreria Feltrinelli di Pisa, che fu la prima ad aprire nel 1957 (Feltrinellieditore.it)

Personalmente non è un uomo di grande cultura: i libri li sfoglia più che leggerli, la sua intelligenza è soprattutto intuitiva. Nei confronti del mondo culturale italiano (di cui diventa, come editore, uno dei principali esponenti) rivela un atteggiamento bivalente, in pieno accordo col suo carattere: ora accettando docilmente il ruolo di semplice procacciatore di denaro, ora reagendo con sgroppate inattese, pretendendo il ruolo di protagonista. Crea e scioglie amicizie. Dalla sua casa editrice passano Bassani, Dossena, Spagnol, Filippini, Riva. I rapporti coi suoi vicini collaboratori hanno a volte (la definizione è di un suo dirigente editoriale, Nanni Filippini) il carattere di un «cameratismo rissoso».

Uno scrittore lo definisce mecenate e lui reagisce prendendolo a pugni. Ma è pure sensibile all’adulazione, salvo disprezzare chi si piega a questo rito. Rispetta soprattutto chi non gli chiede niente, anche se non sa sottrarsi a chi cerca di sfruttarlo. Un amico lo descrive così: «Era il principe dei tempi moderni. Mai togliergli i giocattoli di mano! Allora diventava crudele e duro. Non collegava le sue idee generose a un eguale rispetto per gli esseri umani. Anticipò di vent’anni la contestazione borghese dei giovani d’oggi». Un altro racconta: «Abbracciava tutte le posizioni ideali con frenesia priva di discernimento». Quasi tutti finivano, prima o dopo, per litigare con lui. Renato Mieli, un giorno, gli dice: «Posso parlarti con franchezza? Ti occorrono amici che ti diano torto». Feltrinelli: «È giusto, sarebbe importante avere amici veri. Ma io non ho tempo per dedicarmi a loro». Emotivamente sensibile al discorso sull’amicizia, non era sempre capace di tradurlo in pratica.

Se ciò è vero, si spiegherebbero certe sue improvvise umiltà. Lo ricordo durante una cena, attorno a Brera, con alcuni scrittori della sua Casa: fu garbato, tranquillo, silenzioso, con una vena di timidezza negli occhi, attento a non sopraffare nessuno, al punto da non pretendere, alla fine, di pagare per tutti. Si infiammò soltanto (si era nel ’65) al discorso sul Vietnam.

UN EDITORE DI FAMA INTERNAZIONALE

La premiazione dello Strega nel 1959 per Il Gattopardo (Feltrinellieditore.it)

Il divorzio dalla prima moglie, Bianca Dalle Nogare, è del ’56. Lei è forte di carattere, Feltrinelli ne subisce l’influenza, ma è incapace di una vera disciplina coniugale. Ambedue, dopo la rivolta di Budapest, abbandonano il PCI. Ma con destini politici diversi: Feltrinelli si lascerà attrarre dall’estremismo di sinistra, Bianca Dalle Nogare si sposterà verso posizioni di riformismo democratico. Anche per Feltrinelli si apre comunque una pausa moderata. In una lettera del ’58 alla prima moglie parla della sua uscita dal PCI: «Non è una decisione facile, né prima né dopo e tra le persone che vedo attorno a me molte sono quelle che non reggono». Inge Schönthal, la terza moglie, gli dà un figlio quando lui è già convinto di non poterne avere. L’uomo se pure per breve tempo, cambia pelle: è l’epoca dei ricevimenti mondani al castello di Villadeati o delle feste nella villa del Garda.

Feltrinelli torna ad occuparsi, direttamente, del suo patrimonio, lavora dodici ore al giorno, fissa appuntamenti impossibili alle sei di mattina. Si nota soltanto che beve un po’ la sera, ma per il resto sembra destinato a rientrare nell’alveo imprenditoriale familiare. La pubblicazione del Dottor Zivago (dovuta anche alle pressioni di Bianca Dalle Nogare, con cui ha conservato rapporti di amicizia) e del Gattopardo (dovuta al fiuto dei suoi collaboratori) ne hanno fatto un editore di fama internazionale. I suoi baffi spioventi e gli occhiali cerchiati di tartaruga (senza, non vede nulla), appaiono sui giornali di tutto il mondo. Ha anche una parentesi beat, con le fotografie su Vogue, avvolto in un prezioso cappotto di lontra che ne fa una specie di D’Annunzio coi baffi.

Inge Schönthal dice che gli anni da lei passati con Feltrinelli furono «meravigliosi». Secondo la donna, la Casa editrice è la cosa che egli amava di più, «quella che va conservata dopo la sua scomparsa». Sibilla Melega vivrà invece il periodo più agitato: quello dei continui spostamenti di Paese in Paese. Feltrinelli viaggiava con le tasche gonfie di orari aerei.

LA «CONVERSIONE» DEGLI ANNI SESSANTA

Feltrinelli a Cuba da Fidel Castro

Almeno fino al ’59 non pensava ancora alla guerriglia: in quell’anno accompagnai da lui due rappresentanti del Fronte di Liberazione algerino, che volevano far uscire in Italia un libro di denuncia anti-francese (La pacificazione, di Hafid Keramane), ma egli esitò a lungo prima di accettarlo. Lo rividi qualche mese dopo: si parlò di un suo progetto per una rivista settimanale fiancheggiatrice del centro-sinistra che si stava preparando.

L’uomo, tuttavia, non è tranquillo. Sotto la maschera manageriale che si è imposta covano infelicità, rivolte, solitudini, nevrosi, velleità confuse che lo condurranno alla svolta della guerriglia. La nuova conversione si consuma negli anni sessanta e lo porterà, via via, a Cuba da Fidel Castro, in Bolivia sulle tracce di Che Guevara e di Régis Debray, all’adesione all’estremismo extra-parlamentare più acceso, alla pubblicazione degli scritti di Lin Piao, del guerrigliero brasiliano Carlos Marighella, dei Diari dei Tupamaros, infine all’esilio poco prima della strage milanese di piazza Fontana nel dicembre ’69. È in lui un crescendo del delirio rivoluzionario, un attacco generalizzato al sistema in quanto tale o perché (insiste Feltrinelli) è in vista un colpo di Stato di destra. Su questa nuova strada, continua imperterrito, incurante della condanna dello stesso partito comunista o dell’ostilità degli operai che non credono alla rivoluzione predicata dall’alto di troppi soldi.

Vista l’importanza del personaggio, le voci su Feltrinelli si moltiplicano. C’è chi afferma, adesso, che sia tra i finanziatori dell’estrema sinistra. Lo troviamo ai comizi di Lotta continua, di Potere operaio, della Unione Marx-Leninista, in mezzo alla folla dei nazimaoisti in tutte le possibili gradazioni. Le ragioni di questa sua ultima scelta vengono vivisezionate. E un ritorno al vitalismo degli anni di guerra e del dopoguerra, un modo per dire ai giovani contestatori, da parte di questo quarantenne insoddisfatto, «aspettatemi, guardate che ci sono anch’io?» È il bisogno di una continua verifica di sé? O Feltrinelli non ha capito in materia di rivoluzione le lezioni della storia?

LA «SCOMPARSA» DALL’ITALIA PRIMA DI PIAZZA FONTANA

Giangiacomo Feltrinelli e Sibilla Melega

Forse un po’ di tutto questo: senza dimenticare lo choc subito in Bolivia quando tentò di portare appoggio e denaro a Debray, il giornalista francese processato per aver dato aiuto a Guevara. Non era molto abituato a viaggiare da solo. In Bolivia andò con Sibilla Melega. Fermato perché sospetto di aver voluto contattare i guerriglieri boliviani, restò in carcere soltanto quarantotto ore, prima del rilascio e dell’espulsione. Ma l’esperienza lo colpì profondamente, lo toccò da presso. Fu interrogato quasi ininterrottamente, «messo alla griglia», come si dice in gergo. Non ebbe alcuno di quei vantaggi che in genere il nostro sistema democratico, da Feltrinelli così disprezzato, offre perfino ai propri avversari. Abituato a battersi contro i mulini a vento delle sue fantasie, si trovò, per la prima volta, a contatto con la realtà vera della guerriglie e della repressione Ne uscì pieno di amarezza e di odio.

Avrebbe dovuto comprendere la differenza tra la Bolivia e il nostro Paese, fra le Ande e la pianura padana. Non fu così, purtroppo. La sua fede nella guerriglia andava al di là della ragione: si limitò ad applicare meccanicamente lo schema boliviano all’Italia. Solo che da noi la guerriglia non ha ragione d’essere. Feltrinelli divenne pertanto ciò che era: un guerrigliero fuori tempo e senza radici. Scattò la molla che doveva perderlo.

Fu il 4 dicembre 1969, esattamente otto giorni prima della strage di piazza Fontana, che Gian Giacomo Feltrinelli decise di «scomparire» dall’Italia. Alle 15 di quel giorno aveva discusso con uno dei suoi legali, l’avvocato Valerio Mazzola, sulla convocazione ricevuta dal giudice istruttore Amati a proposito di un volantino ciclostilato diffuso da una organizzazione anarchica internazionale e trovato presso di lui. Era una faccenda di per sé abbastanza innocua che non avrebbe dovuto preoccuparlo molto.

«NON SO QUANTO STARÒ VIA: FORSE UN ANNO, FORSE PER SEMPRE»

Il bandito sardo Graziano Mesina

Invece Feltrinelli ne fu sconvolto. Era persuaso che quell’interrogatorio fosse la prima mossa di una diabolica macchinazione del «potere» e in particolare di due funzionari della questura che considerava suoi nemici personali, per «incastrarlo». Senz’altro aveva qualche motivo di preoccupazione: ormai da oltre due anni e precisamente dal suo ritorno dalla Bolivia, nell’agosto 1967, aveva praticamente smesso di fare l’editore e l’industriale per trasformarsi in un araldo della guerriglia di estrema sinistra. Aveva scritto cose di fuoco: «Dobbiamo organizzare le avanguardie marxiste-leniniste. Dobbiamo costituire cellule e comitati di resistenza. Dobbiamo sviluppare una vera e propria guerriglia politica».

Sembra certo che avesse offerto grosse somme di denaro a Graziano Mesina, il capofila del banditismo sardo e al suo collega Campana per dare vita nell’isola a un movimento armato separatista con l’assistenza attiva di guerriglieri palestinesi. È possibile che, durante quell’agitato 1969, fosse stato più o meno coinvolto anche in altre vicende non del tutto legali. Perciò uscito dall’ufficio di Mazzola visitò immediatamente un altro suo legale e uomo di fiducia: «Me ne vado», gli annunciò. «Non so ancora quanto starò via, forse un anno, forse per sempre. D’ora in avanti, i nostri contatti saranno molto saltuari. Ma tu e gli altri avete tutta la mia fiducia, avete piena libertà di fare e disfare». L’avvocato cercò di fargli capire la follia di quella sparizione, ma non ci fu nulla da fare. Feltrinelli sembrava spinto da una forza più grande di lui.

Sulle prime, nessuno si accorse della sua partenza, perché i suoi viaggi all’estero erano sempre stati frequentissimi. Ma quando cominciarono le indagini per la bomba della Banca dell’Agricoltura, il suo nome affiorò e i giornalisti lo cercarono. La signora Inge Schönthal, sua terza moglie e vice-presidente della Casa editrice, rispose che la sua assenza era «normalissima», dovuta a ragioni di lavoro e che nessuno ne era minimamente preoccupato. Solo oggi sappiamo che la signora non diceva tutta la verità.

LA VILLA IN CARINZIA

Un primo piano di Sibilla Melega

Il collegamento principale tra il nome Feltrinelli e gli eventi di piazza Fontana fu una frase che il cognato Carlo, fratello della sua quarta moglie Sibilla Melega, si era lasciato sfuggire in un bar di Grisignano di Zocco (Vicenza) alla vigilia dell’esplosione dopo aver bevuto: «Domani sui giornali leggeremo di un fatto sensazionale…». Per vario tempo si sospettò che Carlo Melega (il quale peraltro risultava essere uomo di destra) ne sapesse qualcosa di più e che questo qualcosa lo avesse appreso da Feltrinelli. La pista fu poi abbandonata. Adesso, tuttavia, essa è tornata interessante: è risultato, infatti, che la carta di identità falsa, intestata al fantomatico Vincenzo Maggioni e trovata sul cadavere di Feltrinelli, fu rubata proprio in quel periodo in un paese a poche decine di chilometri da Grisignano.

Quando esplose la bomba di piazza Fontana, Feltrinelli era comunque già lontano almeno per quanto ci risulta. La sua prima tappa, dopo aver lasciato il modesto appartamento di via del Carmine 7 dove viveva con Sibilla, fu la villa di Oberhof-Mohring in Carinzia, una costruzione di stile bavarese di otto stanze mezza in pietra e mezza in legno circondata da mille ettari di foresta. Durante i 28 mesi intercorsi tra la partenza da Milano e la morte, questa villa è rimasta la sua base principale, il luogo dove ritornava con una certa regolarità fra una peregrinazione e l’altra, e uno dei recapiti postali da lui indicati ai collaboratori. Qui Feltrinelli e Sibilla conducevano la vita dei grandi signori di campagna; avevano tre automobili, una Citroen, una Porsche e una Mini Cooper; ricevevano molta gente dall’aspetto distinto con cui si recavano spesso a pranzo o a cena in un ristorante del vicino paese di Friesach.

Tuttavia Feltrinelli, che pure parlava perfettamente il tedesco, raramente si intratteneva con la gente del luogo; questa lo vedeva andare e venire, solo di tanto in tanto accompagnato da Sibilla che soprattutto durante i mesi invernali preferiva rimanersene nella villa situata a circa mille metri di altezza e sciare.

«ISRAELE? UN PAESE INTERESSANTE»

Pubblicazione della casa editrice Feltrinelli dedicata alla figura di Rudi Dutschke e al movimento studentesco berlinese (grazie a Gianluca Falanga)

Ma a Oberhof l’editore ospitò anche per un certo tempo il rivoluzionario tedesco Rudi Dutschke dopo l’attentato subito a Berlino. E alcuni mesi fa si rivolse all’avvocato Amhof (un uomo di sinistra che tuttavia difese anche i terroristi altoatesini per gli attentati ai tralicci e che sembra abbia avuto una notevole influenza su di lui) perché lo aiutasse a rilevare l’intera proprietà riscattando la parte degli altri soci. Voleva forse servirsi della tenuta, abbastanza isolata e immensa, per qualcuno dei suoi disegni di aspirante Guevara europeo?

Ma la maggior parte del tempo Feltrinelli l’ha trascorsa in giro per il mondo, spinto dalla sua crescente irrequietezza e dall’ansia di inserirsi in qualche modo nei vari movimenti rivoluzionari. Ricostruire tutte le tappe, sapere con chi entrò in contatto e come spendeva il denaro, sarebbe molto importante, ma i punti fermi sono pochi, anche perché è pensabile che egli viaggiasse con altri nomi e documenti e forse (almeno nei Paesi europei che se ne accontentano) con quella stessa carta d’identità che gli è stata poi trovata addosso.

Sappiamo che tra il 1970 e il 1971 ha visitato ancora una volta Cuba ed è stato in Israele («un Paese molto interessante», ha detto a un amico), quasi certamente nella Corea del Nord e forse nella Cecoslovacchia e nell’America del Sud. Spesso è stato visto a Parigi, dove frequentava il caffé dei Deux Magots di St. Germain-de-Prés, noto ritrovo di gauchistes; e ad Amsterdam, dove si recava spesso all’Istituto di Scienze Sociali, e soprattutto in Germania, dove ebbe numerosi contatti con l’avvocato Mahler, l’uomo che diede poi vita alla banda Baader-Meinhof che sta ripetendo in Germania le gesta dei Tupamaros. A Berlino aveva trovato, nella piccola casa editrice di Klaus Wagenbach, una specie di succursale tedesca della Gian Giacomo Feltrinelli Editore che ripubblicava tutti i suoi manuali sulla rivoluzione.

L’OMICIDIO DEL CONSOLE BOLIVIANO QUINTANILLA

Il console boliviano Roberto Quintanilla

Mentre in Italia, Feltrinelli e Sibilla Melega venivano assolti con formula piena dall’accusa di complicità con gli anarchici accusati degli attentati del 25 aprile 1969 alla Fiera di Milano, due volte egli è stato coinvolto all’estero in vicende poco chiare. La prima fu a Beirut, all’inizio del 1971, quando i servizi segreti israeliani, piazzando opportunamente certi microfoni, ebbero la prova che l’editore stava procurando una partita di armi ai guerriglieri palestinesi. La seconda fu ad Amburgo, il primo aprile del medesimo anno, quando una misteriosa donna bionda, che si presentò come una turista australiana, assassinò con tre colpi di pistola il console boliviano Roberto Quintanilla, ex-capo della polizia politica di La Paz sospettato di aver partecipato all’uccisione di Che Guevara e probabilmente anche responsabile degli interrogatori subiti da Gian Giacomo Feltrinelli durante il suo arresto in Bolivia.

In una colluttazione con la segretaria e la moglie di Quintanilla, l’omicida, prima di fuggire, perse la borsetta, una parrucca bionda e l’arma del delitto, una pistola Colt Cobra, calibro 9, che risultò acquistata da Feltrinelli a Milano tre anni prima. La polizia tedesca credette di poter identificare l’assassina in una certa Monika Ertl, una «pasionaria» tedesca appartenente all’esercito di liberazione boliviano e legata sia a Feltrinelli sia all’avvocato Mahler: ma tutte le ricerche della donna risultarono vane. Né più fortunata fu la caccia a Feltrinelli che, a quanto pare, il primo aprile si trovava proprio ad Amburgo ed era poi riparato in Svezia.

Ma bisogna dire che per una qualche ragione le ricerche non furono spinte molto a fondo: per quanto ci risulta, l’Interpol non fu mai interessata e la magistratura germanica si limitò a trasmettere a quella italiana, attraverso i canali diplomatici, una richiesta di interrogare Feltrinelli rimasta ovviamente inevasa. Feltrinelli stesso, interrogato poco tempo fa da un amico sul mistero della rivoltella, avrebbe detto di averla smarrita in Israele (ma è un po’ strano che egli andasse in giro per il mondo con quest’arma da guerra, la cui importazione senza speciale licenza è vietata in tutti i Paesi). In proposito la stampa di sinistra ha detto: «Implicare Feltrinelli nel delitto di Amburgo è assurdo. Nessuno che voglia commettere un assassinio lo “firma” in quel modo. Se mai si tratta di un tentativo dei suoi avversari per comprometterlo». Tuttavia bisogna osservare due cose: anzitutto che Feltrinelli era un uomo relativamente ingenuo e poteva anche non sapere che le autorità avrebbero rintracciato le origini dell’arma: in secondo luogo che l’assassina non ha abbandonato l’arma del delitto intenzionalmente, ma solo perché costretta da circostanze impreviste.

«SE MAI TROVERANNO UN CADAVERE SOTTO UN PONTE, QUELLO SARÒ IO»

Il traliccio di Segrate nei pressi del quale venne ritrovato il corpo senza vita dell’editore

Quante volte, negli ultimi 28 mesi, è tornato in Italia dove dopo l’assoluzione nel processo per i fatti del 25 aprile 1969 non c’erano più, contro di lui, procedimenti penali che comportassero l’arresto? I suoi amici rispondono: «Per quanto ne sappiamo, mai. Quando avevamo bisogno di lui, gli scrivevamo ai quattro o cinque indirizzi che ci aveva dai e dopo qualche tempo, attraverso la posta o una misteriosa telefonata anonima, ci arrivava una convocazione in qualche località straniera». Il primo di questi incontri avvenne a Parigi all’inizio del 1970, in un alberghetto poco noto. Ne seguirono altri sei o sette, a intervalli irregolari, alla stazione ferroviaria di Bellinzona, in una trattoria di Chiasso, in un ristorante di Lugano, all’aeroporto di Zurigo. Feltrinelli arrivava sempre da solo, vestito in maniera trasandata, talvolta con la barba lunga. Si faceva illustrare i problemi delle sue aziende, controllava i conti, e quando si parlava di cose sindacali, dava spesso un consiglio poco compatibile con il suo credo rivoluzionario: «Licenziate quei piantagrane».

Aveva sempre l’ossessione di un colpo di Stato di destra e di una colossale macchinazione ordita contro di lui. Dietro ogni angolo vedeva agenti della CIA e temeva di fare da un momento all’altro una brutta fine. A uno dei suoi legali, che il 21 dicembre scorso all’aeroporto di Zurigo lo esortava a riprendere a Milano la sua vita normale, rispose: «Fate presto voi a parlare. Siccome non c’è mandato di cattura contro di me, credete io possa stare tranquillo. Ma non è del sistema in cui siete abituati ad operare voi che io ho paura. Se ritorno in Italia siete in grado, voi, di garantire la mia incolumità fisica?». In un’altra occasione, disse a un amico: «Se mai troveranno un cadavere nudo, irriconoscibile, sotto un ponte, quello sarò io».

Una sera, dopo un incontro a Chiasso, un altro collaboratore gli propose di tornare in macchina con lui a Milano a vedere il figlio Carlino: «Neanche per sogno», fu la risposta; «non possono correre questo rischio». Ma a questi collaboratori fidati rifiutava ostinatamente di dire che cosa facesse, perché si sentisse braccato e da che direzione venissero i pericoli che lo minacciavano. A loro parlava solo di certe ricerche sul movimento operaio che continuava disordinatamente a fare in vista di una futura «grandiosa opera» e occasionalmente affidava i manoscritti per il suo nuovo mensile Voce comunista, in cui predicava con anche maggior violenza di un tempo la lotta contro la coalizione delle destre preannunciando un suo intervento «più diretto» nella politica italiana.

«L’ULTIMA VOLTA CHE L’HO VISTO? HO PENSATO SI SAREBBE UCCISO»

Giangiacomo Feltrinelli e Sibilla Melega durante una manifestazione (Epoca, 23 marzo 1972)

Nell’incontro di Zurigo chiese anche ai suoi procuratori di iniziare le pratiche per la donazione al figlio Carlino del castello di Villadeati, ma gli fu risposto che per un’operazione simile la semplice procura generale non bastava e che doveva scegliere tra una serie di pratiche legali complicatissime e una rapida visita in Italia. Feltrinelli optò per la prima soluzione, ma a causa di un errore materiale nella stesura in un documento non riuscì a portare a termine il trasferimento di proprietà prima della sua scomparsa. Alla fine di questi convegni, che duravano talvolta quattro o cinque ore, l’editore se ne andava solo nella notte, sempre più curvo, sempre più cupo, sempre più disperato. Mi ha detto uno degli uomini che lo hanno incontrato più spesso e che lo conosceva da più di vent’anni: «Da una volta all’altra l’ho visto gradualmente deperire sul piano fisico, sia su quello psichico. L’ultima volta che l’ho incontrato ho provato vivissimo il timore che presto si togliesse la vita».

L’ultimo degli incontri «ufficiali» avvenne il 13 febbraio a St. Moritz con il direttore dell’Istituto Gian Giacomo Feltrinelli, professor Del Bo. «Le condizioni di salute di Feltrinelli», ci ha detto lo studioso, «erano molto precarie. Aveva avuto più di 40 di febbre e adesso si ritrovava con 75 di pressione. Per tirarsi su, quando sono arrivato, si è cacciato in bocca una manciata di sale». Da St. Moritz Feltrinelli ritornò a Oberhof, dove si mise a letto per un attacco di broncopolmonite. «Mio marito», ci ha detto Sibilla Melega, «rimase con me fino al 27 febbraio, poi, per quanto fosse ancora piuttosto debole, partì con l’intesa che sarebbe ritornato per Pasqua. Come sempre, non mi disse né dove sarebbe andato né cosa avrebbe fatto. Ricevetti ancora una cartolina da lui il 4 marzo poi più nulla, fino a quando giovedì scorso mentre ero nello studio del mio legale a Milano ho appreso dalla radio la notizia del ritrovamento del suo cadavere».

Lasciamo a Sibilla Melega la responsabilità delle sue dichiarazioni, ma dobbiamo aggiungere due cose. Primo: un giovanotto di Oberhof-Mohring assicura di aver ancora visto Feltrinelli e la moglie a bordo della loro Mini-Cooper meno di una settimana prima della tragica fine dell’editore. Secondo: quando si va da un legale, in genere, non si passa il tempo a sentire la radio se non si ha ragione di attendere una notizia molto importante.

LE «RIUNIONI» CON ESTREMISTI DI SINISTRA

Una immagine giovanile di Inge Schönthal

Inge Schönthal, dal canto suo, ha detto a Epoca di avere visto per l’ultima volta l’ex marito il 21 dicembre, al convegno di Zurigo di cui abbiamo già parlato. Ma da due fonti sicurissime ci risulta che essi avevano uno dei loro periodici appuntamenti per la mattina di mercoledì 15 marzo, il giorno stesso in cui Feltrinelli fu ritrovato cadavere ai piedi del traliccio di Segrate. La signora doveva portargli, come al solito, il figlio Carlino cui lo scomparso era molto affezionato. Egli arrivava sempre puntualissimo a questi incontri, ma quel giorno la signora Inge Schönthal lo aspettò invano per otto ore in una località sul confine tra Italia e Svizzera e ritornò poi preoccupatissima a Milano.

Ma mentre diceva ai collaboratori che per lui l’aria italiana era diventata irrespirabile, in realtà in Italia veniva e anche abbastanza spesso. Talvolta era per incontrare la signora Inge e il figlio, più spesso per vedere altra gente. Per esempio nella seconda metà dello scorso anno passò alcuni giorni presso il famoso «pittore monco» Zigaina, nel Veneto. Durante il mese di ottobre fece colazione con un amico avvocato in un ristorante milanese. Non molto prima di Natale fu ospite di amici in una casa del Tigullio. Ma le visite furono probabilmente ancora più numerose e c’è chi assicura di averlo visto in un locale notturno di Milano ancora il 19 febbraio, la sera di sabato grasso (anche se, in quel periodo Sibilla sostiene fosse in Austria).

Queste segnalazioni sono del tutto «innocenti»: Feltrinelli infatti come abbiamo detto era libero di andare dove voleva e se non veniva in Italia alla luce del sole era solo per la sua mania di persecuzione. Ma c’è motivo di credere che agli incontri conviviali ne alternasse altri di diversa natura. Un informatore di cui non possiamo né rivelare il nome né garantire l’onestà, ci ha detto testualmente: «Feltrinelli partecipò, nel novembre scorso, a una riunione di estremisti di sinistra nel Pavese. Fu una cosa caotica, piuttosto inconcludente, in cui si sarebbero dovuti mettere giù dei grandiosi piani rivoluzionari e che invece finì in una grande litigata. Il succo dell’intervento di Feltrinelli fu che in tutta Europa si stavano mettendo le basi per una guerriglia che non avrebbe dato respiro ai governi oppressori della destra. Parlò con grande ammirazione dei Tupamaros tedeschi e disse che anche in Italia si sarebbe dovuto emularne le imprese. Nessuno degli altri lo prese molto sul serio».

L’ACCUSA DI VOLER DARE SOLO «QUALCHE SOLDO»

Un paio di altre segnalazioni di questo tipo, anonime e incontrollabili, ci sono pervenute dopo. Infine, una riunione tra Feltrinelli e la sinistra extraparlamentare, in particolare con rappresentanti di Lotta continua, Potere operaio, Avanguardia operaia e Lotta comunista si sarebbe svolta venerdì 10 marzo, cioè 24 ore prima degli ultimi tragici disordini di Milano. Durante questo convegno, alcuni «rivoluzionari» avrebbero rinfacciato a Feltrinelli di limitarsi a dare «qualche soldo» (e comunque troppo pochi) alla causa, invece di partecipare direttamente all’azione.

Una sola cosa è certa: gradualmente, ma inesorabilmente, durante i 28 mesi trascorsi nella clandestinità, Gian Giacomo Feltrinelli si è infognato con elementi sempre più esaltati e sempre più infidi. Con ogni probabilità fu con qualcuno di costoro (o perlomeno con la attiva complicità di qualcuno di costoro) che la notte tra il 14 e il 15 marzo si recò a Segrate per fare saltare un traliccio dell’alta tensione. Se costoro erano rivoluzionari convinti oppure — come insinuano gli amici di sinistra dell’editore — agenti provocatori che lavoravano da lungo tempo per «incastrare» Feltrinelli, ce lo potrà dire solo l’inchiesta ufficiale.

Ma questi stessi amici ammettono: «Era certamente gente che Feltrinelli conosceva da molto tempo e di cui si fidava ciecamente. Perché nonostante una sua certa fragilità intellettuale, non era uomo da accordare la propria fiducia in una questione simile al primo venuto».