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Riflessioni sui Campi Hobbit, la «Woodstock» neofascista degli anni ’70. Intervista a Marco Tarchi

Giacomo Di Stefano

«Da quale ala missina proveniva il "fuoco amico"? Da quella nostalgica che si riconosceva in Almirante e, a livello giovanile, in Fini»

Marco Tarchi

Montesarchio, provincia di Benevento, 1977. Oltre mille ragazzi si riuniscono in un happening fatto di concerti, discussioni, spirito di condivisione generazionale. Ci sono dibattiti sulla disoccupazione, sull’ecologismo e sulla condizione della donna. A uno sguardo superficiale sembrerebbe un evento di tipici fricchettoni anni Settanta, quel flusso ribellista e fuori dagli schemi che ha preso il nome di Movimento del ‘77. Ma a un occhio più attento, l’evento campano rivela qualcosa di nuovo. Tra i giovani che affollano Montesarchio, infatti, appaiono croci celtiche e riferimenti identitari dei giovani neofascisti della seconda metà degli anni Settanta. Si intonano slogan come: «Né Marx né Coca Cola, né banche né Soviet».

Sono i Campi Hobbit, uno degli tentativi più originali di rappresentare e dare voce a una certa parte dei giovani neofascisti, sin dal dopoguerra distaccati dai grandi mutamenti sociali e politici che stavano coinvolgendo su scala globale le nuove generazioni. Nascono su iniziativa – tra gli altri – dei giovani missini Umberto Croppi, Generoso Simeone e Marco Tarchi, che dà l’annuncio della nascita del primo campo – ce ne saranno altri negli anni successivi – dalle pagine della sua rivista satirica La voce della fogna.

Che cosa avveniva in questi campi dal nome tolkieniano? Quali erano i riferimenti culturali e musicali dei giovani dei Campi Hobbit? Qual è stata la reazione del mondo missino?

Marco Tarchi, all’epoca giovane esponente della sinistra missina e oggi politologo e professore all’Università di Firenze, lo ha raccontato a Spazio70 in un’intervista ricca di spunti e di contenuti, in cui il professore ha ragionato anche sul rapporto tra il mondo di destra e due delle grandi questioni generazionali di oggi: ambiente e diritti LGBT.

Quella dei Campi Hobbit è stata un’emulazione generazionale di iniziative intraprese da coetanei con altre coordinate politiche o c’erano elementi e riferimenti nella cultura di destra che legittimavano quell’iniziativa? Insomma, è stata solo un’infatuazione generazionale, figlia di quei tempi, o qualcosa di più profondo e identitario ha spinto migliaia di giovani neofascisti a partecipare a un evento del genere?

«È stata un’emulazione generazionale, ma non un’infatuazione. Chi ideò i Campi, Generoso Simeone, aveva – come molti di noi – constatato il successo di Parco Lambro e di altri incontri “comunitari” dell’ultrasinistra e pensò che fosse venuto il momento di cimentarsi sullo stesso terreno. Del resto, già dal dicembre 1974 veniva diffusa nell’ambiente una rivista, “La voce della fogna”, che cercava di contrapporre le proprie idee alle altrui senza rifiutare il confronto con gli ambiti in cui si esprimevano gli interessi e le passioni dei coetanei – la musica rock, il cinema, l’ecologia, la critica di costume…»

Nei movimenti völkisch tedeschi si sono visti, già nei primi decenni del Novecento, alcuni campi organizzati da gruppi giovanili di impronta etnonazionalista. È stato uno dei vostri modelli? Come a dire: anche tra i riferimenti culturali del nazionalismo novecentesco europeo c’erano già state esperienze in stile Campo Hobbit.

«No. Direi anzi che i Campi Hobbit sono nati come un’alternativa a quel modello, fatto di marce, attività sportive, prove di resistenza, canti in comune di inni patriottici – modello che, fra l’altro, era presente in altri Paesi in ambienti con cui pure c’erano affinità. Eravamo più influenzati dalla modernità e, forse, più in rottura con stilemi che avevamo fin troppo sperimentato nel microcosmo neofascista “classico”»

Da quale ala missina proveniva il fuoco amico?

«Da quella nostalgica, che si riconosceva in Almirante e, a livello giovanile, in Fini. All’inizio una non celata diffidenza c’era anche in Rauti, che avrebbe desiderato un incontro più “serio”, una via di mezzo tra un convegno e un campo-scuola, e che temeva che gli almirantiani ne facessero un pretesto per attaccarlo in nome di un “deviazionismo”, ma il successo del primo Campo lo convinse che era una carta da giocare per accrescere il seguito interno»

Mediamente, che idea aveva del terrorismo nero un giovane o una giovane partecipante del campo? Si condannava con forza o, più dolcemente, si pensava che fossero camerati che sbagliavano?

«Dalle discussioni che si tennero sull’argomento, emersero atteggiamenti di entrambi i tipi citati, ma una nettissima maggioranza propendeva per una condanna. D’altronde, quella che i campi proponevano era un’alternativa radicale alla tentazione della lotta armata: si cercava di costruire una piattaforma di dialogo critico con i coetanei, non un conflitto frontale. Anche se nel terzo Campo ci fu una infiltrazione di esponenti di Terza posizione, con tanto di scontro durante un concerto. Ma su questo non posso offrire una testimonianza di prima mano: ero partito il giorno prima per una Università estiva del GRECE in Francia»

Quali sono stati, nei Campi Hobbit, gli elementi più significativi di rottura con il passato del neofascismo?

«Nel primo e nel terzo, sicuramente il rifiuto, pratico oltre che teorico, degli atteggiamenti nostalgici, dei richiami al Ventennio o alla Rsi, il distacco dagli stereotipi patriottardi, maschilisti e militaristi che vigevano in gran parte delle sedi missine, il superamento dei tic del “destrismo”. Nel secondo incontro, il tentativo della corrente finiana di impadronirsi della gestione del Campo riportò alla luce una parte di quel fondo»

Quali erano i cantanti o gli intellettuali di sinistra che attraevano i giovani missini del 1977?

«In campo musicale, individualmente ciascuno aveva le proprie preferenze per i cantanti o i gruppi in voga, ma credo prevalessero simpatie per i cantautori italiani non apertamente allineati a sinistra, come Battisti o Baglioni. Branduardi, Battiato e Bennato avevano già i loro estimatori. Mi accorgo ora dell’egemonia dell’iniziale “B”, ma non ci vedo nessun segnale esoterico… Difficile dire se ci fossero simpatie per intellettuali “dell’altra parte”. Se ne subivano così tanto le demonizzazioni e il disprezzo, sarebbe stato difficile ricambiare con la stima. Ad ogni modo, la beat generation, Kerouac in testa, ad alcuni piaceva. Ma si può ricollegarla alla sinistra? Mah…»

Che rapporto avevano i ragazzi dei Campi Hobbit con Julius Evola? Come si poteva conciliare il movimentismo e il ribellismo degli anni Settanta con le teorizzazioni di un autore che ha fatto dell’ apolitia* e del rifiuto della politica rivolta alle masse uno dei suoi cardini?

«A quel tempo, il fascino di Evola iniziava a rifluire negli ambienti del Fronte della gioventù, ma per molti la sua opera era ancora un punto di riferimento. Lo si riteneva l’unico autore in grado di fornire risorse intellettuali alla propria azione: la sua griglia di interpretazione della storia, le sue analisi di taglio metapolitico erano tra i fattori che avevano strappato una cospicua sezione di quell’ambiente al culto delle nostalgie. Le contraddizioni passavano in secondo piano, anche se in chi avrebbe poi animato il progetto della Nuova Destra le critiche al “mito incapacitante” del tradizionalismo (il copyright è di Alain de Benoist, non mio come qualcuno suppone: basta leggere i testi per averne prova) si facevano già strada»

Pino Rauti è stato negli anni Cinquanta evoliano, reducista ed elitista. Negli anni Sessanta reazionario, filo colonialista e legato ai servizi di sicurezza nazionali (si veda «Le mani rosse sulle forze armate»**). Negli anni Settanta come ha potuto rappresentare l’ala movimentista dei giovani missini?

«Questo lo si sarebbe dovuto chiedere a lui. Le evoluzioni non sono così infrequenti in chi coltiva l’arte del pensare. Non sempre, comunque, Rauti concordava con le idee e le iniziative dell’ala giovanile della sua corrente, e in più occasioni ci furono scelte diverse. È però vero che, nel Msi, era lì che trovavano più spazio (o forse, in alcuni casi, più tolleranza) le opinioni eretiche rispetto alla linea “legge, ordine, Stato, Patria” del partito. Anche nel gruppo di Romualdi c’erano aperture – la sua rivista “L’Italiano” fece esordire vari futuri esponenti della Nuova Destra –, ma con maggiori limiti»

Qual è il suo giudizio su Rauti? Su due piani: umano e da studioso.

«Umanamente, era molto diverso da come lo si è dipinto negli ambienti che ne hanno fatto una figura-chiave dell’“eversione nera”, almeno nel periodo in cui l’ho conosciuto e frequentato di persona. Nessun tratto di fanatismo, nessuna rigidità, nessun sussiego da Capo: era piuttosto bonario, direi anche un po’ timido, mostrava più propensione per la lettura che per le arringhe ai fedeli. Questo carattere ha probabilmente fatto da zavorra alle ambizioni che coltivava in campo politico: il mondo missino, soprattutto dopo la lunga gestione “ragionieristica” di Michelini, voleva riconoscersi in oratori trascinanti, in personaggi che volevano incarnare l’idealtipo carismatico, e Rauti non era adatto al ruolo. Era intellettualmente curioso e ha fornito spunti utili alla formazione di molti militanti, soprattutto giovani, e negli anni Settante-Ottanta ha cercato di abbozzare una strategia innovativa e per certi versi coraggiosa ad un partito fossilizzato, senza peraltro riuscire ad incidere in profondità sulla mentalità complessiva dell’ambiente»

Nel 1968, nella celebre battaglia di Valle Giulia – che vide contrapposti studenti e polizia – figuravano anche diversi giovani neofascisti. Nel decennio successivo, si sono visti campi neofascisti in stile Woodstock come a voler mostrare una patente che legittimasse i giovani missini in quanto ragazzi, a tutti gli effetti, figli del proprio tempo. Oggi, a distanza di tanti anni, abbiamo una prospettiva storica più chiara e vediamo che i giovani di estrema destra– sia a livello studentesco, che di sigle politiche,  è come se continuassero a vivere nel proprio mondo: si riuniscono in piccoli cenacoli con pochi contatti – perlomeno espliciti – con gli altri emisferi politici. Eppure negli anni Cinquanta Rauti veniva invitato dai giovani comunisti e andava a parlare nelle sedi del PCI. Perché secondo lei è fallito questo modello, che potremmo definire di «integrazione politica»?

«La colpa è soprattutto degli avversari, che dal 1960 in poi hanno puntato sulla demonizzazione del fascismo e dei suoi eredi per colmare un vuoto di motivazioni che cominciava a farsi sentire, con la progressiva attenuazione dell’attrattiva del modello delle “democrazie popolari” e delle prospettive rivoluzionarie di scardinamento del sistema. Agitare lo spauracchio dell’“eversione nera” e fare di tutte le erbe un fascio – appunto! – era un espediente comodo, cavalcato fin dall’assedio al congresso missino di Genova e ripreso con maggior forza dai gruppuscoli dell’ultrasinistra nati dalla dispersione delle ceneri del Sessantotto. Di fronte a una simile situazione, rinchiudersi nel ghetto dell’autoreferenzialità ed esaltarlo come l’unico rifugio dall’odio circostante era una scelta obbligata. Quando si iniziò a volerne uscire, con esperienze come “La voce della fogna” e i Campi Hobbit, per molti fu uno choc. Poi il Msi si rimise sui binari del continuismo, e la svolta di Alleanza nazionale non solo non riprese i fermenti degli anni Settanta, ma li cancellò con un moderatismo destrorso che li negava alla radice, alimentando una dissidenza giovanile che inevitabilmente ha finito per riancorarsi, con sconcertante anacronismo, ai temi nostalgici dei “fascismi sconosciuti” o dell’“ultima battaglia” di Salò o di Berlino. Il ricorso dell’ultrasinistra dei centri sociali, ormai orfana di qualunque seria velleità anticapitalista, al neo-antifascismo come ragione di esistenza – o di sopravvivenza – ha fatto il resto, rianimando una patetica guerra tra fantasmi di un’epoca che si è chiusa da un pezzo»

Oggi cosa è rimasto a destra di quelle questioni che sollevaste e che sosteneste già nel 1977?

«Poco o nulla, temo. Tant’è vero che il neofascismo è rifluito a destra, cedendo su tutte le questioni su cui si era battuto e piegandosi a quelle influenze conservatrici e liberali che a suo tempo ci si era prefissi di sradicare. E, soprattutto, è stata respinta – senza nemmeno discuterla – la prospettiva di azione metapolitica che dalla metà degli anni Settanta aveva preso corpo con le riviste, con i Campi Hobbit, con molte altre iniziative. Con il risultato che oggi le destre, anche quando in sede locale arrivano al governo, non hanno né idee né una classe dirigente in grado di imprimere un proprio segno, e finiscono per lasciar prosperare il proselitismo progressista in tutti gli ambiti»

Nel celebre documentario “Nero è bello” (1980) di Giampiero Mughini, lei ha descritto il 1968 come un edificio in cui i ragazzi di destra stavano al pian terreno e sentivano un gran fracasso dai piani superiori. Non capivano bene di cosa si trattasse, ma si sentivano comunque coinvolti. Alcune grandi questioni generazionali di oggi sono l’ecologismo e i diritti Lgbt. Secondo lei perché i giovani di destra oggi si pongono nei confronti dei Fridays for Future, o delle questioni legate all’omosessualità, con piglio ostile e di sfida?

«Non collocherei le due questioni che lei evoca sullo stesso piano. Nella visione del mondo che ha innervato il neofascismo e le sue proiezioni evolutive, il rispetto della natura ha sempre avuto un posto significativo. Ciò non significa che aderire ad istanze ecologiste equivalga ad allinearsi alla logica dell’ambientalismo alla Greta Thunberg, che porta con sé istanze tipicamente progressiste come la cancellazione delle frontiere, un irrealistico irenismo, un universalismo a fondamento individualistico che nega ogni specificità ai popoli e alle loro culture e auspica un futuro fatto di società multietniche e multiculturali. Nella stessa cornice si collocano le rivendicazioni Lgbt, che cozzano contro i fondamenti di un pensiero legato all’idea di un ordine naturale irrevocabile. E fra l’ideologia dei diritti e la logica dell’inscindibilità del rapporto fra diritti (individuali) e doveri (collettivi) c’è un abisso incolmabile»

Il fatto che i giovani di destra di oggi abbiano trovato nel nazionalismo, nello sciovinismo, nella difesa dei confini e nel tradizionalismo i propri punti cardinali, è figlio dei tempi esattamente come lo era, per voi, il fatto di organizzare i Campi Hobbit?

«Lo è, nella misura in cui i loro avversari sostengono l’omologazione culturale, la cancellazione delle identità collettive, l’ideologia dei “diritti umani”, la distruzione delle frontiere, i “benefici” dell’immigrazione illimitata, un materialismo pratico che è figlio del più sfrenato individualismo, la libertà di scelta del “genere” a cui si desidera appartenere, e così via. La politica è (anche) conflitto, e su questi terreni non ci può che essere contrapposizione»

Se lei fosse il leader di una immaginaria Nuova Destra del 2021, da quali temi partirebbe per fare in modo che nell’edificio del 2021 i ragazzi di destra non restino al piano terra ma esplorino anche i piani superiori?

«Dalla difesa delle identità e delle culture dei popoli, che fanno la diversità – e quindi la bellezza – del mondo ne è la stella polare. Senza ritrarsi dalle sfide della modernità, ma affrontandole senza cedere alle mode, in un linguaggio adatto ai tempi ma coerente con una precisa visione del mondo»

NOTE

* In Evola, questo termine descrive l’accentramento dell’individuo nella sua dimensione interiore, che deve condurre alla totale astensione da ogni forma di agire politico

** Si tratta di un pamphlet del 1966, scritto da Rauti e dall’agente segreto con simpatie neofasciste Guido Giannettini, pubblicato per mettere in guardia il mondo militare su un sedicente pericolo di infiltrazione comunista all’interno delle forze armate