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1974, l’elezione al vertice FIFA di João Havelange, ultimo «dittatore» del calcio

Sebastiano Palamara

Dopo tredici anni l’inglese Stanley Rous perde il trono del calcio mondiale: il nuovo presidente della FIFA è il brasiliano João Havelange. Lascia nel 1998, dopo aver trasformato il calcio in un fenomeno globale e la FIFA in una potenza economica e politica. Muore nel 2016, centenario

Francoforte sul Meno, 1974. 62 voti contro i 58 del settantanovenne inglese Stanley Rous, presidente uscente: con questi numeri Jean-Marie Faustin Goedefroid de Havelange esce vincitore, sommo gaudio, dal «conclave» FIFA1 di Francoforte e diventa il nuovo capo del calcio mondiale. Se il calcio è una religione, il pontefice massimo – non ce ne voglia Santa Romana Chiesa – per un quarto di secolo è lui. Classe 1916, brasiliano di origine fiamminga, già plurimiliardario, proprietario di aziende ed industrie2, ex atleta: come nuotatore, nel 1936 Havelange aveva rappresentato il Brasile olimpico a Berlino, nel 1952 figurava nel team verde-oro di pallanuoto a Helsinki, ma anche a quei tempi sembrava già indossare guanti, cilindro e bastone. «Il vecchio João? Una mano di ferro in un guanto di ferro», così secondo il giornalista Keir Radnedge. Nella borsa delle previsioni di quelle elezioni FIFA, il suo nome non era valutato come di troppo conto, anzi: da molti osservatori la sua candidatura era menzionata solo «di scorcio», come se non avesse possibilità di riuscita.

PAPA JOAO, IL «MODERNIZZATORE TERZOMONDISTA»

Joao Havelange

Non sappiamo come considerasse queste opinioni, questo spregiudicato figlio di un trafficante d’armi di Liegi, dalla voce bassa e calma e con lo sguardo da pluriomicida in un film di Mario Bava, o se addirittura le incoraggiasse per avere le mani libere nelle sue manovre. Di certo, le ambizioni lo avviluppavano da tanto tempo, se dal 1958 al 1973 era stato presidente della Confederazione Sportiva Brasiliana, e se già nel 1963 era entrato a far parte del Comitato Olimpico Internazionale. Sarebbe forse un dibattito troppo lungo, capire quanti di quei 62 voti fossero legittimi o, in altre parole, quanto si sia peccato di «simonia» in quello storico vertice? Probabilmente sì. Di sicuro, al termine della strenua campagna che Havelange aveva portato avanti nei tre anni precedenti, in quei giorni del giugno 1974 si vedevano volteggiare, per le strade di Francoforte, uomini di nazioni esotiche semi-sconosciute che, spesso, visitavano per la prima volta un Paese estero e che, per la prima volta, potevano dire la loro, contando come i rappresentanti di quell’Europa bianca e coloniale che fino a quel momento aveva spadroneggiato.

Già, le colonie: in quegli anni suonava l’ultima ora del colonialismo, milioni di uomini africani, asiatici e latino-americani erano insorti per conquistare una nuova vita, affermando il diritto all’autodeterminazione e allo sviluppo indipendente delle loro nazioni. Anche il calcio, in questo processo, aveva il suo ruolo e la sua importanza, e Havelange lo capì alla perfezione: la fase finale della Coppa del Mondo del 1966, per dire, garantiva un solo posto a tutta l’Africa e l’Asia. Per questo, «papa João» si propose come modernizzatore «terzomondista», finanziò di tasca propria i viaggi di questi delegati, li blandì e li fece sentire importanti, aiutandosi con la suggestione delle sue maniere affabili e suasive. Galvanizzò le nazioni africane e asiatiche organizzando, in una massiccia operazione-fascino, continui viaggi in cui era spesso accompagnato dalla mirabolante e adorata nazionale brasiliana del divino Pelé. Prometteva a tutti una fetta più grande della torta, in cambio dei voti necessari ad eleggerlo. Un novello Rodrigo Borgia, senza però alcun riserbo curiale, sempre indaffarato tra rendite di abbazie e titoli nobiliari, regalie e promesse, assediato dall’avidità degli Sforza e dalle brame degli Orsini, dalle pretese di un Della Rovere e dalle ambizioni dei Farnese. Smanie e frenesie di attenzioni e prebende, a lui del tutto funzionali, da lui pazientemente coltivate ed incoraggiate.

LA WELTANSCHAUUNG IMPERIALISTA DI SIR STANLEY ROUS

Sir Stanley Rous

Difatti le sue trame, come già quelle dell’ambizioso, sottile nipote di Callisto III, passato alla storia come Alessandro VI, funzionarono. Ora, finalmente, nel sacro tempio del calcio mondiale, un polinesiano pesava come un francese, un etiope come un inglese, la voce di un delegato dello Zambia non era inferiore a quella di un tedesco. Un rappresentante inviato da Angola o Mozambico poteva esprimersi alla pari con un portoghese. Allucinante ed impensabile, solo fino ad un paio d’anni prima. Utopie di un Tommaso Campanella dissotterrato per insediarsi in un mega-ufficio da tecnocrate in un grattacielo di Zurigo3? No, affari. Solo affari. Ricordate il discorso di Ernesto Guevara detto il «Che» all’Assemblea Onu del 1964? Bene, dimenticatelo all’istante. Avete immaginato – sia pure incidentalmente – il nuovo presidente col pugno chiuso alzato, fischiettando l’Internazionale e, magari, invocando il rapido avvento della «giustizia proletaria»? La priorità, in questo caso, è cambiare spacciatore, e al più presto. O, al limite, andare avanti con la lettura. Havelange si impose declinando ai Paesi del cosiddetto Terzo Mondo una sorta di «internazionalismo» degli affari in cui la spinta verso l’emancipazione era rimpiazzata da una più prosaica moltiplicazione dei fatturati: sotto la sua guida, almeno per quel che è possibile scorgere tra le nebbie che avvolgono i bilanci, gli introiti dei tornei di calcio si sono moltiplicati in modo così vorticoso che «al confronto, quel famoso miracolo biblico, quello dei pani e dei pesci, sembra una barzelletta4».

È certo, però, che in quel 1974 João Havelange aveva trovato il migliore aiuto nell’inadeguatezza e, diciamo così, nell’«anti-modernità» del suo rivale: infatti, la concezione dello sport di Sir Stanley Rous era, per molti versi, anacronistica, più rassomigliante a quella di un Barone di Coubertin che a quella dei nuovi manager sportivi, a loro agio su un palcoscenico sempre più mediatico e globalizzato. Il mondo era cambiato, ma Rous non era in grado di cambiare con esso: ormai, a molti sembrava solo il logoro arnese di una Gran Bretagna ancorata alla reazionaria nostalgia degli smarriti fasti imperiali. Sul vecchio presidente, al vertice FIFA dal 1961, l’uomo che aveva portato la sua canizie di patriarca come fosse il simbolo di una connaturata chiarezza d’animo, avevano iniziato ad abbattersi ironie e dubbi. D’altronde, egli stesso fece del suo meglio per apparire come epigono, sia pure blasonato, di una morente Weltanschauung imperialista, sopravvissuta quasi solo nelle fantasticherie di qualche malinconico baronetto. Al termine di una battuta di caccia alla volpe, nella sua sterminata tenuta nel Kent, Rous aveva commentato: «L’Apartheid? Ci vuole un po’ d’ordine, oggigiorno». Sia detto a margine: qualche anno prima, il capocannoniere del mondiale inglese del 1966 fu l’unico giocatore africano del torneo, il portoghese Eusebio ma, si sa, il destino a volte scherza. A dir poco scioccante fu la decisione della FIFA di Rous di far giocare a Santiago, nel novembre 1973, il ritorno dello spareggio5 tra i padroni di casa del Cile e l’Unione Sovietica, subito dopo il sanguinario colpo di stato del generale Augusto Pinochet. Proprio il terreno di quel campo da gioco era stato convertito dal regime in orrendo scenario di torture ed esecuzioni di massa; migliaia di prigionieri furono trasferiti solo per permettere la grottesca messa in scena di quel match, previa pulizia del bagno di sangue sparso all’interno di quella struttura. I sovietici si rifiutarono di giocare; a questa decisione seguì la farsa della «partita», se così si può definire, giocata dal Cile senza avversari, nel tentativo sfacciato e insieme patetico di coprire le azioni del regime.

FIUMI DI DENARO E CLIENTELISMO

Juan Antonio Samaranch

Alla luce di aneddoti simili, l’eredità del vecchio inglese diventa solo un discorso di prospettiva. I nuovi protagonisti del calcio di Havelange, i paesi africani, mediorientali, asiatici, gli garantirono sempre un’immensa base d’appoggio; veniva trattato come un capo di Stato ovunque andasse, in paesi come l’Arabia Saudita la sua venuta era accolta quasi come quella di un presidente statunitense: «Ovunque andassi incontravo i capi di Stato, ma dicasi lo stesso di chi incontrava me» dirà lui, accarezzando lo scettro dei ricordi. Andava in giro con una Rolls Royce di otto metri con autista nero. A Diego Armando Maradona, che nella torrida estate messicana del 1986 lo attaccò per gli orari assurdi in cui si era costretti a giocare per garantire la copertura televisiva in Europa, rispose: «Se non ti va bene, puoi cambiare sport». Ricorda Eduardo Galeano che, ad un giornalista che gli domandava «Cosa ama di più del calcio? La gloria? La bellezza? La poesia?», egli rispose: «La disciplina». Il suo potere si nutrì soprattutto del legame con immense aziende come Coca-Cola e Adidas: proprio Adidas, in ottemperanza dello stretto legame intessuto con Havelange (che qualche idealista senza speranza definirebbe forse di «amicizia»), dopo aver inondato di dollari il mondiale argentino del 19786, nel 1980 finanziò con montagne di denari anche la candidatura del suo amico Juan Antonio Samaranch alla presidenza del Comitato Olimpico Internazionale.

Fiumi di denaro e braccia tese, garrota e commercializzazione, falangismo e amicizie con la finanza che conta: Samaranch aveva saputo, per così dire, ben destreggiarsi nella Spagna di Franco, ma il suo amico e sponsor Havelange non fu certo da meno. Nota a tutti, mai smentita, fu l’amicizia con il famigerato gangster carioca Castor de Andrade. Secondo David Goldblatt, autore di Futebol Nation – The Story of Brazil Through Soccer, «Havelange ha portato alla FIFA lo stile unico dell’élite al potere in Brasile: cordialità imperiosa, politica clientelistica spietata e una sfocatura egoistica dei regni pubblici e privati, per un beneficio che era, insieme, istituzionale e personale».

«FINALMENTE IL MONDO PUÒ VEDERE LO SPLENDIDO VOLTO DELL’ARGENTINA»

Jorge Videla

Durante il primo mondiale del suo regno, proprio quello argentino del 1978, nella giornata inaugurale, organizzata nello stadio Monumental di Buenos Aires, Havelange fu decorato dal generale Videla. A pochi passi da lì, in piena attività, c’era la Escuela Superior de Mecánica de la Armada, la famigerata ESMA, principale centro di tortura e di sterminio della dittatura militare. Non molto più in là, nelle consuete rotte della morte, solcavano i cieli gli aerei che scaraventavano i prigionieri vivi in fondo al mare. Il presidente della FIFA, davanti alle telecamere di tutto il mondo, commentò: «Finalmente il mondo può vedere il vero, splendido volto dell’Argentina». Sotto la sua presidenza la fase finale della Coppa del Mondo è passata da 16 a 32 squadre; la monetizzazione globale dei diritti televisivi e degli accordi di marketing dell’organizzazione diventò un gigantesco affare multimiliardario. Malato di potere e di vecchiaia, pressato dalle accuse di corruzione, nel 1998, dopo ventiquattro anni, Havelange lascia la presidenza della FIFA7. Subito dopo, dice: «Il giorno in cui sono entrato nel mio ufficio c’erano solo 20 dollari nel cassetto, quando l’ho lasciato la FIFA aveva 4 miliardi di dollari». Arroganza e nepotismo di un autocrate, simbolo di una modernità neo-liberista in cui, se il fine è il denaro, i mezzi son sempre giustificati; burattinaio di un’immensa fabbrica dell’inganno, in cui il segno dell’identità collettiva è sempre sacrificata a una distopica telecrazia in filigrana, che non si fece scrupoli neanche nell’offrire alibi ai crimini dei militari, pur di trasformarli in impeccabili show da mondovisione. Ma, ricorda Galeano, in fondo gli scrupoli non hanno mai avuto granché valore, se nell’Italia del Rinascimento erano la più piccola unità di misura.

Nel 2012 Havelange, insieme al genero Ricardo Teixeira, capo del calcio brasiliano, viene accusato di essersi appropriato illegalmente di 46 milioni di dollari in operazioni relative all’assegnazione dei diritti di marketing della Coppa del Mondo. Nel 2013, Hans Joachim Eckert, responsabile del comitato etico della FIFA, definirà la condotta di Havelange «moralmente ed eticamente riprovevole». Del resto, in quel giorno di giugno 1974, il nuovo presidente FIFA non parlò rivolgendosi agli dei dell’allegria o della fantasia, ma disse semplicemente: «Sono qui per vendere un prodotto chiamato football».

Il manovratore supremo di questa gigantesca liturgia neo-pagana imparentata con il mito e che il povero Antonio Gramsci definiva «il regno della lealtà a cielo aperto», morì nel 2016 all’età di 100 anni: la serpe nera dell’amor proprio offeso, evidentemente, non si arrischiò mai a morderlo.

Note

1 La Fédération Internationale de Football Association, nota come FIFA, è la federazione internazionale che governa il calcio.
2 Havelange, che aveva ereditato un’immensa fortuna dal padre trafficante d’armi, gestiva una delle più grandi compagnie di trasporto stradale del Brasile, ed aveva la quota di maggioranza in una grande compagnia assicurativa del paese.
3 La FIFA ha sede proprio a Zurigo.
4 Splendori e miserie del gioco del calcio, Eduardo Galeano, ed. Sperling & Kupfer, 1997.
5 L’andata, giocata in Russia, era finita 0-0.
6 Il mondiale del 1974 iniziava in Germania proprio in concomitanza dell’elezione di Havelange. Viene definito, dunque, come suo primo mondiale quello del 1978 perché il precedente era stato organizzato dalla vecchia gestione di Stanley Rous.
7 Gli succede Sepp Blatter, al vertice fino al 21 dicembre 2015, quando lascerà a sua volta il posto a Gianni Infantino.