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Sorvegliare, punire e dominare: Luigi Cardullo, il «viceré» dell’Asinara

Sebastiano Palamara

Negli anni Ottanta un’inchiesta giudiziaria scoperchiò un sistema fatto di corruzione, tangenti, gioielli e microspie

L’Asinara, l’isola dei «dannati della terra», la «Caiennai» italiana, da tempo immemore isola-carcere per antonomasia. Adibita a colonia penale nel lontano 1885, quando Presidente del Consiglio del Regno d’Italia era Agostino Depretis, gli anni del «trasformismo» e della Sinistra storica, qualche era geologica fa o, forse, ancora prima. Da sempre spauracchio per i detenuti riottosi, gli irriducibili, i refrattari alla disciplina: «Ti faccio trasferire all’Asinara!», una minaccia brandita come clava e risuonata, presto o tardi, in tutte le carceri d’Italia, un avvertimento che in pochi ebbero l’incoscienza, o il fegato, di prendere alla leggera: «Meglio la pena di morte», sentenziò Raffaele Cutolo, che qui aveva trascorso qualche mese. Non si può capire la vicenda-Asinara senza parlare di Luigi Cardullo, classe ’35, siciliano di Patti (Messina), direttore del carcere tra il 1974 e il 1980. Una figura impossibile da raccontare, se arginata nei consunti, ben misurabili perimetri del suo ruolo protocollare e amministrativo. Eloquentemente ribattezzato il «viceré», Cardullo viene ricordato come un sovrano, un uomo al di là di ogni illuministica ragionevolezza: «Si sentiva investito di una missione ricevuta dall’alto (…). Se avesse potuto, avrebbe comandato anche alle ondeii». Lui stesso, issando i vessilli di un curioso misticismo penitenziario, con mirabile sprezzo della sobrietà, commentava: «Il mestiere di Dio è sottopagato». Sua moglie Leda Sapio, invece, era per tutti «la zarina»: «Chi fosse Cardullo, ormai, lo sanno anche le pietre. Ma era in buona compagnia, a partire da sua moglie, che era peggio di luiiii».

«SEMBRAVA USCITO DALLA FANTASIA DI SALVADOR DALÌ. UN UOMO PITTORESCO, MITOMANE E ISTRIONE, CON UN FONDO DI DIGNITÀ»

Ma chi era davvero Luigi Cardullo? «Sembrava un personaggio uscito dalla fantasia di Salvador Dalì. Un uomo pittoresco e umoristico, istrione e mitomane, un po’ autolesionista, ma con un fondo di dignità»: lo ricorda così il fondatore delle Br Renato Curcio. «Dicono che sono una persona cattiva, ma non è vero, guardate!», disse un giorno Cardullo, intimando ad una guardia di aprire una gabbia da cui uscirono due scoiattoli scodinzolanti, felici di poter scorrazzare liberi, in uno stravagante ossimoro etologico, nel suo ufficio. Di fronte a lui, muto, quasi sconvolto, un ergastolano legato a Cosa Nostraiv. Difficile, a questo punto, negare l’irreversibile trasfigurazione della (presunta) sobrietà del funzionario statale lungo l’accidentato alveo del delirium attoriale. Ma, con questo, non si consenta, per carità, il deprezzamento patetico di una smisurata antropologia italica, che così si supporrebbe avvezza all’uso di smancerie esistenziali e smottamenti animalisti: gli aneddoti che lo riguardano, infatti, non son sempre così teneri e rincuoranti. Anzi. In un’altra occasione, quel senso quasi «francescano» d’armonia con il creato, enfaticamente esibito con i due roditori, andò in fumo, e non è solo un modo di dire: Cardullo, infatti, fece aprire il fuoco contro la barca di un malcapitato turista svizzero che, a suo insindacabile avviso, si era avvicinato troppo all’isola. L’episodio seguente, rievocato da Renato Curcio, restituisce un personaggio degno della migliore tradizione della nostra commedia nazionale: «Una volta mi sfidò ad ucciderlo, in una di quelle sfide psicologiche che, secondo me, lo facevano sentire “uomo”. La jeep in quel momento percorreva un sentiero che sovrastava un dirupo. “Vedi Curcio”, mi disse, “se dai uno strattone allo sterzo precipitiamo e mi uccidi, ma so che non ne hai il coraggio; per questo posso permettermi di portarti con me da solo; voi parlate, parlate, ma poi…”. No guarda, gli risposi, (…) sarei anche disposto a buttarti di sotto, ma senza precipitare anche io. E giù quattro risate. Con Cardullo si finiva sempre per avere degli scontri verbali vagamente surreali. Il suo era un modo anche drammatico di vivere dei problemi personali pesanti. “Io nella vita non ho più niente da perdere”, mi confidò, “(…) mi rimanete voi e la mia unica soddisfazione è che da qui non riuscirete a scappare”».

«VOI NON AVETE LE DONNE, MA IO ANCHE SE HO MIA MOGLIE CON ME NON SCOPO PIÙ. PENSO SOLO A VOI»

Non se ne abbia l’immenso Michel Foucault. Con Luigi Cardullo siamo nei dintorni di un Sorvegliare e punirev «all’amatriciana»; castrazioni apotropaiche, castità indotte, flagellazioni della carne con timbro allegato del Ministero di Grazia e Giustizia: «Una volta venne davanti alle nostre celle e tenne una specie di sermone: “La notte non dormo perché so che voi non dormite, pensate solo a fuggire. Voi non avete le donne ma io, anche se ho mia moglie con me, non scopo, perché non mi interessa più, penso solo a voi”vi», ricorda l’ex Br Alberto Franceschini. Troppo facile, qui, cedere alla tentazione caricaturale, sia pure avallata – in buona fede, si intende – da aspetti quasi parodistici del Nostro, e immaginare la «zarina» tentare con lui un normale approccio, diciamo da banale ménage coniugale, per venire così respinta: «Stasera non ne ho voglia, cara. C’ho Franceschini e Curcio che pensano ad evadere». A volte, tuttavia, solo le immagini metaforiche estreme possono esprimere la dimensione profonda della Storia, «un intreccio di piacere e terrore, verità e inganno, in eterno ricorsovii». Ma le metafore non bastano. Meglio, quindi, tornare alla cronaca, al racconto del fatto storico, alla ricostruzione, se non imparziale, perché sempre da un punto di vista si parla, almeno scevra da intenzioni manifeste.

UN UOMO SINGOLARE, IN BILICO TRA POSSENTI TENTAZIONI AUTORITARIE E VELLEITÀ LIRICHE

All’occorrenza, Cardullo non difettava certo di cinismo, come emerge dal resoconto di un cronista del Corriere della Sera che lo aveva incontrato insieme ad una delegazione di giornalisti viii: «Hanno detto che alcuni detenuti per sfuggirle si sono conficcati aghi nel petto, cuciti le labbra, inghiottito manici di cucchiai. Cardullo soddisfatto commenta: “È un buon resoconto”». Un uomo singolare, immerso fino al collo nel mare magnum della contraddizione umana, costantemente in bilico tra possenti tentazioni autoritarie e insospettabili velleità liriche: scriveva, di suo pugno, poesie bucoliche che poi amava declamare, di fronte al cielo azzurro e agli stormi di gabbiani che solcavano quello sperduto lembo di terra, agli ospiti più disparati: parlamentari, giornalisti, generali dei Carabinieri, detenuti. Ancora Curcio: «Mi veniva a prendere con la sua jeep e mi faceva sedere accanto a lui, senza manette. Spesso portava il suo enorme doberman che, appollaiato sul sedile posteriore con la lingua di fuori, mi alitava fastidiosamente sul collo. Si fermava sul bordo della strada. Mi leggeva le sue poesie sollecitando il mio giudizio. Mi indicava il tramonto, il mare, il cielo. Guarda che meraviglia, diceva. E poi iniziava a declamare». Parafrasando De André e De Gregori, diremmo: i poeti, che strane creature. Un po’ scandalizzato, un giornalista del Corriere della Sera annota: «Il Manifesto ebbe anche il coraggio di pubblicare e recensire quei versi: “Ora, con l’eredità di messi profumati di mare, mi dici che cosa è l’uomo, ogni fragile uomo che ha attraversato la sua notte”». Ma i vezzi artistici del «viceré» non si esaurivano con la poesia: «Sul salotto della sua casa troneggia una scultura da lui realizzata: un avvoltoio» scrive un cronista del quotidiano La Stampa nel 1977. Tentò di organizzare, nella sofisticata cornice di Porto Cervo, una mostra delle sue opere scultoree, leziosamente definita, sui manifesti che dovevano promuoverla, «en plein air». L’invito fu recapitato, oltre alle eminenze isolane, anche ad un principe arabo: «Sua graziosa altezza Karim». L’evento fu poi annullato per odiose – un artista non potrebbe definirle diversamente – «ragioni di sicurezza». Nell’ambito della medesima intervista riusciva a definirsi, con surreali associazioni degne di un André Breton all’apice della creatività, «Uomo di legge, di lettere, d’arte», per poi celebrare, subito dopo, chissà perché, il nome in codice che si era auto-affibbiato nelle comunicazioni radio interne all’isola: «Mi faccio chiamare “il Condor” ix» esclamava, vistosamente compiaciuto, il «viceré» dell’Asinara.

«IL BUNKER? UN POSTO INFERNALE NEL QUALE NON VORREI MAI ESSERE RINCHIUSO»

Diversi detenuti raccontarono che era solito legarli alla sua jeep con una corda, per poi trascinarli fino allo stremo in giro per l’isola, a mo’ di punizione. Proprio la denuncia effettuata da uno di loro, nel 1976, accese il dibattito pubblico sui suoi metodi poco «ortodossi». Il «viceré», per nulla intimorito, trasformò quel dibattito in uno show a mezzo stampa. Particolarmente controverse divennero le sezioni di massima sicurezza dell’isola: il «Pollaio» («la moglie di Cardullo ci aveva tenuto le galline, tanto erano degradati e angusti gli spazi x»), «Fornelli»xi e il famigerato «Bunker»: una costruzione di cemento armato protetta da un muro di cinta e circondata da filo spinato. Le celle, «bugigattoli di tre metri per tre in cui stavano quattro detenuti, rinchiusi ventitré ore su ventiquattro; l’”ora d’aria” avveniva in una stanza poco più grande delle celle, praticamente al chiusoxii». Queste sezioni vennero scelte a metà degli anni Settanta dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesaxiii per custodire, in condizioni di assoluto isolamento, gli appartenenti alle organizzazioni armate, Br in testaxiv. Un cronista de L’Unità chiese al dottor Vindice Silvetti, da 25 anni medico del penitenziario, che cosa pensasse di quelle sezioni: «Posti infernali nei quali non vorrei mai essere rinchiusoxv». Non usò mezzi termini neanche il sottosegretario alla Giustizia Raffaele Costa: «Ho visto un cimitero, uomini ridotti a cadaveri viventi, con un fiore in testaxvi». Nel 1978 un quotidiano come La Stampa, non certo sospettabile di simpatie anarco-insurrezionaliste, definì «inammissibili» i metodi della gestione-Cardullo: «Pestaggi e violenze diffuse; vitto rancido, acqua salata, fangosa, praticamente imbevibile». L’impressione degli altri cronisti? «Francamente inquietante (…). È come un’allucinante scatola in formato gigante, dentro c’è appena lo spazio per muoversi. Anche l’aria è tutt’altro che buonaxvii». Ricorda Alberto Franceschini: «Cardullo voleva dare a noi dello speciale (c’eravamo tutti, dai Br ai capi delle più importanti bande criminali) la sensazione di essere in un luogo dove la legalità non esisteva, dove, in tutto e per tutto, dipendevamo dalla sua volontà, dai suoi umori».

«LA PERSONALITÀ DEL DIRETTORE DEL CARCERE, CHE AMA DEFINIRSI “SCULTORE DELL’ASINARA, È SCONCERTANTE»

A seguito di una visita ispettiva, alcuni deputati denunciarono in Parlamento «le condizioni di vita dei detenuti e di gran parte del personale di custodia: assolutamente insostenibili e disumane, (…) anche a causa di misure restrittive superflue e per aspetti preoccupanti della figura del direttore del carcere dottor Cardullo. (…) Il servizio sanitario è disastroso, le condizioni igieniche sono vergognose (…). La personalità del direttore del carcere, di cui sono noti i tristi precedenti, e che ama definirsi “scultore all’Asinara”, è sconcertante, come è facile rilevare anche dalle contraddittorie, reticenti, stravaganti dichiarazioni rese alla stampaxviii».

Ma le visite – e gli attacchi – dei parlamentari non impressionarono più di tanto il «viceré», tanto da venire spesso ostacolate con ritardi o addirittura annullamenti, come del resto accadeva abitualmente ai parenti dei detenuti: gli unici mezzi per raggiungere l’isola, difatti, erano le imbarcazioni dell’amministrazione carceraria e dei Carabinieri. Il Cardullo «regnante» di quegli anni riecheggia Napoleone Bonaparte, il giorno in cui questi divenne imperatore scegliendo di mettersi la corona sul capo con le sue stesse mani, rendendo così inessenziale e, di fatto, quasi sgradita, la presenza di qualunque «pontefice» ministeriale, o comunque governativo, giunto da Roma. Già nel 1977 Franca Rame si chiedeva come «Cardullo possa continuare ad usare imperterrito il potere che gli è stato dato nonostante decine di denunce sporte contro di lui, che giacciono nei cassetti del tribunale di Sassari. Perché le denunce si sono insabbiate a Sassari? Chi lo protegge personalmente?». Domande destinate a rimanere senza risposta, o meglio, a dover essere espunte dalle stratificazioni molecolari di un’indiscussa egemonia burocratica, dall’affinamento inesorabile di meccanismi di controllo totalizzanti, sullo sfondo della «legislazione d’emergenzaxix» adottata massicciamente negli anni Settanta e pienamente legittimata ed incoraggiata dai massimi livelli dello Stato.

IN QUEGLI ANNI ENTRAVANO IN CARCERE «POLITICI» E RAPINATORI, ACCOMUNATI DA INSUBORDINAZIONE E RIFIUTO DELL’AUTORITÀ

Si è detto che l’allestimento delle «carceri speciali» fu la risposta al «caos», alle evasioni e agli attacchi condotti dai gruppi armati contro le istituzioni. Erano gli anni dell’entrata in carcere delle cosiddette «orde barbarexx», che andavano a stravolgere, letteralmente, la composizione tradizionale del popolo delle carceri. Militanti di organizzazioni politiche o appartenenti a batterie di rapinatori, diversissimi tra loro, eppure accomunati da un trait d’union: atteggiamenti improntati ad insubordinazione, rifiuto della mediazione con l’autorità e non accettazione di logiche gerarchiche, anche all’interno della comunità prigionieraxxi. Come raccontato da un ex rapinatore torinese, «all’Asinara mandavano la “crema”, e questo aveva anche qualche vantaggio per noi: bastava uno sguardo per capirsixxii». Rapinatori e banditi sempre pronti ad «andare ai restixxiii», brigatisti, militanti di Prima Linea, dei Nuclei Armati Proletari o delle Unità Combattenti Comuniste, ma anche di organizzazioni neofasciste come Ordine Nero ed Ordine Nuovo: erano questi, in maggioranza, gli «inquilini» delle sezioni speciali nell’isola del «viceré».

NEL 1979 UNA RIVOLTA CAPEGGIATA DAI BR DISTRUGGE COMPLETAMENTE IL CARCERE DI FORNELLI

Contro le «inumane condizioni di vita e contro i pestaggi», i detenuti organizzarono una prima, durissima rivolta nell’agosto del 1978xxiv; poco più di un anno dopo, nell’ottobre del 1979, a seguito di un ulteriore inasprimento del regime carcerario, per i detenuti di «Fornelli» la misura fu colma: la rivolta, capeggiata dai Br, distrusse completamente la sezione, «riducendola a un rudere fumante». Anche in quell’occasione il personaggio-Cardullo, come raccontato da Curcio, in qualche modo si distinse: «Mentre trattavamo la resa a causa delle gravi condizioni di alcuni compagni, dai finestroni i carabinieri urlavano: “Da qui non uscirete vivi”, “l’Asinara sarà la vostra tomba”. (…) Cardullo, a quel punto, assicurò: “Siete vinti e non voglio infierire sui vinti”». E loro, di rimando: «No, guarda, veramente non siamo vinti, perché il tuo carcere lo abbiamo fatto a pezzettini». Curcio fu il primo ad uscire. Al di là del cancello, «c’era un comitato di accoglienza di agenti con in mano dei manici di piccone, (…) di quelli belli grossi che non lasciavano presagire nulla di buono (…). Mi aspettavano Cardullo e il procuratore. Mi presero sottobraccio, uno da una parte e uno dall’altra (…). Ci trovammo davanti a un terribile pattuglione di agenti. Almeno un centinaio, tutti zitti, tutti enormi e minacciosi. Cardullo e il giudice mi si strinsero addosso. Le guardie ci lasciarono avanzare qualche metro e poi piombarono su di noi urlando e menando randellate a più non posso (…). Si creò un marasma tale che riuscii a sgattaiolare e me la cavai con poco, Cardullo invece le prese di santa ragione. Il giorno dopo venne a mostrarci i suoi lividi e i suoi bernoccoli come medaglie al valore: “(…) Ho preso questi colpi per mantenere la parola che vi avevo dato. Io sono un uomo d’onore”. Insomma, il solito Cardullo». Dopo la distruzione di «Fornelli», tutti i detenuti furono trasferiti in altre sezioni e/o carceri; tuttavia, lo Stato continuò a tenere aperta una piccola sezione di massima sicurezza in altri edifici dell’isola. Nel 1981, con il sequestro del giudice Giovanni d’Urso, firmato dalle Br, le sezioni «speciali» dell’Asinara vennero chiuse definitivamentexxv.

LA ZARINA AI PROCESSI: «PRENDEVA SOLDI DA TUTTI»

Il regno del «viceré» era ormai al tramonto. Con la ricostruzione del carcere inizia un’altra storia, fatta di appalti gonfiati e «bustarelle». Contestato pure dagli agenti di custodia (che contro di lui inscenano addirittura uno sciopero della fame) ed ormai attenzionato dalle Procure sarde, nel 1980 Cardullo viene trasferito a Perugia; l’anno seguente, invece, è a Viterbo. Proprio nella cittadina laziale, nel 1982, viene tratto in arresto insieme a sua moglie; i magistrati sardi, che gli contestano «gravissime irregolarità nell’assegnazione degli appalti per la ricostruzione», lo rinviano a giudizio per una lunga serie di reati: corruzione, truffa aggravata ai danni dello Stato, peculato. La «zarina» Leda Sapio era stata considerata da sempre, non meno del consorte, «la vera padrona dell’isola, quella che poteva tutto: farti arrivare un pacco, farti uscire dalla cella di punizione, farti cambiare diramazione o regime carcerarioxxvi»; le inchieste, inoltre, stavano dimostrando inequivocabilmente il ruolo attivo da lei rivestito nei numerosi illeciti contestati. Malgrado ciò, ed anzi, forse proprio per questo, sposò lestamente una spregiudicata linea difensiva, e si tramutò nella più grande accusatrice del marito. Durante il processo, spietata come il destino, dichiarò: «Mio marito? Prendeva soldi da tutti». Nell’assegnazione degli appalti previsti per la ricostruzione delle sezioni distrutte, Cardullo aveva intascato sontuose tangenti, che sfiorarono anche il 20% dell’importo a base d’asta. Fu calcolato un «ricarico» sul prezzo reale di circa 800 milioni di lire, un’enormità, tanto che il Ministero di Guardia e Giustizia si costituì parte civile contro di lui.

Nel corso del processo, inoltre, venne fuori che i coniugi Cardullo avevano comprato, con il denaro delle «mazzette», diversi appartamenti e magazzini ad Alghero; la «zarina», da parte sua, aveva ricevuto in regalo, da alcuni degli imprenditori coinvolti, gioielli e oggetti preziosi; non mancarono poi, sullo sfondo, «piccanti» vicende extra-coniugali che l’avevano vista protagonista. Scaricato anche dalla consorte, ormai abbandonato da tutti, Cardullo tentò di scagionarsi dalle accuse di corruzione asserendo che le ingenti somme trovate sul suo conto non erano il provento di tangenti, ma il compenso elargitogli dai servizi segreti in cambio dell’attivazione di un centro di spionaggio dei brigatisti reclusi. Tirò allora in ballo nomi illustri: lo stesso Dalla Chiesa e il suo vice Enrico Galvaligi. Questi, però, nel frattempo defunti, furono impossibilitati a confermare o smentire la sua versione.

NEL 1987 LA CONDANNA: CINQUE ANNI E DIECI MESI PER CORRUZIONE, TRUFFA AI DANNI DELLO STATO E PECULATO

Cardullo riuscì comunque a rallentare l’iter processuale, ottenendo la sospensione del processo per il tempo necessario a cercare i riscontri che aveva adombrato. Le cimici all’Asinara c’erano, questo venne appurato, ma ciò non bastò a salvarlo. Dopo la condanna inflittagli in primo grado nel 1987, infatti, il 6 giugno 1989 il Tribunale di Sassari mise la parola fine sulla sua vicenda giudiziaria, condannandolo a 5 anni e dieci mesi di carcere per corruzione, truffa ai danni dello Stato e peculato: aveva instaurato una sorta di caporalato carcerario, sfruttando la forza lavoro – gratuita – dei detenuti per poi rivendere a privati i generi alimentari prodotti all’Asinara. La «zarina», che in primo grado era stata condannata a quattro anni, prese due anni e otto mesi. Una fine davvero impietosa, per chi si era fatto portatore di una visione del mondo inflessibile, che sanciva divisioni drastiche, certe e inevitabili, tra due campi avversi: da una parte i buoni, dall’altra i cattivi, tra cui non poteva esserci relazione, né, tanto meno, contaminazione. Per sua fortuna, al momento della condanna, non finì in un carcere in cui c’era un «viceré» direttore. Forse, nelle lunghe notti dell’Asinara, Luigi Cardullo aveva letto Marguerite Yourcenar e si era convinto che «il bene e il male sono solo una questione di abitudine, che il temporaneo si prolunga, che le cose esterne penetrano all’interno e che la maschera, a lungo andare, diventa il volto». O, forse, non lesse Marguerite Yourcenar e non pensò nulla di tutto questo. Poco importa: le lancette del tempo, inesorabili, avevano già scoccato le ultime ore del «viceré».

NOTE

i Inespugnabile carcere situato in un’isola della Guyana: fu Napoleone III, nel 1854, ad adibire l’isola a colonia penale, ii Pasquale Abatangelo, “Correvo pensando ad Anna. Una storia degli anni settanta”, ed. Pgreco, 2017, iii Ex rapinatore detenuto all’Asinara intervistato da E. Quadrelli (2004). Benché esente da qualunque ruolo istituzionale o ufficiale, la «zarina» non disdegnava di far pesare il proprio status di «consorte reale», iv Emma d’Aquino, “Ancora un giro di chiave: Nino Marano. Una vita dietro le sbarre”, ed. Baldini&Castoldi, 2019, v Opera del 1975 del filosofo Michel Foucault, in cui viene effettuata una ricostruzione storico-genealogica della repressione e del controllo sociale, vi Alberto Franceschini, “Mara Renato e Io”, ed. Mondadori, 1988, vii Herbert Marcuse, “Critica della società repressiva”, ed. Feltrinelli, 1968, viii Corriere della Sera 3/11/1977, ix La Stampa, 3/11/1977, x Pasquale Abatangelo, Correvo pensando ad Anna. Una storia degli anni settanta, ed. Pgreco, 2017, xi Così chiamata perché nel 1916 vi furono bruciati i cadaveri di centinaia di prigionieri austro-ungarici, morti a causa di un’epidemia di colera. Oltre alle sezioni speciali, il carcere contava altre diramazioni: Cala d’Oliva, Santa Maria, Campu Perdu, Trabucato, Tumbarino, Case Bianche. Le diramazioni erano delle piccole fattorie-prigioni che, di fatto, funzionavano in modo autonomo, xii La Stampa, 12/4/1978, xiii Le carceri speciali furono poste sotto il controllo del Ministero della Difesa e, in particolare, proprio di Dalla Chiesa, xiv Settori ufficialmente definiti «di transito», ma in cui molti, di fatto, trascorsero una media o lunga detenzione, xv L’Unità, 11/11/1977, xvi L’Unità, 16/12/1980, xvii L’Unità, 11/11/1977, xviii Interpellanza n. 2/00416 presentata da M.Mellini, E.Bonino, A.Faccio, M.Pannella in data 19/9/1978. Si contano a decine, le infuocate interrogazioni con cui diversi parlamentari chiedevano conto al governo di quello «Stato nello Stato» e delle durissime e anti-costituzionali modalità con cui quel carcere veniva gestito, xix La riforma del 1975 introdusse l’Articolo 90, la norma che consentì la creazione degli «speciali». Quest’articolo prevedeva, per chi vi era sottoposto, tutta una serie di restrizioni particolari: censure sulla posta, colloqui con i vetri, nessuna o pochissime ore di socialità, libri contati, perquisizioni continue (all’entrata e all’uscita di cella), xx Emilio Quadrelli “Andare ai resti. Banditi, rapinatori, guerriglieri nell’Italia degli anni Settanta”, ed. Derive Approdi, 2004, xxi Ancora negli anni’60, l’ambiente carcerario vedeva sedimentate, al proprio interno, relazioni sociali basate sull’accettazione totale dei rapporti di potere preesistenti, la tradizionale sottomissione dei detenuti nei confronti della “custodia”. Il nuovo proletariato urbano è «poco prono a subire le consolidate gerarchie interne, sia istituzionali che criminali, caratterizzate da quell’insieme di pratiche paternaliste e/o caritatevoli che ne avevano consentito in passato il “buon governo”», Quadrelli (2013). Finiva, almeno per un decennio, il tradizionale equilibrio tra custodia e detenuti, laddove questi ultimi, almeno nella loro fascia d’élite, si adoperavano, tutt’al più, nel ritagliarsi privilegi all’interno del carcere, collaborando al mantenimento dell’ordine all’interno dello stesso, in ogni caso senza mettere in discussione i consolidati rapporti di potere vigenti, xxii Ex rapinatore torinese intervistato da Quadrelli (2004), xxiii Espressione che, nel gergo del poker, indica il giocarsi tutto. Si rimanda ancora alla lettura del (già citato) libro di Emilio Quadrelli, imprescindibile ricostruzione dell’humus esistenziale e socio-politico di quegli anni, che prende in prestito il titolo proprio da quest’espressione: “Andare ai resti. Banditi, rapinatori, guerriglieri nell’Italia degli anni Settanta”, ed. Derive Approdi, 2004, xxivLa protesta fu repressa con pestaggi e violenze. Il giudice di sorveglianza, una volta giunto all’Asinara, ordinò l’immediato ricovero del detenuto anarchico Horst Fantazzini, in gravissime condizioni. Le richieste dei prigionieri erano: abolizione dell’isolamento (sia individuale che di gruppo), creazione di spazi di socialità interna, aumento delle ore d’aria, abolizione dell’isolamento dall’esterno, cioè eliminazione dei vetri divisori, aumento dei colloqui, abolizione del blocco dell’informazione e della censura, xxv Tra il 1992 e il 1995 alcuni boss mafiosi (tra cui Totò Riina) furono detenuti qui, xxvi L’Unità, 4/6/1984.