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Maurizio Giugliano, il «lupo dell’agro romano» (seconda parte)

Matteo Picconi

«Se non mi obbedite vi faccio fare la fine di queste donne. Le ho ammazzate io!»

Sei donne trucidate in soli sette mesi, sei delitti avvolti nel mistero. Il timore che nelle campagne romane si aggiri un serial killer si concretizza già nell’autunno del 1983 ma per avere un vero indiziato bisognerà aspettare l’aprile del 1984 quando il ventiduenne Maurizio Giugliano, già tratto in arresto per altro reato, viene accusato di essere il presunto «mostro di Roma». Nella prima parte si è trattato della sua infanzia violenta, dei continui ricoveri in strutture psichiatriche, dei precedenti per furto, rapina e violenza carnale; si è trattato altresì dei sei delitti susseguitesi dal luglio 1983 al gennaio 1984, ossia di tre prostitute, rispettivamente Thea Stroppa (51 anni), Luciana Lupi (45 anni) e Lucia Rosa (33 anni), uccise in circostanze molto simili, di Giuliana Meschi (31 anni, ex impiegata comunale), Fernanda Durante (53 anni, pittrice) e Catherine Skerl (16 anni, studentessa). Sul presunto coinvolgimento di Giugliano, passato alle cronache come il «lupo dell’agro romano», si apre una vicenda giudiziaria lunga e controversa, che lascerà più ombre che certezze.

«LE HO AMMAZZATE IO!»

Ritaglio de La Stampa del 7 aprile 1984

Per ricostruire l’iter investigativo che porta all’individuazione di Giugliano occorre partire proprio dall’ultimo delitto, quello della giovanissima Catherine Skerl, una liceale di soli sedici anni, ritrovata senza vita in un vigneto nei pressi di Grottaferrata. Svanita nel nulla il tardo pomeriggio del 21 gennaio 1984, la dichiarazione di un testimone sembra sbloccare le indagini: Ketty è stata vista salire in sella a una Vespa in compagnia di un giovane. Un indizio, sulla cui veridicità non si è mai fatta sufficientemente chiarezza, che tuttavia pone definitivamente il ventiduenne di Acciarella nel mirino della squadra omicidi guidata da Nicola Cavaliere.

«A indagare per primo» si legge sul Corriere della Sera del 7 aprile 1984 «su Maurizio Giugliano è stato il commissario del quartiere Prenestino, Rocco Marazzita. Dopo gli omicidi delle sei donne, la polizia era convinta che l’assassino fosse un maniaco. Marazzita si è ricordato di questo giovane, più volte arrestato per furti, rapine, denunciato anche per violenza carnale (…). Il commissario ha preparato una relazione e l’ha inviata al capo della squadra omicidi, Nicola Cavaliere. E le indagini sono andate avanti».

Un ragazzo al dir poco problematico e già noto presso diversi commissariati della Capitale. Non c’è neanche bisogno di dargli la caccia: Giugliano è stato arrestato nel febbraio del 1984, poche settimane dopo il delitto Skerl, per incendio doloso. Dopo un violento diverbio con la suocera, il giovane ha appiccato il fuoco in tutto l’appartamento della famiglia Bussaglia, situato in via Gogol, al Laurentino 38. Inizialmente gli indizi sembrano portare tutti a lui: presso ogni luogo del delitto è stata avvistata una roulotte, come quella in cui il Giugliano e la giovane compagna erano soliti spostarsi tra una periferia e l’altra con molta frequenza; tutte le auto utilizzate dall’assassino, ritrovate abbandonate e incendiate dopo i misfatti, sono state acquistate sotto falso nome, cosa che Giugliano faceva abitualmente; le zone di campagna in cui sono andati in scena i sei casi di femminicidio, seppur separate anche da distanze notevoli, sono luoghi da lui ben conosciuti per i suoi trascorsi familiari. Infine, l’indizio scatenante che lo lega (in maniera, però, molto fievole) al caso Skerl e che ha sbloccato le indagini: Giugliano è solito aggirarsi con una Vespa, armato di coltello.

Indizi deboli, poco più che sospetti, di certo non prove schiaccianti. Mentre è recluso a Regina Coeli in attesa di giudizio per incendio doloso, su Giugliano piombano un ordine di cattura e cinque comunicazioni giudiziarie provenienti rispettivamente dai tribunali di Rieti, Latina e Roma. Mentre si riaprono i dossier e i magistrati accorrono nella Capitale per interrogarlo, dal carcere il presunto mostro di Roma si proclama innocente e si chiude in un rigoroso silenzio. Ma quali sono le prove a suo carico? In primo luogo vi sono alcune sue dichiarazioni, fatte precedentemente al suo arresto. Ed è qui che entrano in gioco le tre donne vicine al ragazzo, in un certo qual modo altre sue «vittime», ovvero la giovane compagna Rosa Bussaglia, la suocera Maria Angelini e la madre del Giugliano. I loro interrogatori risalgono ai primi giorni di febbraio del 1984 e le loro dichiarazioni avranno un peso non indifferente su tutta la vicenda.

«Anche la donna che viveva con lui» si legge su La Stampa del 7 aprile 1984 «i suoi congiunti, contribuiscono, anche se indirettamente, ad accusarlo: Infuriandosi gridava: “Se non mi obbedite vi faccio fare la fine di queste donne. Le ho ammazzate io” e cosi urlando indicava il giornale che dava con evidenza notizie dei crimini. Era una confessione (…)».

Difficile per gli inquirenti stabilire se tali minacce avessero qualcosa di fondato. Certamente la preoccupazione delle donne era reale, tanto da spingere la madre di Giugliano a rivolgersi alle forze dell’ordine nel dicembre del 1983.

«La polizia» si legge su L’Unità dell’8 aprile 1984 «ha raccolto un mosaico di indizi e, soprattutto, testimonianze. Quella della madre, per cominciare, che quattro mesi fa aveva sospettato qualcosa e si era rivolta al commissariato più vicino per scaricarsi un peso che era via via cresciuto nella sua coscienza. Da allora, si è appreso ieri, la polizia aveva cominciato a controllare il giovane, sospettandolo già di essere un pluriomicida».

Una segnalazione, quella della madre, che desta molta sorpresa tra i cronisti di quei giorni: come avrebbe fatto il Giugliano, ormai tenuto sotto controllo, a commettere il delitto Skerl? Potrebbero essere bastati i continui spostamenti con la sua roulotte, avvenuti nelle prime settimane del 1984, a confondere gli investigatori? O, forse, lui non c’entra niente con la tragica fine della studentessa?

Anche le «confessioni-minacce» di Giugliano rivolte ai suoi familiari non costituiscono una prova sussistente, serve ben altro. Ad incastrarlo su uno dei sei delitti, infatti, è un testimone oculare. Si tratta del caso di Giuliana Meschi, l’ex impiegata comunale uccisa nell’immediato entroterra di Sabaudia il 5 agosto 1983. Come si è già accennato nella prima parte, un contadino ha assistito all’aggressione della donna, ha visto un uomo inseguirla e prenderla per il collo; ha visto in faccia lo stesso uomo, allontanatosi a bordo di una Ford Capri. Quando fornì l’identikit agli investigatori nessuno riscontrò la somiglianza col ventiduenne di Acciarella ma sette mesi dopo, nel corso di un confronto all’americana, il testimone lo riconosce senza riserve. È Giugliano, dunque, l’assassino della Meschi. Per gli inquirenti finalmente una prova concreta circa la sua colpevolezza. Ma per gli altri cinque casi?

«NON SI È MOSTRO CON UN FORSE ACCANTO»

Un articolo su Giugliano pubblicato su L’Unità l’8 aprile 1984

«Alto, robusto, aria torva; nomade, ladro, scippatore; violento, psicopatico, arrestato una volta per violenza carnale (…). È lui, dicono, il mostro di Roma».

Apre così La Stampa nel già citato articolo del 7 aprile 1984. Un po’ tutte le testate nazionali cavalcano la notizia della cattura del mostro. Sembrano esserne certi anche gli inquirenti: se è stato lui a uccidere la Meschi, con molta probabilità c’è lo zampino di Giugliano anche negli altri cinque delitti. Eppure, col passare dei giorni, i toni si stemperano drasticamente. Le prove non si trovano e Giugliano non confessa, anzi nega ogni sua responsabilità persino sul caso di Sabaudia. Ad andare controtendenza, da un punto di vista mediatico, vi è L’Unità che in un articolo dell’8 aprile 1984, dal titolo piuttosto esplicito («non si è mostro con un forse accanto»), pone i primi dubbi circa il risultato delle indagini:

«Chiamarlo mostro, assassino, maniaco o in altro modo, è solo questione di buon gusto e di costume giornalistico. Sbatterlo in prima pagina è cosa ovvia. Ma qui il problema è un altro: è che Maurizio Giugliano “forse” è il mostro (…). Ci sembra molto grave la superficialità con cui l’altro ieri la questura di Roma s’è precipitata a far sapere che il giovane psicopatico è sospettato di avere assassinato sei donne. Sarebbe accaduto lo stesso se il presunto mostro fosse stato un ingegnere, un docente, un primario, un impresario? Stentiamo a crederlo».

Le indagini si rivelano complesse o prive di risultati concreti e, su sei delitti, solo per tre casi si arriva a celebrare un processo. Si brancola totalmente nel buio per quanto riguarda le prime due vittime, Thea Stroppa e Luciana Lupi: nessun testimone ha visto le due donne in compagnia di persone sospette, tantomeno di Giugliano. Unici indizi restano le dichiarazioni della madre e della compagna circa le sue «ammissioni» in famiglia che, ovviamente, non bastano a incriminarlo. Nel caso della Stroppa, inoltre, a Giugliano viene riconosciuto il vizio totale di mente e il processo si conclude con un nulla di fatto (riconosciuto socialmente pericoloso ma prosciolto per il reato di omicidio).

Più complessa la vicenda di Lucia Rosa, la giovane prostituta uccisa nell’estrema periferia di Tor de Cenci, a sud della Capitale. Oltre alle già citate dichiarazioni delle donne, nelle cronache si ravvisa che lo stesso Giugliano avrebbe confessato il delitto in fase istruttoria, per poi rimangiarsi tutto di fronte al giudice (atteggiamento che ripeterà anche quattro anni più tardi). In fin dei conti, anche per il fattaccio di Tor de Cenci gli inquirenti hanno pochi elementi a disposizione. Numerosi testimoni hanno notato in più occasioni la giovane prostituta nel corso della giornata del 15 luglio 1983: nessuno di questi ha riconosciuto in Giugliano l’uomo (mai identificato) col quale Lucia Rosa è stata vista allontanarsi circa mezz’ora prima di essere uccisa.

«Il legale Francesco Giuliano» si legge sul Corriere della Sera del 12 aprile 1984 «è ottimista: “il pallone si sta sgonfiando” dice. L’avvocato di fiducia del quasi omonimo sospettato sostiene con forza l’assoluta innocenza del suo assistito: “Un giovane che ha avuto un’infanzia difficile ma che non ritengo capace di commettere le atrocità per le quali, tra l’altro, non è stato ancora incriminato” (…)».

Non vi sono colpi di scena neanche per gli ultimi due delitti, quelli che hanno destato più clamore nell’opinione pubblica, ossia di Fernanda Durante e di Ketty Skerl. Testimonianze anonime, mere supposizioni, nel corso delle indagini non è mai stato provato alcun legame tra le due vittime e il Giugliano. Per quanto riguarda la misteriosa morte della pittrice di via Margutta, trovata senza vita con oltre trenta coltellate nelle campagne di Pratica di Mare la mattina del 31 ottobre 1983, gli inquirenti tentano invano di collegare l’arma trovata sul luogo del delitto con il coltello che Giugliano portava abitualmente con sé. Tra le cronache dell’epoca si legge anche di un anonimo confidente che avrebbe riportato una dichiarazione dell’indiziato circa la sua frequentazione «con una donna ricca». Insomma, poco o niente. Per quanto concerne il giallo della giovane italo svedese, invece, gravano sul Giugliano le dichiarazioni della sua compagna Rosa, la quale affermò di aver visto rientrare il convivente a bordo della sua Vespa nella tarda notte tra il 21 e il 22 gennaio 1984, con i pantaloni sporchi di fango fino alla vita. Particolari che si sommano alla già citata testimonianza anonima di chi avrebbe visto la sedicenne salire, insieme a un altro giovane, a bordo di una Vespa, simile, appunto, a quella del Giugliano. Le indagini non portano a nulla di concreto e i delitti Durante e Skerl restano, ancora oggi, due gialli irrisolti.

Per assicurare Maurizio Giugliano alla giustizia non resta che il caso Meschi, l’unico per cui si arriverà a una condanna. Se nella primavera del 1984 intorno al presunto mostro di Roma si scatena un forte clamore mediatico, nel 1986 il processo celebratosi presso il Tribunale di Latina viene letteralmente ignorato dalla stampa. Nonostante Giugliano non abbia mai confessato, la testimonianza del contadino di Sabaudia non lascia molti dubbi circa la sua colpevolezza: è sulle perizie psichiatriche che la difesa deve giocare le sue carte. Vale la pena ravvisare che nei tre processi che lo hanno visto imputato per tre dei sei delitti finora affrontati, gli esiti delle perizie sono tutti contrastanti tra loro. Come già accennato, quella disposta dalla dottoressa Arioni, in occasione del processo Stroppa, ha evidenziato in Giugliano il vizio totale di mente; nel caso di Lucia Rosa, invece, la perizia del dottor Roberti esclude senza mezzi termini l’incapacità di intendere e di volere dell’imputato. Tornando quindi al processo Meschi, l’esito della perizia disposta dal professor Bedda rileva invece il vizio parziale di mente, rendendo così possibile al collegio giudicante giungere a una sentenza. Per l’omicidio dell’ex impiegata nel giugno del 1986 la Corte d’Assise di Latina condanna Maurizio Giugliano a diciassette anni e otto mesi di reclusione. In Appello il legale Francesco Giuliano, oltre che richiedere le attenuanti generiche, tenta di ottenere la disposizione di una nuova perizia psichiatrica allo scopo di far rilevare nel suo assistito, come nel caso Stroppa, il vizio totale di mente. La Corte d’Appello di Latina, però, rigetta entrambe le istanze e conferma la sentenza emessa in primo grado.

CONFESSIONI DI UNA MENTE «PERICOLOSA»

Agostino Panetta, detenuto insieme a Maurizio Giugliano nel 1987

Mentre il clamore intorno a Giugliano si spegne gradualmente, in seguito al suo arresto nella Capitale permane l’incubo del mostro di Roma. Altre cinque donne, tra il giugno e il dicembre 1984, muoiono in circostanze misteriose. Il 28 giugno Cinzia Travaglia, una ventiquattrenne con problemi di tossicodipendenza, viene rinvenuta cadavere nella sua abitazione al Quadraro; sul corpo i segni delle percosse. Il suo assassino non verrà mai individuato. Il 15 luglio, ad Anzio, presso i giardini di Villa Pamphili, viene ritrovato il corpo semicarbonizzato di Rita Letizia, una ragazza di appena 19 anni. Inizialmente viene accusato il fidanzato, G.V., anche lui diciannovenne, assolto due anni più tardi per insufficienza di prove dalla Corte d’Assise di Frosinone. La sera del 21 ottobre, presso il Parco degli Acquedotti di via Lemonia, a Roma, viene ritrovato il corpo di una ragazza di 26 anni, Marcella Giannitti. Il delitto presenta molte analogie con quelli collegati al Giugliano: parzialmente denudata, diverse ferite alla testa, segni di strangolamento, una pietra che copre il volto. Le indagini non porteranno a nessun sospettato.

Terribile, quanto misterioso, il delitto della «donna decapitata», ossia di Anna Maria Ponzo, una cameriera d’albergo di 46 anni. Il suo corpo senza testa viene ripescato nel Tevere all’altezza dell’Isola Tiberina il 21 novembre 1984. Le indagini si indirizzano su un suo amante, O.M., coetaneo della vittima, agente penitenziario del carcere minorile di Casal del Marmo; ad incastrarlo alcune lettere indirizzate alla vittima. Sembrano prove schiaccianti ma neanche un mese dopo l’uomo viene scarcerato. Solo l’ultimo delitto, quello della prostituta Paola Mainenti, non resta un giallo irrisolto. Il corpo della donna, 31 anni, viene ritrovato sulle sponde del lago di Albano il pomeriggio del 22 novembre (dodici ore dopo il ritrovamento della Ponzo nel Tevere). Analogamente alle altre vittime, sono visibili le percosse al capo e evidenti segni di strangolamento. Sul caso Mainenti, però, gli inquirenti individuano in meno di due settimane il suo assassino: si tratta di Attilio Sestu, manovale di 24 anni, alcuni precedenti per furto. Reo confesso per il fattaccio di Albano, l’uomo viene indagato anche per i delitti dell’anno precedente ma non emergono elementi utili ad incriminarlo.

Se si escludono quindi la Meschi e la Mainenti, nel biennio 1983-84 ammontano a undici i casi irrisolti di donne assassinate. Nell’elenco figurano anche Bruna Vettese, prostituta di 31 anni trovata morta sull’Appia Antica il 19 febbraio 1983, e Regina Gstottenmayer, turista ventenne di origine austriaca, rinvenuta cadavere il 18 agosto dello stesso anno in un canneto nei pressi di Civitavecchia. Undici fatti di sangue che lasciano presupporre l’esistenza di un serial killer ma anche che difficilmente quest’ultimo possa essere individuato nel giovane di Acciarella.

Dopo un breve periodo di detenzione presso l’OPG di Reggio Emilia, nel 1987 Maurizio Giugliano torna nel carcere capitolino di Rebibbia. Per qualche mese divide la cella con Agostino Panetta, conosciuto come il capo della «Banda dell’Arancia Meccanica», un ex poliziotto accusato di aver messo a segno oltre seicento rapine tra il 1979 e il 1983. Con Panetta il giovane si confida, racconta nei particolari alcuni fatti rispetto ai quali si era sempre dichiarato estraneo. È praticamente una confessione; l’ex poliziotto non mantiene il segreto e racconta tutto ai magistrati. È un colpo di scena, da molti inaspettato. Con le dichiarazioni di Giugliano si riaprono due casi rimasti senza soluzione: il già citato delitto di Lucia Rosa e il «delitto del Cavallino», riguardante l’assassinio di Maria Negri, avvenuto molto lontano da Roma, a Punta Sabbioni, poco distante da Jesolo.

«L’inchiesta sulla morte della donna del Cavallino» si legge sull’edizione de La Stampa del 13 gennaio 1989 «segnò il passo per quattro anni; l’unico elemento in possesso degli investigatori era rappresentato dall’ipotesi che la vittima avesse sorpreso l’omicida mentre tentava di rubare in casa sua. Ma sull’identità dell’assassino mancava qualsiasi indizio. Questo fino al dicembre del 1987, quando un detenuto del carcere di Rebibbia, Agostino Panetta, riferì alla magistratura romana che il suo compagno di cella, Maurizio Giugliano (che si trovava in prigione per altri motivi) gli aveva fatto alcune confidenze sull’omicidio del Cavallino».

Ma cosa c’entra il lupo dell’agro romano con un delitto compiuto in Veneto, a oltre seicento chilometri di distanza dalla Capitale? Maria Negri, 51 anni, viene trovata morta nella sua casa-vacanze della piccola località balneare la mattina del 3 agosto 1983, strangolata con un filo elettrico, quello della sua aspirapolvere. Un delitto inspiegabile, intorno al quale gli inquirenti non riescono ad andare oltre l’ipotesi della sconsiderata reazione di un ladro colto in flagrante dalla donna. Questo almeno fino alle dichiarazioni rese da Giugliano ad Agostino Panetta. Francesco Saverio Pavone, magistrato noto per aver sgominato la Mala del Brenta, fa scattare subito l’ordine di cattura nei confronti del giovane romano. Ma cosa ha confessato Giugliano ad Agostino Panetta?

«Siamo di fronte a un fatto così grottesco» si legge su «Malaroma» di Aldo Musci e Marco Minicangeli «da superare anche il surrealismo nero più spinto. Maurizio Giugliano stava viaggiando con la moglie e il cognato. Fra Venezia e Jesolo si era fermato per una sosta, proprio a Punta Sabbioni, per comprare le sigarette. Dirigendosi verso il tabaccaio, aveva notato Maria Negri, affacciata alla finestra e vestita in modo succinto per il gran caldo. Una bella casalinga di cinquantuno anni. Colto da raptus, Giugliano aveva cambiato destinazione. Era entrato dentro il palazzo, salito le scale e suonato alla porta della donna. Appena la sventurata aveva aperto, era piombato dentro aggredendola e strangolandola con il filo dell’aspirapolvere. Finita l’opera, era tornato tranquillamente dai suoi cari che lo attendevano in automobile».

Dopo quasi cinque anni di buio, il caso di Punta Sabbioni sembra quindi vicino a una svolta. Vengono nuovamente interrogati i familiari di Giugliano ma non emergono nuovi elementi; come già successo due anni prima, l’indiziato ritratta ogni sua dichiarazione, sostenendo la propria innocenza. Alla fine del 1989, nell’aula bunker di Mestre, viene assolto per insufficienza di prove. Sul caso Negri si continuerà a parlare negli anni a seguire. Corrado Augias, nel 1990, dedica al «delitto dell’aspirapolvere», come è stato ribattezzato dalla stampa, una puntata di Telefono Giallo. La morte di Maria Negri resterà uno dei tanti casi irrisolti di quegli anni.

Anche per quanto riguarda la tragica fine di Lucia Rosa le dichiarazioni rilasciate a Panetta sembrano seriamente riaprire il caso. Giugliano, inoltre, si mostra collaborativo anche con la magistratura e nel 1988 conferma la sua colpevolezza in merito al delitto di Tor de Cenci (per poi, ancora, dichiararsi innocente in sede processuale). Ma la sua confessione, se messa a confronto con i risultati del medico legale che ispezionò il corpo di Lucia Rosa, presenta molte incongruenze: non coincidono l’ora della morte, gli abiti della vittima, alcune ferite riscontrate sul suo corpo. Giugliano non viene creduto e le sue ammissioni ritenute inattendibili; in sostanza, un mitomane. Il processo si conclude nel 1989 con un’assoluzione per non aver commesso il fatto.

«THE WOLF OF AGRO ROMANO»

Un ritaglio del Corriere della Sera del 22 novembre1989

Nel corso del 1988, mentre si riaprono i casi Rosa e Negri, Maurizio Giugliano viene processato per altri reati minori. Trattasi di alcuni episodi di furto e rapina compiuti tra il 1982 e il 1983. In almeno due occasioni, presso le aule del Tribunale di Roma, il ragazzo dà in escandescenza. Il 27 ottobre 1988, mentre il PM richiede la pena di cinque anni per lui e il cognato Pietro Bussaglia, lancia le manette in direzione della corte.

«La scena non si svolge in un saloon» si legge sul Corriere della Sera del giorno seguente «ma in un’aula di tribunale. È subito il caos, con l’uomo che si scaglia verso il PM, cercando di aggredirlo. I carabinieri, dopo essersi ripresi dalla sorpresa, riescono ad immobilizzarlo».

Scena analoga si ripete l’anno seguente in occasione del processo Rosa: «Prima ha fatto in mille pezzi il verbale che aveva firmato» riporta ancora il Corriere nell’edizione del 22 novembre 1989 «poi ha scagliato una sedia contro la corte (…). Nemmeno i carabinieri sono riusciti a bloccare Maurizio Giugliano: da dentro una gabbia ha minacciato a lungo i presenti nell’aula al primo piano del Palazzo di Giustizia e solo il presidente Francesco Amato, al termine di una estenuante trattativa, è riuscito a convincerlo ad arrendersi e così è stato riportato in cella».

Sono le ultime tracce di Giugliano nelle cronache nazionali, l’ultima immagine di un giovane ormai in preda alla follia. Nel 1990 torna di nuovo in un OPG, questa volta a Montelupo Fiorentino. E lì rimane fino al 1993, quando si rende protagonista di un altro inspiegabile fatto di sangue: un compagno di cella (rimasto perlopiù anonimo nelle fonti che trattano l’episodio) gli nega una sigaretta, lui lo soffoca con un cuscino fino a ucciderlo. L’episodio di Montelupo, pressoché ignorato dai media, è il tragico epilogo di un’esistenza senza pace di un ragazzo disturbato, malato, a soli 32 anni ormai irrecuperabile. Trasferito a Reggio Emilia, muore nel 1994 per infarto.

A distanza di quasi quarant’anni da quel tragico biennio di sangue che sconvolse la Capitale la figura di Maurizio Giugliano riveste ancora un ruolo centrale in tutta la vicenda. Se lette con un occhio distratto, le fonti relative a quei fatti lo inquadrano (senza troppi dubbi) come l’unico responsabile di quei delitti, come il «lupo» che terrorizzava le donne, prostitute o no, di Roma e provincia. Viene annoverato pure nella hall o fame degli assassini seriali italiani come «the wolf of agro romano», ossia su Murderpedia, l’enciclopedia online curata dal giornalista e criminologo spagnolo Juan Ignacio Blanco (recentemente scomparso). Ebbene, non sembra sia andata così, non può affermarsi con certezza che fosse lui il mostro di Roma. Giugliano resta senza dubbio un omicida, accertata la sua pericolosità sociale. Così come non può negarsi che un altro assassino, il vero serial killer, abbia colpito più volte, anche in anni più recenti, e non sia mai stato assicurato alla giustizia.