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Maurizio Giugliano, il «lupo dell’agro romano» (prima parte)

Matteo Picconi

«Da piccolo ammazzava le pecore e io avevo paura che da grande avrebbe ammazzato i cristiani. Quando aveva quattordici anni vegliavo i bambini più piccoli, perché avevo paura che li ammazzasse»

Il nostro Paese ha una discreta tradizione in tema di assassini seriali. Solitamente si tratta di personaggi intorno ai quali la certezza della loro colpevolezza è fuori discussione, basti pensare alle vicende di Roberto Succo o Donato Bilancia; in altri casi, invece, tale certezza non sempre ha trovato pieno riscontro in sede giudiziaria e il giallo del Mostro di Firenze ne costituisce senza dubbio l’esempio più eclatante. Anche la vicenda intorno a Maurizio Giugliano è da inquadrare tra questi ultimi. Pur essendo annoverato tra i serial killer più spietati d’Italia, il caso Giugliano è piuttosto singolare: è stato accusato di aver ucciso almeno sei donne tra il luglio del 1983 e il gennaio del 1984; se si escludono le sue confessioni, però, non sempre sono state fornite prove sufficienti circa il suo coinvolgimento in tutti questi efferati delitti. Tuttavia la figura del «lupo dell’agro romano», come venne ribattezzato dalla stampa, è rimasta negli annali della peggiore cronaca nera. Affetto da disturbi psichici e comportamentali, reduce da un’infanzia e un’adolescenza segnate dalla violenza, Giugliano aveva forse il profilo perfetto del serial killer, ma che fosse lui il «mostro» delle campagne romane non è mai stato pienamente dimostrato.

«MAURIZIO ERA STRANO»

Maurizio Giugliano nei primi anni ’80

Quando nel 1984 la figura dell’allora ventiduenne Maurizio Giugliano viene accostata alle misteriose morti avvenute nei mesi precedenti, i principali organi di stampa contribuirono non poco a costruire l’immagine del mostro. Di certo, i trascorsi di Giugliano, giovane dal passato difficile e con alle spalle alcuni precedenti penali per reati commessi fin dalla minore età, ebbero un peso non indifferente a livello mediatico. Nato il 7 giugno 1962 ad Acciarella, piccolo sobborgo in provincia di Latina, Maurizio è figlio di due agricoltori che oltre a lui hanno altri tre figli. La sua vita sembra complicarsi già alla nascita: durante il parto si ricorre all’uso del forcipe che, stando a quanto ipotizzato dalle perizie redatte negli anni successivi, ne avrebbe pregiudicato il suo sviluppo a livello neurologico. È un bambino difficile il piccolo Giugliano, con problemi psicomotori e di malnutrizione, che inizia a parlare tardivamente, alla soglia dei quattro anni. Nel 1970, poi, un altro tragico evento segna irrimediabilmente la sua esistenza.

«Maurizio», ha dichiarato il fratello Roberto Giugliano in un’intervista rilasciata a L’Unità il 7 aprile 1984, «da piccolo aveva subìto un incidente. A otto anni era stato investito da una macchina guidata da un carabiniere e da allora non ci stava più con la testa»

Stando a quanto riportato dai familiari, l’incidente rappresenta un punto di non ritorno. Seguono inspiegabili episodi di violenza tanto fra le mura domestiche quanto nei diversi collegi che la famiglia, data la condotta del piccolo Maurizio, è costretta a cambiare di continuo. Da introverso e silenzioso, Giugliano diviene infatti un bambino irrequieto e violento. Tra gli episodi riportati dalle cronache degli anni Ottanta, alcuni colpiscono per la ferocia: a un compagno di classe avrebbe cavato un occhio con una forchetta mentre, in altra occasione, avrebbe costretto un altro bambino a bere della varechina; in casa si accanisce con i fratelli e, soprattutto, con il padre, torturando e uccidendo gli animali allevati nel loro terreno. A dieci anni si rende protagonista di alcuni episodi di piromania, incendiando in almeno due occasioni i fienili e il camion del padre Italo il quale, non di rado, ricorre all’uso della forza per placare le intemperanze di quel figlio difficile.

È un’escalation di violenza la vita di Giugliano che subisce un’accelerazione nel passaggio all’adolescenza. I genitori lo fanno ricoverare più volte in diversi ospedali psichiatrici, dai quali il giovane Maurizio riesce sempre a fuggire. In quei primi anni Settanta, inoltre, la famiglia cambia anche luogo di residenza, trasferendosi dapprima nelle campagne intorno ad Anquillara Sabazia, poi a San Vittorino (poco a sud di Tivoli), per poi stabilirsi definitivamente nella Capitale. Spostamenti dovuti non tanto alle opportunità lavorative del padre Italo quanto invece al fatto che – come riferisce lo stesso fratello Roberto nella già citata intervista del 1984 – «Maurizio era strano».

«Da piccolo», ha dichiarato la madre di Giugliano, secondo quanto riportato in «Italia Giallo e Nera» dagli autori Emanuele Boccianti e Sabrina Ramacci, «ammazzava le pecore e io avevo paura che da grande avrebbe ammazzato i cristiani. Quando aveva quattordici anni vegliavo i bambini più piccoli, perché avevo paura che li ammazzasse».

«POTEVA ESSERE RECUPERATO»

Il carcere dell’Isola di Pianosa

Sadismo contro persone e animali, atti di piromania, il tutto accompagnato da gravi disturbi psichici, all’età di quindici anni Giugliano inizia a fare i primi conti con la giustizia. Nel 1977 viene arrestato con l’accusa di rapina e tradotto nel carcere minorile di Casal del Marmo. Scontato un breve periodo di detenzione, ci tornerà due anni dopo, con un’accusa molto più grave, quella di violenza carnale perpetrata ai danni di una quarantenne residente a Osteria Nuova, nei pressi di Anguillara. Per molti cronisti e criminologi, l’arresto del 1979 rappresenta un episodio cruciale, per certi aspetti scatenante, circa la metamorfosi di Giugliano da ragazzo problematico a presunto assassino seriale di donne.

«Appena poteva», si legge su La Stampa nell’edizione dell’8 aprile 1984, «quando in famiglia si sentiva maltrattato, il ragazzo scappava da quella donna, l’unica che riuscisse a dargli un po’ di affetto. Un affetto come da madre a figlio: proprietaria di un bar, più che quarantenne, la donna riusciva a calmare Maurizio Giugliano, a rabbonirlo. Tutto questo finché una sera il “mostro” si presentò come al solito e pretese di fare l’amore. Lei rifiutava, lo aveva sempre considerato come un ragazzo. Lui prima la massacrò di botte, poi la violentò».

Per Giugliano si riaprono le porte del carcere minorile romano e comincia ad essere seguito da diversi psichiatri. Viene elaborata anche la prima di tante perizie, redatta dal professor Massimo Ammaniti, che riconosce nel diciassettenne una grave distorsione della personalità, amplificata dai difficili contesti (familiari e sociali) in cui il ragazzo è cresciuto. A Casal del Marmo Giugliano tenta il suicidio provando ad impiccarsi; salvato per miracolo dagli operatori del carcere, viene dapprima trasferito al Santa Maria della Pietà, poi allo psichiatrico del San Filippo Neri. In tale istituto aggredisce gli agenti, evade ma viene riacciuffato nel giro di poche ore. Viene ricondotto a Casal del Marmo alla vigilia del processo per violenza carnale, in occasione del quale viene accolta solo parzialmente la perizia fornita dal professor Ammaniti: anziché destinare il ragazzo alle cure di una comunità di recupero per minorenni, Giugliano viene spedito per pochi mesi presso l’OPG di Aversa.

All’inizio del 1980 Giugliano non è solo incriminato per lo stupro di Osteria Nuova, ma viene contemporaneamente processato per altri reati che vanno dal furto alla ricettazione. Viene quindi condannato a una pena inferiore a due anni ma, raggiunta nel frattempo la maggiore età, passa dal carcere minorile a Rebibbia e, poco dopo, nella struttura penitenziaria dell’isola di Pianosa. In mezzo agli ergastolani, o comunque tra detenuti condannati a pene piuttosto lunghe, l’eventuale recupero del giovane Giugliano viene definitivamente abbandonato.

«Nel ’79», ha dichiarato lo psichiatra Ammaniti in un’intervista rilasciata a La Stampa il 10 aprile 1984, «Maurizio Giugliano poteva ancora essere recuperato ad una vita socialmente normale; o meglio, lo si sarebbe potuto fare se le leggi, e le strutture, avessero offerto almeno una possibilità».

Scontata la pena, Giugliano torna alla sua travagliata vita familiare nella nuova casa di Roma. Dura poco: ormai maggiorenne, conduce per almeno tre anni una vita da girovago, spostandosi di continuo con la sua roulotte tra i vari quartieri periferici della Capitale, vivendo di espedienti, piccoli furti, truffe, ricettazione. Conosce Rosa Bussaglia, una ragazza all’epoca ancora minorenne, con la quale intraprende un rapporto burrascoso per via dei frequenti litigi con i familiari di lei. Si sposano, mettono al mondo una bambina e convivono nella sua roulotte per qualche tempo, almeno fino alla primavera del 1984, quando Maurizio Giugliano diviene per la cronaca nazionale il «lupo dell’agro romano».

L’OMBRA DI UN SERIAL KILLER

A sinistra Lucia Rosa, a destra Thea Stroppa

Roma è una città dalla storia millenaria e una metropoli che in età contemporanea ha conosciuto una guerra mondiale, la corruzione, il terrorismo, la criminalità organizzata nonché innumerevoli fatti di cronaca nera. Eppure non ha mai avuto un suo serial killer, un mostro – almeno non accertato – come ce ne sono stati tanti in ogni angolo del mondo. Per cercare un «mostro di Roma» bisogna tornare indietro di quasi cent’anni, quando nell’Italia già fascista un fotografo e mediatore di trentotto anni, Gino Girolimoni, venne ingiustamente accusato di aver violentato sette bambine e di averne uccise cinque di esse, in un arco di tempo compreso tra il 1924 e il 1927. Si trattò di uno dei primi grandi errori giudiziari verificatisi nel secolo scorso. Vittima di una violenta e ingiuriosa campagna mediatica, nel 1928 Girolimoni risulterà del tutto estraneo agli eventi; tuttavia, per moltissimo tempo nella Capitale il suo cognome rimase sinonimo di depravazione e pedofilia, tanto fu il clamore mediatico che accompagnò la sua triste vicenda giudiziaria.

Restano ancora molti interrogativi, invece, per quanto riguarda il caso Giugliano e la sua presunta colpevolezza circa i sei fatti di sangue che sconvolsero la Capitale quasi quarant’anni fa. Sei donne uccise nell’arco di pochi mesi; tanti elementi in comune per quanto riguarda le modalità con cui sono stati commessi i delitti. La prima vittima si chiamava Thea Stroppa, una donna di cinquantuno anni che mantiene la famiglia prostituendosi nelle periferie di Roma nord. La mattina del 6 luglio 1983 due operai, giunti presso un cantiere situato all’angolo di via Flaminia Vecchia e via Due Ponti, trovano il suo corpo privo di vita semicoperto dai calcinacci. Il suo assassino si è accanito con una brutalità incredibile: la donna è stata prima strangolata con la sua stessa camicetta, poi presa a sassate sul volto e, infine, giustiziata con un colpo di pistola alla tempia. Gli inquirenti hanno pochissimi elementi da cui partire: Thea Stroppa, conosciuta nell’ambiente come «Tiziana», è stata vista per l’ultima volta su via Due Ponti intorno alle 21 e 30 mentre la morte si stima sia sopraggiunta intorno alle due di notte.

Passano solo tre giorni e salta alle cronache un altro delitto piuttosto analogo a quello di via Flaminia. Nella serata del 9 luglio a Passo Corese, nei pressi di Fara Sabina, viene rinvenuto il cadavere di un’altra prostituta. Si tratta di Luciana Lupi, conosciuta come «Silvana», quarantacinquenne residente a Roma nel quartiere Pigneto. Il corpo viene ritrovato in aperta campagna in stato di avanzata decomposizione; i primi risultati autoptici rivelano che la Lupi è stata uccisa almeno quattro giorni prima, nella notte tra il 4 e il 5 luglio. Il delitto consumatosi sulla Salaria è il primo grande campanello d’allarme per gli investigatori. Se si esclude l’assenza di un colpo d’arma da fuoco, i casi delle due prostitute sono quasi identici: entrambe le donne sono state strangolate con uno dei propri indumenti (nel caso della Lupi con la sua stessa cintola); si registra lo stesso accanimento sul viso delle vittime con una delle pietre trovate sul luogo del delitto; anche il corpo denudato della povera «Silvana» viene trovato parzialmente occultato da una lamiera. Per alcuni mesi le indagini si orientano su un macellaio residente a Osteria Nuova, successivamente scagionato nel 1984 quando entra in scena Maurizio Giugliano. Il delitto di Passo Corese, date le modalità con cui si è materializzato, spinge le ipotesi investigative verso l’esistenza di un serial killer; una pista che trova un’altra drammatica conferma appena quattro giorni dopo il ritrovamento di Luciana Lupi.

Versante opposto della città, via Pontina Vecchia, località Tor de Cenci. A pochi passi dalla tenuta di Castel Porziano, il 13 luglio 1983 viene ritrovato il corpo di una ragazza di trentatré anni. Si tratta di Lucia Rosa, conosciuta nel giro della prostituzione col nome di «Margherita». Originaria di Siracusa ma residente da anni a Roma, la donna era già nota alle forze dell’ordine per problemi relativi alla sua tossicodipendenza. Come nel caso di Luciana Lupi, il suo corpo viene trovato circa due giorni dopo il decesso, quando un ragazzo a bordo del suo scooter lo nota a pochi metri dal ciglio della strada. Lo scenario è sempre lo stesso: la vittima è seminuda, la sua maglietta stretta intorno al collo, alcuni calcinacci ne coprono solo parzialmente la parte superiore del corpo. Su di lei l’assassino non ha infierito con le pietre come con le altre donne. Anche in questa occasione non ci sono testimoni e, soprattutto, non c’è nessun sospettato. L’idea che si tratti di un assassino seriale, un vero e proprio «lupo» che si aggira minaccioso per le campagne romane in cerca di prede femminili, si fa sempre più concreta.

SULLE TRACCE DEL «LUPO»

A sinistra Fernanda Durante; a destra Giuliana Meschi e, in basso, Catherine Skerl

Luoghi isolati in aperta campagna, tre vittime coinvolte nel giro della prostituzione, tanti elementi in comune. Il delitto di Tor de Cenci rappresenta una sorta di giro di boa per il presunto «mostro di Roma» che concede una tregua di due settimane e, di fatto, cambia obiettivo. Il 5 agosto 1983, infatti, nell’immediato entroterra di Sabaudia, viene ritrovato il corpo senza vita di Giuliana Meschi, un’ex impiegata comunale di trentuno anni. Da poco tempo trasferitasi sul litorale pontino, la donna viene rinvenuta cadavere e seminuda in un campo di granoturco. Secondo i primi rilievi è stata strangolata con i suoi stessi pantaloni. Sembra l’ennesimo delitto messo a segno dal misterioso serial killer, ma questa volta gli inquirenti hanno un dato da cui partire: un testimone, un contadino che si era recato nei campi dove è stata trovata la vittima, ha assistito agli ultimi istanti di vita dell’ex impiegata e, soprattutto, ha visto in faccia il suo aggressore.

«La sera del 5 agosto», ha raccontato il contadino A.B. secondo quanto riportato dal Corriere della Sera nell’edizione del 7 aprile 1984, «ho visto un uomo afferrare la Meschi per il collo: ho pensato che erano due amanti e che stavano litigando. Poi ho sentito la donna gridare: “Non voglio, lasciami stare” (…)».

Il contadino fornisce indizi fondamentali per le indagini. Innanzitutto contribuisce all’elaborazione di un identikit del giovane che stava litigando con la donna. Il secondo dettaglio è l’automobile, una Ford Escort gialla col tettuccio nero, la stessa che gli ostruì il passaggio nei campi poco prima di assistere all’aggressione, la stessa auto in cui vide allontanarsi quel ragazzo dal luogo del delitto, ormai solo, senza la Meschi. La sua testimonianza giocherà un ruolo chiave sulla individuazione e incriminazione di Maurizio Giuliano.

Con il delitto di Sabaudia la vicenda assume una dimensione mediatica molto più rilevante delle precedenti ma, per chi svolge le indagini, non ci sono ancora piste concrete da seguire. L’assassinio di un’ex impiegata dalla vita apparentemente normale, di ritorno dalla Capitale dove era andata a riscuotere un’indennità pari a 300.000 lire (somma che non viene ritrovata tra i suoi effetti personali), cambia le carte in tavola circa il modus operandi dell’assassino, ormai presumibilmente orientato a scegliere le sue vittime anche al di fuori del giro della prostituzione. Il che lo rende molto più pericoloso e imprevedibile.

La vicenda si complica quattro mesi più tardi, quando la città viene sconvolta da un altro orribile delitto. La mattina del 31 ottobre 1983, in una stradina di campagna vicino a Pratica di Mare, tra Castel Romano e Pomezia, un passante nota in un fossato il corpo di una donna. Si tratta della pittrice Fernanda Renzetti Durante, cinquantatré anni, moglie di un funzionario della Banca d’Italia. È un vero e proprio giallo. La donna viene trovata solo con reggiseno e pullover, trafitta da oltre trenta coltellate. Risultano da subito evidenti i segni di un trascinamento del cadavere in direzione del fossato che, evidentemente, non è il luogo dove è stato consumato il delitto. Gli altri indumenti vengono ritrovati all’interno della Fiat 500 rossa della Durante, rinvenuta il giorno seguente nei pressi della stazione ferroviaria di Campoleone: né i vestiti, né l’abitacolo della vettura portano segni di violenza. Due guardie notturne dichiarano di aver notato l’auto la notte precedente parcheggiata proprio nei pressi della stazione, con i fari accesi e i tergicristalli attivati, segno che la vettura è stata abbandonata in tutta fretta, per poi essere spostata successivamente in un luogo più appartato. Il lato più misterioso della vicenda riguarda gli spostamenti della vittima: che ci faceva la signora Durante, residente a Roma nel quartiere Ardeatino, in mezzo alle campagne isolate di Pratica di Mare? In quei giorni l’artista stava partecipando alla rassegna I cento pittori di via Margutta, ma quella domenica sera lasciò la mostra con un’ora d’anticipo rispetto al solito, informando il portiere dello stabile (l’ultimo ad averla vista in vita intorno alle ore 20.30) che aveva un appuntamento. Anche per il caso Durante, nel 1984, viene tirato in ballo Maurizio Giugliano. Rispetto ai casi precedenti, l’arma utilizzata dall’assassino, il coltello trovato accanto al corpo della donna, rappresenta senz’altro una novità; per il resto, le dinamiche sembrano sempre le stesse (occultamento parziale del cadavere in luogo isolato e denudamento della vittima).

Il bilancio delle vittime nel 1983, almeno per quanto riguarda la Capitale, si chiude con cinque vittime. Ma non finisce qui. Ai casi riconducibili al lupo dell’agro romano si aggiunge l’atroce delitto di una ragazza di soli sedici anni, Catherine Skerl, figlia del regista e sceneggiatore di origini svedesi Peter Skerl. È un altro noto giallo degli anni Ottanta quello della studentessa del liceo artistico Giulio Romano, trovata senza vita la mattina di domenica 22 gennaio 1984 in un vigneto situato nei pressi di Grottaferrata, strangolata dapprima con un fil di ferro e poi con la cinghia del suo borsone. Sul suo corpo appaiono evidenti i segni delle percosse mentre non risulta esserci stata violenza sessuale; contrariamente agli altri episodi già esaminati, la ragazza aveva ancora indosso i propri vestiti. Il giorno prima Katty scompare intorno alle 18 e 30; aveva un appuntamento con un’amica presso la metropolitana Lucio Sestio, sulla Tuscolana, intorno alle 19. Non vedendola arrivare all’appuntamento, l’amica avverte la madre che si mette alla disperata ricerca di sua figlia. A un primo esame autoptico, la ragazza sarebbe deceduta intorno alla mezzanotte. C’è un buco di almeno quattro ore in cui, si è ipotizzato, la vittima si è intrattenuta con l’assassino. Per gli investigatori non ci sono dubbi che il vigneto sia il luogo del delitto e sposano la tesi che la studentessa avrebbe chiesto un passaggio alla persona sbagliata.

Il caso Skerl smuove definitivamente le acque circa le indagini sul presunto mostro di Roma. In città c’è molta apprensione e, per qualche labile similitudine, il delitto di Grottaferrata viene accostato anche alle misteriose scomparse di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori, senza mai trovare collegamenti concreti. Indagini difficili che tuttavia portano gli investigatori sulle tracce di quel ragazzo disturbato e violento.

Nella seconda parte la lunga vicenda giudiziaria riguardante Maurizio Giugliano.