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Mistero della fede – L’attentato al Papa e le sue ombre. La sfinge di Malatya: Mehmet Alì Agca

Tommaso Nelli

«Chi sono? Un grande esperto dell’uomo, mille volte più di Freud»

Un uomo, tante identità. Assassino, evasore, mercenario, terrorista, bugiardo, pentito, aspirante Nostradamus, scrittore, ecc. Se sull’attentato al Papa dopo quasi quarant’anni incombe ancora il mistero, è anche per la nube di oscurità che tuttora avvolge chi gli sparò: Mehmet Alì Agca. Un vero e proprio enigma vivente.

Nato nel 1958 a Malatya, capoluogo dell’omonima regione del profondo Est della Turchia, da una famiglia povera, dopo le scuole il giovane Alì si trasferisce ad Ankara e con una borsa di studio s’iscrive all’università. Facoltà di Lingue, vuole fare l’insegnante. Pochi mesi dopo è già a Economia e Commercio. Ma la passione per lo studio è ben presto soppiantata da quella per la politica. A destra. Estrema. Comincia a frequentare i Lupi Grigi, organizzazione giovanile e paramilitare del Partito del Movimento Nazionalista fondato dal comandante Alparslan Türkeş messa però al bando dal colpo di Stato, manu militari, del 12 settembre 1980 portato a termine dal generale Kenan Evren. I suoi rappresentanti ripareranno perlopiù in Germania (Francoforte sul Meno) e Svizzera. Ma secondo più voci non sarebbe altro che una cellula di Stay-behind, l’internazionale organizzazione undercover della Nato in Europa, pronta a intervenire in caso d’invasione comunista in uno dei Paesi nella sfera di controllo statunitense.

«AGCA? PROVAVA GUSTO PER COSE PER CUI ALTRI PROVAVANO DISPIACERE»

Agca però non è un militante convinto, animato da uno sciovinismo nostalgico di Ataturk, il padre della patria anatolica. Tutt’altro. Tra le sue frequentazioni ci sono anche esponenti della sinistra rivoluzionaria. Il motivo è semplice: per lui la politica è un mezzo per sfogare le sue pulsioni terroriste. «[…] Aveva creato un’organizzazione, più ristretta, che, pur con l’etichetta di “Lupi Grigi”, in realtà operava in proprio». «Nessun disegno politico avevano i suoi aderenti né un’alternativa politica, ma solo la finalità di distruggere la dominazione turca e destabilizzare il paese facendolo allontanare dalla Nato, collocandolo nella sfera mediorientale anche con l’influenza sovietica», scriveranno di lui i giudici italiani nella sentenza della Corte d’Assise sulla seconda inchiesta sull’attentato a Giovanni Paolo II. Dove la deposizione di un suo compagno al corso per insegnanti, Sedet Sirri Kadem, è utile per tratteggiarne la personalità: «[…]un uomo qualsiasi, intelligente, ma con idee strane, una persona che provava gusto per cose per cui altri provavano dispiacere».

Come un omicidio. Quello del giornalista Abdi İpekçi, direttore del quotidiano Milliyet, freddato da Agca a Istanbul, nei pressi della propria abitazione, il 1° febbraio 1979. Il delitto è paradigmatico per spiegare la sua natura camaleontica e la sua predisposizione alla menzogna. Arrestato il 26 giugno dello stesso anno, durante il processo cambia più volte versione sul movente e sulla dinamica dell’agguato, «negando di essere lui l’assassino […] e sostenendo che alla confessione era stato indotto da un funzionario di polizia […]».

I QUARANTA GIORNI IN BULGARIA NELL’ESTATE 1980

Una perizia psichiatrica lo vuole capace d’intendere e di volere e il 28 aprile 1980 il Tribunale Militare dello Stato di Assedio di Istanbul lo condanna a morte. Ma lui non è più nel carcere di massima sicurezza di Kartal-Maltepe. Perché è già scappato. E non con lenzuola alle sbarre della finestra della cella o attraverso cunicoli scavati nelle mura, bensì uscendo dall’ingresso principale, travestito da guardia, nell’indifferenza generale. Tutto grazie a una divisa e a una cospicua somma di denaro necessaria ad assicurarsi la tacita complicità delle guardie del penitenziario fornite da un boss mafioso, Abuzer Ugurlu. Tra le frequentazioni di Agca, infatti, anche esponenti della malavita organizzata. O sulfurei avventurieri. Come Oral Celik, suo coetaneo e amico d’infanzia, grazie al quale si procura i documenti falsi per riparare in Iran e mettersi al sicuro. Non prima d’aver fatto sapere al mondo le sue intenzioni con una lettera spedita pochi giorni dopo la sua evasione al quotidiano Milliyet nella quale manifestava la volontà di uccidere Wojtyla in occasione del suo viaggio in Turchia (28-30 novembre 1979): «Il comandante di crociate Giovanni Paolo II viene inviato in Turchia dagli imperialisti occidentali perché in questo momento hanno paura dei turchi. Se questa visita non viene annullata, io ucciderò il Papa». Per la cronaca, il viaggio si tenne e Agca né eliminò, e né tento di eliminare, il capo della Chiesa cattolica.

Ci avrebbe provato dopo diciotto mesi mai chiariti, ma fondamentali per conoscere la verità sul suo gesto. Perché il 23 luglio 1980, sotto le mentite spoglie di Joginder Singh e con tremila dollari provenienti sempre da Ugurlu, Agca espatria in Bulgaria. Vi rimane per quaranta giorni, soggiornando nei più lussuosi alberghi di Sofia, nei quali incontra personaggi del crimine internazionale. Fra questi il trafficante di armi e droga Bekir Celenk, al quale attribuirà il ruolo di mente dell’attentato, concepito a suo dire proprio in quei giorni. Viene da chiedersi come fosse possibile che in piena Guerra Fredda due, se non più, malfattori potessero muoversi liberamente nel cuore della capitale di in un Paese comunista, dove i controlli erano estremamente rigidi per evitare contaminazioni col mondo occidentale. Proprio nessuno, ai piani alti dell’esercito e dell’amministrazione politica, era al corrente della loro presenza?

L’ISCRIZIONE SOTTO FALSO NOME ALL’UNIVERSITÀ PER STRANIERI DI PERUGIA

Procuratosi un altro passaporto falso a nome Faruk Özgün (lo stesso ritrovato nella sua camera d’albergo il 13 maggio 1981), Agca si sposta in Jugoslavia, altro Paese comunista, poi a Parigi, a Zurigo (Svizzera) e alla fine di ottobre in Italia, sulle rive del lago di Como. Rimane circa un mese, facendo più di una volta tappa a Milano. Poi un altro tour: Austria, Italia, Tunisia (ad Hammamet…), di nuovo Parigi, infine la Spagna, a Palma di Maiorca. Le ragioni di tanto peregrinare? Pressoché ignote. Lui racconta di visite a connazionali in esilio e d’incontri per definire l’azione di sangue contro Wojtyla o per metterne a punto altre, sempre contro personalità pubbliche (fa i nomi dell’allora primo ministro maltese, Dom Mintoff, e del leader tunisino Habib Bourghiba). Ma poi afferma che erano stati viaggi di piacere: «A Parigi ho abitato […] venti giorni ospite di una ragazza conosciuta in discoteca […] In Palma sono rimasto per due settimane, in un complesso turistico», disse ai giudici Domenico Sica e Achille Gallucci nel suo primo interrogatorio poche ore dopo gli spari di piazza San Pietro. Ancora più misteriosa la sua iscrizione, sotto falso nome, all’Università per Stranieri di Perugia nell’aprile 1981. A meno di un mese dall’attentato. Era appena rientrato dalle Baleari. Doveva sostenere anche lui un B1 d’italiano?

Dettagliare quei viaggi – lui disse d’aver toccato anche la Danimarca e l’Ungheria – sarebbe stato un altro passaggio determinante per individuare chi armò la sua mano. Perché la sua non fu l’azione autonoma di un esaltato. Altrimenti non avrebbe avuto senso peregrinare nove mesi all’estero, da ricercato, col rischio di essere scoperto. Quindi, se si è tratteggiata la provenienza dei soldi di quegli spostamenti, altrimenti impossibili vista la sua nullatenenza e le sue umili origini, una domanda invece è rimasta inevasa: per quale motivo Agca fu trasformato in un girovago di mezza Europa come uno studente alle prese con l’Inter-rail post esame di maturità?

LA «PISTA» BULGARA

Sull’esistenza di una regia occulta un altro indizio arriva dalla prenotazione della stanza all’hotel Isa di via Cicerone a Roma, dove dormì la notte prima dell’attentato. Il titolare della struttura, Maurizio Paganelli, la sera stessa del 13 maggio verbalizzò che «la prenotazione della camera per conto del Faruk è stata effettuata, per telefono, probabilmente il giorno precedente all’arrivo, da un individuo, di voce maschile, che parlava in corretto italiano». Non poteva quindi essere una scelta di Agca – «Il giorno prima di trasferirmici andai personalmente e chiesi se c’era disponibilità di camere» – che non spiccicava mezza parola d’italiano, tanto che negli interrogatori è sempre assistito da un’interprete di lingua turca. Anche quando impara qualcosa del nostro idioma. Avviene nel carcere di Ascoli Piceno, dove è trasferito dopo la condanna, grazie anche a un altro detenuto illustre: Giovanni Senzani, discussa figura delle Brigate Rosse, il cui nome ritorna nell’inchiesta giudiziaria sull’attentato al Papa del giudice istruttore Ilario Martella e che al centro della scena, con la sua ambiguità e la sua predisposizione all’alterazione dei fatti, ha lui, Agca: la sfinge di Malatya.

Dopo aver rifiutato il ricorso in Appello per l’ergastolo – «Considero non valido il procedimento della magistratura italiana nei miei confronti» (23 luglio 1981) – aver incendiato la sua cella e aver ricevuto una visita di due ufficiali dei nostri servizi segreti (fine dicembre 1981) risolta in un nulla di fatto, Agca inizia a collaborare con gli inquirenti. Il 3 maggio 1982 accusa la Bulgaria di essere stata l’ideatrice dell’attentato, al quale hanno partecipato anche alcuni suoi connazionali: oltre a Celik e Celenk, anche Omar Bagci, che gli consegnò la pistola, e Musa Serdar Celebi, presidente della Federazione degli Idealisti Turchi con sede a Francoforte (Germania), alla quale aveva telefonato più volte nelle sue tappe italiche. Se Wojtyla fosse deceduto, a dire di Agca il governo bulgaro avrebbe versato ai Lupi Grigi tre milioni di marchi tedeschi e offerto rifugio per alcuni ricercati turchi nella città di Varna. L’8 novembre 1982, in un album con cinquantasei ritratti fotografici di cittadini bulgari residenti in Italia, sottoposto alla sua attenzione dopo l’acquisizione in copia da un altro procedimento penale del Tribunale di Roma iniziato nel 1981 e a carico anche di Senzani, Alì indica tre uomini che sarebbero stati suoi complici: il caposcalo della Balkan Air, Sergeij Antonov; l’addetto militare dell’Ambasciata di Bulgaria, Jelio Vassilev; il cassiere della stessa ambasciata, Todor Ayvazov. Dice di conoscerli con i loro nomi in codice, rispettivamente Bayramic, Sotir Petrov e Sotir Kolev. Prende il via ufficialmente quella che passerà alla storia come la «pista bulgara».

«QUANTE VERITÀ CI SONO DENTRO DI LEI?»

A demolirla, però, è lo stesso Agca. Già in istruttoria si contraddice su diversi punti mentre in dibattimento emerge la sua indole istrionica e la sua predisposizione all’alterazione dei fatti. Oltre a modificare ripetutamente la versione dell’accaduto – il giudice Severino Santiapichi, presidente della Corte d’Assise, lo incalzerà sul punto: «Quante verità ci sono dentro di lei? Ne costruisce una alla volta. Ha accusato persone che hanno scontato il carcere preventivo. Ha fatto spendere tanti soldi allo Stato in sopralluoghi in piazza S. Pietro, ispezioni, controlli e ora ricambia tutto»Agca rilascia dichiarazione squisite per i riflettori. Fin dalla prima udienza, 27 maggio 1985: «Io sono Gesù Cristo e vi annuncio la fine del mondo in nome del padre grandioso e misericordioso. Tutti sarete distrutti». Niente male come inizio. Una settimana dopo si intesta la patente di «ideologo» e non di «killer». Richiama in causa i russi come mandanti (luglio 1985), aggiusta la versione della consegna della pistola, cambia volti e nomi ai suoi complici, si dichiara «un grande esperto dell’uomo, mille volte più di Freud» (19 luglio 1985). Non pago, si assenta per mesi dalle udienze, poi si ripresenta e minaccia l’irreparabile: «Con la massima serietà vi dico che presto scateneremo la terza guerra mondiale» (3 marzo 1986).

In definitiva, il primo demolitore dell’accusa è il suo costruttore. E se un ergastolano si comporta così, possono essere due le ragioni: è ancora convinto del suo gesto e non vuole che si scopra la verità. Oppure, consapevole di recitare una parte, sa che è il momento di mandare tutto all’aria. Un dilemma rimasto tale. Di certo, tranne Bekir Celenk deceduto nel frattempo, gli altri imputati sono assolti per insufficienza di prove dopo due gradi di giudizio. È il 19 dicembre 1987. Una decisione che scontenta tutti. Perché se da una parte avvalla la tesi del complotto, dall’altra non ne individua i responsabili e non fuga definitivamente le nubi sopra i soggetti coinvolti.

«VOGLIO LA CITTADINANZA VATICANA»

13 giugno 2000. L’allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, su proposta del Ministro di Grazia e Giustizia Piero Fassino e all’indomani di nessuna obiezione in merito da parte della Santa Sede, concede la grazia ad Alì Agca. Il portavoce vaticano Joaquin Navaro Valls fa sapere che Giovanni Paolo II era stato favorevole a questo atto di clemenza. Eppure la verità sul motivo della presenza di Agca nelle nostre galere era ancora un mistero. Dunque perché liberarlo? Soltanto perché il Papa non avrebbe avuto niente da obiettare?

Estradato in Turchia, sconta la pena rimanente per l’assassinio di İpekçi e il 19 gennaio 2010 è fuori. Nelle ore precedenti l’uscita dichiara che appena libero avrebbe rivelato il segreto su piazza San Pietro. Una boutade. L’ennesima. Perché tace e non c’è da meravigliarsi. Fosse stato serio, lo avrebbero zittito del tutto prima che riassaporasse la libertà. Invece è vivo e vegeto. Gli ultimi avvistamenti lo vogliono alla periferia di Istanbul. Ignota la sua sussistenza, immutata la sua teatralità. Afferma che l’attentato fu progettato dalle Brigate Rosse (Corriere della Sera, 27/01/2010), poi che fu ordito dal Vaticano con l’allora Segretario di Stato cardinale Agostino Casaroli come «cervello» (sempre il «Corrierone», 10/11/2010). Nel 2013 nella sua autobiografia scrive che fu voluto dall’ayatollah Khomeini. Infine, dicembre 2014, atterra a Roma. Ha un mazzo di fiori per la tomba di Wojtyla e chiede d’incontrare Papa Francesco per parlargli dell’attentato. Tempo poche ore lo rimpatriano per effetto della legge Bossi-Fini in quanto extracomunitario senza permesso di lavoro. Negli ultimi tempi, oltre a rammentarci su Facebook che lui è «Cristo in terra» (10/12/2017), vuole «la cittadinanza vaticana» (NuovaSocietà.it, 03/09/2019) e dice che il Covid «ha dimostrato la fragilità del sistema satanico mondiale» (sempre NuovaSocietà.it, 19/03/2020). Gli ultimi vaneggiamenti di un personaggio forse indecifrabile anche a se stesso e sul quale la verità è ancora tutta da scrivere.