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«Fora i mati, dentro Basaglia». La smobilitazione del manicomio di Trieste

Redazione Spazio70

Da un articolo di Piero Fortuna per «Epoca» (1977)

«Fora i mati, dentro Basaglia». Le scritte tracciate con lo spray campeggiano sulle facciate delle case in alcuni quartieri di Trieste. Ma lo psichiatra alza le spalle e il suo largo viso segnato da profonde occhiaie si raggrinza in un sorriso divertito. «Sono provocazioni. Ma noi non siamo da meno. Aver deciso di chiudere il manicomio di Trieste e di liberare i ricoverati non è un avvenimento che possa passare sotto silenzio, senza suscitare reazioni».

Veneziano, 53 anni, taglia atletica, il professor Franco Basaglia, direttore dell’ospedale psichiatrico di Trieste, parla strascicando le parole nella cantilena veneta. Da quindici anni è al centro di violente polemiche, di complicate vicende giudiziarie dalle quali è uscito sempre indenne. I suoi libri – Che cos’è la psichiatria, L’istituzione negata, Morire di classe, La maggioranza deviante, Crimini di pace – gli hanno procurato popolarità internazionale. Ora è di nuovo alla ribalta per aver deciso di chiudere il manicomio triestino, il che è avvenuto in occasione di un tumultuoso convegno internazionale sulla psichiatria alternativa che si è svolto a Trieste la settimana scorsa «per una verifica», mi spiega Basaglia, «e una conferma del nostro lavoro» (oltre alla verifica e alla conferma di questo lavoro, il professore al termine del convegno, strattonato e spintonato da un gruppo di contestatori francesi che lo accusavano di essere comunque prigioniero dell’aborrito sistema, ci ha rimesso una costola; ma sono cose che capitano di questi tempi, quando ci si occupa di emarginati e di emarginazione).

IL MANICOMIO DI TRIESTE CHIUDE I BATTENTI

Franco Basaglia

In sintesi, la teoria di Basaglia è questa: nel suo insieme, la malattia mentale – ma il professore preferisce chiamarla «sofferenza psichica» – è come le altre malattie; il prodotto di un ambiente degradato, di una società che emargina coloro che non producono. Quanti la patiscono possono essere recuperati, se si instaura un nuovo rapporto tra la società e il malato. E questo rapporto passa attraverso la distruzione dell’ospedale psichiatrico, l’abolizione della segregazione. «In sostanza noi abbiamo scoperto che l’ospedale psichiatrico, di per se stesso, è un luogo di malattia e di infezione, e che l’unica cura possibile è restituire il malato al suo ambiente naturale, facendo in modo che questo ambiente lo accolga, aiutandolo a superare l’angoscia, la sofferenza psichica».

La conversazione avviene nell’ufficio del professore, al manicomio San Giovanni di Trieste. Dappertutto sono visibili i segni della smobilitazione. Decine di gatti giocano nelle aiole fiorite davanti ai padiglioni abbandonati. Qua e là scritte sui muri: «La libertà è terapeutica», «Vogliamo pane e una rosa». Chiunque può entrare in questo ospedale e percorrerne i viali alberati. In giro c’è poca gente e non si distinguono i ricoverati dagli infermieri, dai medici, dai visitatori occasionali. L’atmosfera è tranquilla, venata da una impalpabile tristezza. Basaglia mi intrattiene nella sala di riunione, con i tavoli bianchi e gli scaffali semivuoti, attorniato dai principali collaboratori, i dottori Domenico Casagrande, Giorgio Cogliati, Massimiliano Del Sasso, Mario Novello, Vincenzo Pastore e il sociologo Gabriele Marucelli. Nessuna formalità, nessun sussiego, nemmeno un accenno di quella sacralità, tipica dei nostri ambienti ospedalieri.

Il manicomio di Trieste dunque sta chiudendo i battenti e ne seguiranno fra qualche tempo l’esempio quelli di Perugia, Arezzo, Ferrara e Napoli. Si tratta comunque di una chiusura simbolica, perché vi rimarranno in funzione i reparti di accettazione e alcuni padiglioni nei quali sono stati ricavati gli alloggi per i malati che fuori non saprebbero dove andare. Una decisione così importante è stata presa d’accordo con l’amministrazione provinciale e con i partiti politici della città. In realtà la chiusura del manicomio è in atto dal 1971 quando Basaglia ne assunse la direzione dopo avere diretto il manicomio di Gorizia e per un breve periodo quello di Parma.

«I MATTI PERICOLOSI? ANCHE I SANI LO SONO»

A quell’epoca i ricoverati erano 1300 dei quali quasi due terzi coatti. Ora ve ne sono 100, di cui 20 o 30 coatti, più un altro centinaio di vecchi che si possono considerare guariti dal punto di vista psichiatrico e che di mano in mano vengono dimessi e sistemati negli appartamenti affittati in città dall’amministrazione provinciale. «Lo sfollamento dell’ospedale», spiega Basaglia, «è costato molto lavoro. Si è dovuto reintegrare i degenti nei loro diritti civili e sociali, fargli ottenere le pensioni alle quali hanno diritto e che assieme al sussidio corrisposto all’amministrazione provinciale gli consentono di pagare simbolicamente la pigione». Si è dovuto anche preparare l’opinione pubblica a una innovazione così sconcertante e che comunque è avvenuta per gradi. Tutto questo è certamente bello, edificante. Ma esistono anche convinzioni e paure da superare. «I matti, non sono pericolosi? Non si abbandonano ad atti di violenza? Non uccidono?». Basaglia fa una smorfia. «Anche i sani di mente sono pericolosi. Si abbandonano ad atti di violenza, uccidono. La verità è che si tratta di una problema sbagliato. Sulla scia di una legge del 1904 che considera il malato di mente pericoloso per sé e per gli altri, la psichiatria tradizionale è diventata una scienza di bravi carcerieri ai quali tocca di separare il malato dalla comunità. Noi riteniamo, invece, che la malattia mentale, prima ancora di essere un fatto organico, una alterazione metabolica, è la spia di un disagio psichico che tutti proviamo, sia pure con diversa intensità. Essa è uno stato di adattamento che va curato conducendo un po’ alla volta il malato alla realtà, inserendolo in un ambiente il più possibile normale. Dunque fuori dal manicomio».

D’accordo, fuori dal manicomio. Ma allora, chi si prende cura di questa povera gente e dove? «La fine dell’istituzione manicomiale», spiega pazientemente il professore, «non significa che il sofferente psichico venga lasciato in balia di se stesso. Al contrario. E’ seguito giorno per giorno, ventiquattrore su ventiquattro, nel suo faticoso reinserimento sociale». Per questo, Trieste è stata suddivisa in cinque zone di intervento, in ciascuna delle quali vi è un centro di «salute mentale» di cui si occupano due medici, gli infermieri e gli assistenti che prima lavoravano all’ospedale psichiatrico. Invece di essere avviati al manicomio e, in ogni caso, dopo un paio di giorni trascorsi nel reparto accettazione, i malati vengono mandati al centro dal quale dipende il rione in cui abitano. E qui il personale li mantiene sotto il controllo medico e psichiatrico, alloggiandoli nel centro stesso o assistendoli nelle loro abitazioni, oppure ospitandoli negli appartamenti d’affitto in cui vivono in piccole comunità seguiti da psicologi, infermieri, oltre che dai medici.

«LA VITA COMUNITARIA ESERCITA UNA INFLUENZA BENEFICA»

Comunità terapeutica di Trieste costituita da pazienti dimessi dal manicomio

I risultati di questa terapia sono spesso sorprendenti. La dottoressa Maria Grazia Cogliati, che si occupa del centro di Barcola, mi racconta il caso di un ottantenne, un ex marinaio, che l’inverno scorso stava per morire di freddo in un fienile dell’altipiano carsico e che si era ridotto a condurre una vita puramente vegetativa. «Bene, l’abbiamo alloggiato assieme ad altri vecchietti in una villetta e in pochi mesi è migliorato al punto che adesso è in grado di badare a se stesso». La medesima cosa può dirsi per altri malati. C’è una vecchia che per oltre quarant’anni è rimasta chiusa in manicomio e che ora, nell’appartamento in cui l’hanno sistemata, sembra rinascere. «Certo», spiega la dottoressa, «non può considerarsi completamente recuperata alla vita normale, però anche lei bada a se stessa, aiuta a sbrigare le faccende domestiche, insomma, si rende utile: all’ospedale era una specie di relitto; pareva irrecuperabile, aspettava soltanto di morire».

Nel giardinetto del Centro, seduto su una poltroncina di vimini, un uomo anziano, minuto, sta contemplando un fiore. Il suo sguardo è sereno. Faceva il minatore in Belgio e rimase vittima della tragedia di Marcinelle in cui morirono molti italiani. Riuscì a salvarsi, ma un incubo tremendo lo accompagnò per molto tempo. E così dovettero ricoverarlo in manicomio. «Ma fuori dall’ospedale», egli dice, «mi sento meglio. Qui tutti si occupano di me, faccio qualche lavoro, sto dimenticando». In un ampio alloggio che la provincia ha preso in affitto vicino alla stazione, un gruppo di donne, fra i 30 e i 60 anni, tutte ex ricoverate nel manicomio di Trieste, stanno pranzando. L’ambiente è accogliente, alle pareti qualche acquerello, sul comò e sui tavolini accanto al divano e alle poltrone vi sono mazzi di fiori. Le donne scherzano fra loro e l’invito di uscire tutti insieme a prendere il gelato le riempie di allegria. «La vita comunitaria», spiega la dottoressa Congliati, «la possibilità di ritrovarsi in un ambiente confortevole e non già nel lager manicomiale, esercitano una influenza benefica, le placano, le tranquillizzano, assorbono dolcemente le loro tensioni».

TRIESTE REAGISCE IN MANIERA POSITIVA

Alcune hanno alle spalle disastrose esperienze familiari alle quali reagirono rifugiandosi nell’abbrutimento dell’alcool. «Qui hanno ritrovato serenità e l’alcool non gli è più necessario». Un’altra forma di terapia è quella del lavoro. Così è stata costruita una cooperativa regolarmente riconosciuta dal Tribunale e iscritta alla Camera di commercio che ha in appalto lavori di pulizia nei cinematografi e nei locali pubblici della città. Il compenso orario per gli ex degenti dell’ospedale psichiatrico che ne fanno parte è di 1200 lire, al netto dei contributi assicurativi. Il oro salario può raggiungere così 150 mila lire al mese dalle quali vengono detratte 15 mila lire per il rimborso delle spese di vitto e alloggio.

E quelli che non possono lavorare? Vengono assistiti, come si è visto, dai centri di sanità mentale nei quali funziona anche una mensa e l’ora dei pasti mi assicurano è uno dei «momenti» più importanti della nuova terapia, assieme alla possibilità di uscire insieme per le vie della città, di recarsi, accompagnati, al caffè o al bar. Per coloro che hanno maggiormente bisogno di cure, funziona nel bellunese un centro installato in una bella villa veneta dove i malati godono di un vero e proprio trattamento alberghiero. Quanto viene a costare tutta questa organizzazione? «Se si riferisce alla vacanza in montagna», precisa Basaglia, «la retta individuale non supera le 11 mila lire al giorno, incluse le spese per i medici e gli infermieri. All’ospedale psichiatrico, invece, la spesa sarebbe di 35 mila lire. In prospettiva, pertanto, il nuovo modo di assistere i sofferenti psichici costa meno che nel passato».

Trieste, una città che ha antiche e solide tradizioni civili e culturali, sta reagendo in maniera positiva alla svolta clamorosa proposta da Basaglia. Naturalmente sussistono perplessità, preoccupazioni, molta gente scuote la testa dubbiosa. Tuttavia, a parte le scritte «Fora i mati, dentro Basaglia», non vi sono clamorose prese di posizione. Vi è caso mai una diffusa curiosità per le provocazioni del professore. Tre anni fa egli sbalordì i triestini organizzando per le vie del centro una sfilata di quattrocento malati di mente preceduti da un grande cavallo azzurro, di legno e cartapesta, costruito dagli ospiti dell’ospedale psichiatrico e simboleggiante la libertà. Alla sfilata seguì il battesimo dell’aria di un centinaio di ricoverati che volarono sopra la laguna venera a bordo di un Dc 9 dell’Ati. «Anche questa gita», dice Basaglia, «fu una manifestazione emblematica di libertà, a parte il fatto che tutti si divertirono moltissimo». Il professore si accarezza distrattamente i capelli che gli piovono sulla fronte. «Se dovessi riassumere la reazione della città alla chiusura del manicomio, mi rifarei a quello che un giorno mi disse un tassista al quale avevo chiesto che cosa pensasse dell’ospedale psichiatrico e di quello che vi andava accadendo. Rispose: “E’ come un albergo. La gente entra, fa l’amore, poi se ne va”. E’ un concetto molto bello. Contiene un sottile, insospettato, legame affettivo».