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Commissionare la propria morte a un dodicenne. Il delitto di Giarre

Redazione Spazio70

Il caso si chiude come la drammatica vicenda di due persone ormai incapaci di sopportare gli scherni e i pregiudizi degli abitanti del paese

Giarre, provincia di Catania, costa orientale della Sicilia. È il 31 ottobre 1980. Nella verdeggiante periferia del paese due cadaveri in decomposizione giacciono mano nella mano in un agrumeto abbandonato, all’ombra di un albero di limoni. A dare l’allarme è un pastore della zona imbattutosi accidentalmente nel macabro spettacolo.

I corpi, forati al cranio da alcuni proiettili esplosi a distanza ravvicinata, si trovano lì da almeno dieci giorni; appartengono al venticinquenne Giorgio Agatino e ad Antonio Galatola, detto Toni, di soli quindici anni. Soprannominati «i ziti», i due sono noti a tutti in paese poiché legati da una relazione omosessuale. La loro scomparsa era stata denunciata in data 17 Ottobre.

Un triste biglietto di addio rivenuto nella tasca di uno dei giovani lascerebbe pensare ad un suicidio, tuttavia, l’arma del delitto viene ritrovata sotto terra ad alcuni metri dai cadaveri. Gli inquirenti risalgono rapidamente al piccolo Francesco, nipote dodicenne di Agatino. Dopo ore di interrogatorio il bambino ammette di essere l’esecutore materiale del duplice omicidio: «Sì, li ho uccisi io. Li ho incontrati per caso più di dieci giorni fa. Mi dissero di seguirli in campagna, Agatino estrasse la pistola. Volevano che li ammazzassi. Io dissi subito di no. Tremavo come una foglia, ma loro insistettero, minacciarono di ammazzarmi se non l’avessi fatto. Mi pareva di sognare. Temevo che mi avrebbero ammazzato davvero, allora presi la pistola, mi avvicinai e cominciai a premere il grilletto. Poi sotterrai l’arma e fuggii…»

«SPARA BENE, PERCHÉ SE DOPO CI RIALZIAMO TI AMMAZZIAMO NOI»

La pistola impiegata per uccidere i due amanti è una Bernardelli 7,65. «La vedi questa? Non ti spaventare. Devi solo sparare un colpo per ciascuno alla testa, poi torna a casa e non parlarne con nessuno, ma tanto, in ogni caso, non potranno farti niente». Così, stando alla versione del fanciullo, il venticinquenne si sarebbe rivolto al nipotino intimorito, aggiungendo: «Ma se dopo ci rialziamo stai sicuro che ti ammazziamo noi». Per incoraggiare il dodicenne a sparare, lo zio avrebbe fatto dono del proprio orologio al piccolo killer.

Il caso si chiude come la drammatica vicenda di due persone ormai incapaci di sopportare gli scherni e i pregiudizi degli abitanti del paese, tanto da commissionare la propria morte ad un minore di quattordici anni, dunque un individuo non perseguibile legalmente. Tuttavia, due giorni dopo, il ragazzino ritratta, affermando di essere stato schiaffeggiato dai carabinieri, i quali avrebbero estorto con la forza quella versione dei fatti. Lo riferisce Francesco ad un giornalista de «L’Ora» di Palermo: «Per la paura mi sono fatto pure la pipì addosso!», aggiunge.

Interviene anche il padre del presunto assassino: «Mio figlio non ha commesso il duplice omicidio. Ad un bambino come Francesco non riesce possibile esplodere tanti colpi di pistola calibro 7,65. Dopo il primo colpo, il braccio non gli avrebbe più risposto. Invece mi si dice che sono stati sparati sette colpi!»

Gli inquirenti, tuttavia, non ritengono credibile la ritrattazione, sostenendo che l’ammissione di colpevolezza rappresenti la verità dopo una serie di versioni contraddittorie sostenute dal ragazzo nel corso degli interrogatori.