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Piazza della Loggia. Il racconto di Lucia Calzari, sorella di Clementina Calzari Trebeschi

Redazione Spazio70

«Ci ho messo anni a riprendermi. Mia madre si chiuse in casa. Io e mamma abbiamo continuato a parlare di Clem, a ricordarla nella vita normale, ma non abbiamo mai parlato di piazza della Loggia. Mai una volta»

«Io e la Clem eravamo sorelle gemelle non monozigote. Ci siamo amate follemente, come forse solo i gemelli possono fare. Stavamo bene solo se eravamo insieme e, pur essendo molto diverse, fisicamente e dal punto di vista del carattere, mai si è creata tra di noi una situazione di competizione o di sottomissione. Riconoscevamo una certa diversità che però, stando insieme, diventava un qualcosa di più, non di meno. Avevamo anche costruito una rete di linguaggi che era solo nostra e poi quando vedevamo una cosa bella era ancor più bella se a vederla eravamo insieme. Quando io mi sono sposata, per esempio, in viaggio di nozze con noi sono venuti anche la Clem e Alberto, che nel frattempo era divenuto amico di mio marito. Io e la Clem osservavamo tutto, criticavamo tutto, ridevamo anche molto e ci è sempre rimasta questa voglia di trovare sempre il lato divertente delle cose. La Clem aveva tanta ironia e un po’ anch’io. Ci si poteva divertire con così poche cose. Sì, ci siamo divertite molto.

«CI SIAMO RIBELLATE INSIEME»

I primi soccorsi alle vittime subito dopo l’esplosione della bomba

Io e la Clem venivamo da un’educazione che teneva aperto alle ragazze un unico orizzonte: sposarsi rapidamente e andare a fare le casalinghe. Abbiamo dovuto battagliare per studiare fino alla laurea. Per mio padre, che era del 1899 (avevamo altre due sorelle molto più grandi di noi), le donne dovevano sposarsi presto e stare a casa. Non era quindi il caso di investire negli studi. È stato grazie all’aiuto di mia madre, che era casalinga ma diplomata maestra, che siamo riuscite a studiare, prima facendo la scuola media e non l’avviamento, e poi, sfondata quella porta, affrontando le superiori. Sullo sfondo c’era anche un bilancio familiare molto faticoso. Mio padre era impiegato con uno stipendio abbastanza modesto: ricordo benissimo che lo prendeva il 27 e al 20 del mese successivo non c’erano più soldi. Però, c’era soprattutto quel suo pregiudizio maschilista a rendere tutto difficile. Ogni tappa fu per noi una conquista.

Ci siamo ribellate insieme, ma sempre prendendo le cose con calma e con molta volontà. Mia madre è stata una figura importante, una donna molto intelligente, un po’ vittima del suo tempo, che ha battagliato per noi, senza però mai darci ragione palesemente. Talvolta, infatti, abbiamo creduto che non facesse abbastanza. In realtà credo che mia madre si sia trovata tra due fuochi, da una parte io e la Clem, che non mollavamo mai, e dall’altra mio padre, che ci ha sempre guardato con il rimpianto di non aver avuto un maschio in famiglia.

Tutto questo rese faticosa la scuola: la paura di sbagliare toglieva gioia allo studio, un voto negativo era minaccioso come una catastrofe. Però la Clem era molto brava: prendeva le borse di studio e aveva sempre la media dell’otto o del nove. Io invece ero solo “abbastanza brava”. Anche per questo alle superiori frequentammo due scuole diverse. Lo decidemmo noi, perché fino alle medie, per risparmiare sui libri, ci avevano sempre messo nella stessa classe e talvolta questo era stato motivo di sofferenza. Per colpa della scuola però: essendo la Clem bravissima, se le cose le facevo giuste era per merito suo mentre se le facevo sbagliate era colpa mia. “Il compito è fatto bene, però…”, “Il tema è scritto bene, però è molto simile all’altro…”: figuriamoci, leggevamo le stesse cose, al cinema si andava una volta ogni tanto e insieme ci scambiavamo tutte le informazioni, i punti di riferimento erano gli stessi. E così la Clem andò alle magistrali, io a ragioneria. Lei, del resto, era molto brava in campo letterario e non potendo andare al liceo doveva comunque fare una scuola umanistica, così per me non restò che ragioneria. Cioè due scelte-non scelte, nel senso che erano dei diplomi professionalizzanti, che almeno dopo cinque anni potevano darti il lavoro. Comunque separarsi fu un bene anche per il nostro rapporto che divenne ancora più aperto, più libero.

«ANDARE A MILANO? ERA COME ANDARE SULLA LUNA»

Finì prima la Clem perché faceva quattro anni, mentre ragioneria erano cinque. Fu lei ad aprire la pista. Un giorno dichiarò che voleva andare all’università e questo sconvolse tutti, anche me. Dicevamo: “Tanto non ce la fai…”. Ovviamente, per la situazione familiare, non perché non fosse capace. Mio padre disse di no subito. Per lui poi l’idea che la Clem prendesse il treno per andare avanti e indietro con Milano era semplicemente sconvolgente. La facoltà di magistero, infatti, era solo a Milano. Non posso fare alcun paragone, non posso neanche dire fosse come oggi andare in America. Andare a Milano era come andare sulla Luna.

Cosa fece allora la Clem? Andò a Milano a trovarsi un lavoro, dopodiché tornò e disse: “Sono andata a Milano e ho trovato un lavoro”. Infatti aveva trovato un lavoro in un educandato femminile, dove doveva fare la sorvegliante. Era un collegio in cui al pomeriggio avrebbe dovuto aiutare le studentesse a fare i compiti: di mattina, però, era libera, quindi poteva frequentare l’università e pagarsi quasi completamente le spese. Per mio padre, in realtà, la paura era l’altra: che l’universo ci aspettasse in agguato dietro l’angolo.

Comunque, lei disse che sarebbe andata, punto. Noi piangevamo per l’imminente separazione implorando mio padre di cedere. Solo alle otto della mattina in cui la Clem doveva partire (aveva la valigia pronta, aveva stabilito che doveva essere a Milano a mezzogiorno, lei era così) mio padre disse: “Va bene, rimani”. Quel gesto fece ovviamente esplodere la gioia di tutti, anche della Clem alla quale l’idea di andare in un ambiente di suore non è che piacesse molto.

«LA CLEM RIUSCIVA A GUADAGNARSI SPAZI DI LIBERTÀ INCREDIBILI»

La piazza pochi istanti dopo l’esplosione

Io e la Clem avevamo avuto un’educazione rigorosamente religiosa, ma già da qualche tempo, verso i quindici anni, avevamo deciso di non frequentare più la Chiesa. Ne avevamo lungamente discusso e avevamo stabilito che quel problema doveva essere chiuso. E nostra madre aveva rispettato la nostra decisione. Quel giorno, comunque, lo segnammo nel calendario delle vittorie solenni, di quelle che si dovevano ricordare. Poi tutto andò molto bene, perché la Clem trovò rapidamente lavoro facendo abbastanza supplenze da pagarsi le tasse universitarie, i libri e in seguito anche per aiutare in casa. Un anno dopo finivo io, ma la pista era già aperta. Però non volevo pesare sulla famiglia, e poiché avevo avuto un buon punteggio di diploma dopo un mese mi offrirono un lavoro.

Era uno di quei posti che si ritenevano “belli”, che però mi avrebbe impedito di fare qualsiasi programma di studio, perché lavoravo dalla mattina alla sera. Allora trovai alla Sip un posto di telefonista. Pensavo di farcela a reggere sei ore di lavoro al giorno, e altre sette o qualcosa di più di studio. L’impatto col lavoro però fu molto duro per me. Questa è un’esperienza che la Clem non ebbe perché entrò nel mondo della scuola dove i datori di lavoro, i presidi, erano molto autoritari, molto duri.

Poi ce l’ho fatta, economia e commercio. Avrei voluto fare lingue, ma a quel tempo ero costretta a usare le ferie per fare gli esami (infatti non le ho fatte per cinque anni) e quindi sarebbe stato impossibile andare all’estero. Aveva senso? Allora, con la mia preparazione l’unica facoltà possibile era Economia e Commercio.

Quando mi sono iscritta all’università sarà stato il ’62. La Clem allora viveva già molto intensamente. Lei aveva l’estate libera perché insegnava mentre studiava e quindi raggranellava soldino su soldino per fare le vacanze ed è stata la prima che ha comperato la macchina, la famosa “500” con le portiere controvento. Fu un evento epocale. Ovviamente andava in vacanza con le amiche, almeno ufficialmente. La Clem riusciva sempre a guadagnarsi incredibili spazi di libertà all’interno di casa nostra. Era bravissima in questo: lei annunciava alla famiglia che avrebbe fatto questo, dopodiché nessuno osava quasi più dirle “ma”. Allora mio padre lo diceva a mia madre, la quale prendeva me che avrei dovuto dirlo alla Clem. Così si accettava tacitamente che io sapessi tutto, mia madre due terzi e mio padre quasi nulla. Avevamo capito che meno sapeva, meglio stava.

LA SCELTA DEL MATRIMONIO CIVILE

Nel ’65 una ragazza sola che prende la macchina e va a Napoli e dintorni era inconcepibile. La Clem partiva. Partiva con una sua amica e dividevano le spese in due. Ricordo che un anno era andata a Parigi con Livia, stettero via venti giorni, e anche lì un’avventura, i soldi erano pochi, andarono via col treno, allo sbaraglio, e tornò con un pacco di fotografie, scattate da non so chi, che ritraevano la Clem assieme a un ragazzo di colore. “Clem, ma sei matta a farle circolare?”, e lei: “Perché, che cosa c’è?”, “Cosa c’è?”, risposi io, “C’è che qui già un meridionale lo considerano uno straniero”. La Clem non si rendeva conto che un po’ bisognava mediare. Ma nessuno la poteva fermare.

Nel ’67 mi sono sposata. Lì la pista l’ho aperta io, che avevo spuntato il matrimonio civile. Alberto aveva fatto il testimone a Giorgio e solo un mio zio, stranissimo, aveva fatto il testimone a me. Non c’erano né mia madre e neanche i genitori di Giorgio, che però ci aspettavano, c’erano i nostri amici. Ci eravamo persino dimenticati di comprare gli anelli. Me lo ricordo come fosse ieri: andiamo in Municipio a sposarci e la funzionaria, che era una democristiana arrabbiatissima di dover celebrare un matrimonio civile, a un certo punto disse: “Scambiatevi gli anelli”, io guardo Giorgio e a quel punto Alberto, che si rende conto che non avevamo gli anelli, a bassa voce dice all’assessore: “Non ce li hanno, vada avanti”. Questa non sente, non capisce, ripete la domanda e Alberto, sempre con voce contenuta: “Non ce li hanno, vada avanti”. Questa continua e Alberto, credendo di tenere sempre la voce molto bassa, ma nel frattempo nella sala si era fatto un silenzio assoluto, con la sua voce ormai diventata altisonante: “Non ce li hanno, vada avanti!”.

Naturalmente, quando siamo usciti, risate colossali. Ma il peggio doveva ancora venire: arrivati a casa, dove c’erano i miei genitori e i genitori di Giorgio, la prima cosa che mi chiesero fu di far vedere l’anello. Lì fu una catastrofe.

Più tardi Alberto propose alla Clem di convivere: lei disse che era d’accordo, ma che non voleva creare problemi a mia madre. Noi abbiamo sempre rispettato molto mia madre. Se era necessario contrastarla, lo si faceva, altrimenti no. Ma quando la Clem spiegò a mia mamma che avrebbero voluto convivere, lei sbottò: “Volete farmi morire prima del tempo!”. Alberto le disse che non aveva saputo convincerla, che ci sarebbe andato lui. Infatti ci andò, ma fu mia madre a convincere lui. Poi fecero le cose così velocemente che tutti pensarono che ci fosse da nascondere chissà che. Per noi tutto questo era ovviamente oggetto di grandi risate.


Nello sposarmi io avevo dovuto licenziarmi perché mio marito, per punizione, dalle Officine meccaniche di Brescia era stato mandato all’Om a Suzzara. Lui faceva il caposquadra e aveva organizzato uno sciopero dei capisquadra, che credo sia stato il primo e forse l’unico in Italia.

L’INGRESSO NEL SINDACATO

Così, appena laureata, io avevo cominciato a fare domande in tutte le banche. Le risposte non le ho più, ma le ricordo benissimo perché ne avevo tappezzato l’intera parete del tinello dove mangiavamo. Si andava dal banale “non abbiamo bisogno” a qualcuna che invece, onestamente, dichiarava i reali motivi per cui ritenevano di non aver bisogno di me. Ero una donna e, per di più, sposata. Ne avevo riempito una parete! Mi ricordo che i nostri amici, quando vedevano questa tappezzeria si fermavano a leggere.

Poi finalmente sono riuscita a entrare nella scuola, che non aveva preclusione per le donne. Era arrivato intanto il ’68, io entrai a settembre. Ebbi subito incarichi continuativi, però non è che sapessi insegnare; anzi all’inizio odiavo abbastanza il mio lavoro. Avevamo trenta alunni per classe, pluriripetenti, io ero piccola di statura, molto più piccola dei miei alunni che mi mangiavano gli gnocchi in testa! C’era un clima da guerriglia, lo ricordo tuttora. Decisamente lì mi sono fatta la stoffa, nella mia vita di insegnante non ho mai più avuto problemi disciplinari. Di quei ragazzi, poi, ho dei ricordi bellissimi.

Infine siamo tornati anche noi a Brescia. Ricordo che avevo appena messo le tende in casa, a marzo, quando arrivò Giorgio e disse: “Lettera. Siamo rispediti a Brescia”. Proprio come dei pacchi postali, però eravamo felici di ritornare a casa. A Brescia ho ritrovato il gruppo: la Clem insegnava già, insegnava anche Alberto, con Livia, poi, avevamo un’amicizia che datava dai tempi della scuola. Con Giulietta lavoravamo nel sindacato da anni. Bontempi era un insegnante dell’Itis, amico di Alberto, e lo tormentava costantemente affinché si iscrivesse al sindacato. La Cgil scuola si era appena costituita, Alberto aveva avuto per un po’ la tessera del Pci, poi si era allontanato, non l’aveva rinnovata per vari motivi. Così cominciammo a frequentare il sindacato. La molla è un po’ quella che dicevo: arrivando nella scuola per insegnare abbiamo trovato, ahimé, la stessa scuola che avevamo frequentato noi, una scuola contro gli studenti. Era proprio un’organizzazione che escludeva, con tassi di ripetenza e di abbandono vertiginosi, una divisione di classi esplicita, perché c’erano i bravi nella “A” e i meno bravi a scendere. Poi questo autoritarismo veramente insopportabile e un isolamento asfissiante rispetto al mondo di fuori. Ricorderò sempre, ed era già il ’74, una preside che commentò: “Se la Clem fosse rimasta a casa a far da mangiare per il marito”. Ecco, questa è stata la molla per dire “no”. Quindi cominciammo le prime vertenze. Ricordo le prime assemblee per i decreti delegati, il primo quadro normativo di una certa apertura che riguardava i lavoratori della scuola. Furono anni molto intensi. Fino al ’74. Io e la Clem avevamo trentadue anni.

«CI RIUNIMMO SOTTO I PORTICI, ACCANTO A UN CESTINO DEI RIFIUTI»

Il punto in cui è esplosa la bomba (foto di Stefano Bolognini)

Il 28 maggio c’era lo sciopero proclamato dai sindacati confederali, io andai al corteo con la Clem e ricordo che arrivammo in piazza parlando del più e del meno. Pioveva e la Clem e Alberto avevano lasciato a casa Giorgino, che portavano quasi sempre con loro. Mio marito faceva servizio d’ordine per la Fiom. La piazza era molto affollata, anche se era una mattinata molto grigia. Qualche giorno prima c’era stata la morte di un fascista saltato per aria sulla moto mentre trasportava una bomba. Il clima politico era teso, però nessuno di noi aveva l’idea che potesse accadere qualcosa. Poi la piazza era l’occasione per stare insieme e vederci, così ci trovammo tutti lì. Per ripararci dalla pioggia ci riunimmo sotto il portico, dove stavamo anche molto stretti. Proprio accanto a un cestino dei rifiuti.

Alberto fu scaraventato a metà della piazza, la Clem fu praticamente annientata e poi Livia, Giulietta, Pinto…

Si creò un prima e un dopo. Prima era il mondo della scoperta, delle idee, delle discussioni, della crescita, dello stare insieme per capire, per divertirsi, per vivere. Dopo era un vuoto, un buco, come se tutto si fosse fermato. E poi le forze che non c’erano più e poi la perdita enorme. Ci ho messo anni a riprendermi. Mia madre si chiuse in casa. Io e mamma abbiamo continuato a parlare di Clem, a ricordarla nella vita normale, ma non abbiamo mai parlato di piazza della Loggia. Mai una volta. È stato molto duro, molto duro.

«HO PERSO UN TIMPANO. IL FIGLIO DELLA CLEM? TROPPO SIMILE A LEI…»

Oggi cammino, faccio tutto. Ma allora, per riabituarmi a stare in mezzo alla gente ce n’è voluta: per me due persone erano una folla, mi terrorizzavano. Andai tantissimo al cinema per rieducarmi a stare insieme agli altri, pensavo che se ogni giorno stavo insieme alla gente, in un ambiente buio, forse…

Il problema è stata la labirintite che è il motivo per cui, poi, ho fatto la preside. Avevamo sempre pensato che non dovessimo occupare i posti di comando, perché si conta alla base. Quello era uno dei nostri miti, ma ahimé ci siamo accorti che non è così. Comunque, a parte questo, non potevo più restare in classe, nel senso che se due persone parlavano insieme per me tutto diventava incomprensibile.


Adesso poi ho perso completamente il timpano, quindi ho risolto il problema. Sono solo sorda da un orecchio. Ora pure in pensione. Continuo a dare una mano, vado al sindacato tutti i giorni.

Il figlio della Clem? Giorgino è cresciuto bene con Arnaldo, il fratello di Alberto, e con Luciana. Loro avevano già tre figli, due gemelle e un maschio più o meno dell’età di Giorgio. Io l’avrei voluto tenere, ma la mie condizioni inizialmente sembravano disperate. Fra l’altro la Clem e Alberto abitavano nell’appartamento sopra a quello del fratello e della cognata e appena accadde il fatto Arnaldo portò immediatamente Giorgino al piano terra. Nonostante fosse molto piccolo Giorgio rimase molto scioccato: riteneva che tutti quelli che uscivano da una stanza non sarebbero più ritornati. Ha vissuto in braccio a Luciana per un anno intero, prima di normalizzarsi. Devo però dire che poi è cresciuto bene, tranquillo. Oggi è laureato in Economia e Commercio, ha girato mezzo mondo, lavora a Londra in una grande banca. Credo proprio che Giorgio sia il figlio che la Clem e Alberto avrebbero desiderato: molto bravo a scuola, molto affettuoso, sensibile, generoso, intelligente. E però Giorgio ha il carattere, la stoffa della Clem. È determinato, sa quel che vuole e sa anche come fare ad arrivarci. Forse è per questo che con lui non sono riuscita ad avere un gran rapporto.

Le assomiglia troppo, me la ricorda troppo»
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[Le dichiarazioni di Lucia Calzari sono tratte da una intervista pubblicata sul sito unacitta.it]