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Ferimenti e omicidi. I «Proletari armati per il comunismo»

Redazione Spazio70

Il ruolo chiave dei «pentiti» nella disarticolazione di una organizzazione armata caratterizzata da due «anime», quella lombarda e la veneta

Dopo una prima fase dedicata prevalentemente al compimento di rapine contro esercizi commerciali – armerie comprese – i cosiddetti «Proletari armati per il comunismo» feriscono, nel maggio 1978, Giorgio Rossanigo, medico del carcere di Novara, e Diego Fava, medico fiscale di Milano.

Antonio Santoro

Nel documento di rivendicazione delle due azioni – intitolato «Contro i medici sbirri di Stato» – vengono elencate le professioni che i Pac considerano rientranti nella categoria dei cosiddetti «gendarmi diffusi» o «cittadini poliziotti»: in massima parte commercianti – che nel tempo si sono dotati di armi da fuoco – ma anche sindacalisti, magistrati, «sbirri di custodia» e appunto medici operanti in ambito carcerario o nel campo delle visite fiscali.

Si tratta, secondo i Pac, di figure professionali funzionali alla ripresa di quello nei documenti di rivendicazione viene definito «comando capitalistico»: in un «contesto controrivoluzionario» dicono in sostanza i Pac, ogni cittadino, specie se inquadrato nelle professioni citate, è capace di svolgere un ruolo che va «dalla delazione alla denuncia» fino alla pratica «diretta o indiretta di forme di violenza antiproletaria».

Nel volantino fatto ritrovare dai Pac si accusa Rossanigo di aver partecipato, nella sua qualità di medico, a quello che viene definito «programma di annientamento dei proletari prigionieri all’interno del nuovo carcere speciale di Novara», mentre a Fava vengono imputate visite fiscali troppo rigorose secondo una logica volta allo smantellamento di ogni pratica di rifiuto del lavoro e dello sfruttamento.

GLI OMICIDI SANTORO, SABBADIN E TORREGIANI

Il 6 giugno 1978, i Pac uccidono Antonio Santoro, comandante degli agenti di custodia del carcere di Udine.

Nonostante la sua sia una posizione ad altissimo rischio, Santoro suole recarsi a lavoro ogni mattina a piedi. Lungo il percorso incrocia e supera una coppia che si scambia tenere effusioni amorose, ma quando il comandante è ormai andato avanti di qualche metro il giovane si separa dalla ragazza ed esplode alcuni colpi di pistola alle spalle dell’agente. Il documento di rivendicazione diffuso dai Pac subito dopo l’omicidio Santoro si intitola «Contro i lager di Stato»: nel volantino si afferma che il carcere esplica «una funzione di annientamento» tale da giustificare «azioni militanti» esercitate in un contesto di «contropotere di massa».

Il 16 febbraio 1979 i «Proletari armati» portano a termine l’omicidio dei commercianti Lino Sabbadin, a Mestre, e Pier Luigi Torregiani, a Milano.

Sabbadin è il titolare di una macelleria, mentre Torregiani è un gioielliere. Entrambi girano armati: Sabbadin ha da poco reagito a un tentativo di rapina, uccidendo un malvivente, mentre Torregiani è reduce da una sparatoria in ristorante nella quale un rapinatore è rimasto ucciso per mano di uno dei commensali. Il commerciante mestrino viene colpito con quattro colpi di pistola all’interno della sua macelleria: due colpi vengono sparati quando l’uomo è già stramazzato al suolo, con la chiara intenzione di finirlo. Sabbadin verrà caricato agonizzante su una autoambulanza, ma giungerà cadavere all’ospedale di Mirano. Anche Torregiani viene attinto da diversi colpi: i primi finiscono sul giubbino antiproiettile indossato dal gioielliere, mentre altri due finiscono sul fianco e alla testa dell’uomo. Nella sparatoria resterà ferito anche il figlio del commerciante, Alberto, che rimarrà paralizzato a vita.

IL COLLETTIVO AUTONOMO DELLA BARONA

Lino Sabbadin

Subito dopo l’agguato a Torregiani, un testimone segue l’auto dei terroristi e assiste al prevedibile cambio di vettura da parte degli assassini: da una Opel, utilizzata per la prima parte della fuga, a una Renault parcheggiata a pochi chilometri dal luogo dell’agguato.

I numeri di targa finiranno subito alla polizia, con gli agenti che avranno quindi modo di risalire rapidamente a un diciannovenne attivo nel collettivo autonomo della Barona: il suo nome è Sante Fatone e poche ore più tardi gli investigatori sono già a casa sua. La nipote, interrogata dagli inquirenti, dice subito che la sera prima aveva visto lo zio tagliarsi barba e capelli, visibilmente agitato.

La stessa nipote racconta ancora di sapere qualcosa della prima parte della fuga dello zio: Fatone si era fatto accompagnare a casa di un’amica – Annia Casagrande – dove c’erano altri giovani tra cui, Sisinnio Bitti, Sebastiano Masala e Pietro Mutti, tutti noti alla nipote di Fatone che agli inquirenti riferisce anche della discussione in atto su un omicidio e sul modo per sottrarsi alla ricerca della polizia. Masala e Mutti si danno alla latitanza, mentre Bitti e Casagrande vengono immediatamente rintracciati dalle forze dell’ordine e interrogati.

Sisinnio Bitti presenta un alibi che risulterà vero per il giorno dell’omicidio Torregiani, ma confermerà nella sostanza il racconto fatto dalla nipote di Fatone: dichiara quindi di aver saputo dell’uccisione del gioielliere milanese, nell’appartamento della Casagrande, dalla viva voce di coloro che lo avrebbero commesso cioè Fatone, Masala e Mutti (che poi verrà assolto per insufficienza di prove).

I «PAC» UCCIDONO ANDREA CAMPAGNA

Annia Casagrande dichiara di aver dato ospitalità a Fatone, per una sola notte, ma soprattutto, dopo qualche resistenza, finisce per dire il nome di un ulteriore uomo visto dalla nipote dello stesso Fatone: è Gabriele Grimaldi, il suo ragazzo. A questo punto scatta l’accusa di omicidio volontario per Mutti, Masala e Fatone: tutti e tre sono latitanti. Anche Grimaldi viene ricercato dalla polizia, ma risulta pure lui irreperibile. Mentre le indagini vanno faticosamente avanti, i Pac uccidono un agente della Polizia di Stato: è Andrea Campagna, autista presso la Digos di Milano.

Siamo nell’aprile del 1979 e l’agguato si realizza sotto l’abitazione della fidanzata del poliziotto: un uomo dei Pac sbuca all’improvviso da dietro un’auto e colpisce mortalmente il poliziotto che si accingeva a salire sulla propria vettura. Nel volantino di rivendicazione Campagna viene definito «torturatore».

Una svolta alle indagini della polizia si determina quando gli inquirenti concentrano le attenzioni su Pietro Mutti, legato sentimentalmente a una studentessa universitaria: il suo nome è Enrica Migliorati. La ragazza, quando si reca a Milano, ufficialmente per ragioni di studio, risiede in via Caselfidardo 10, nell’appartamento dell’amica Silvana Marelli.

Qualche informatore della polizia dice che l’appartamento della Marelli potrebbe essere frequentato da uomini dei Pac: la perquisizione domiciliare porta al sequestro di armi ed esplosivi. Il risultato è l’arresto della padrona di casa e dei quattro giovani che sono assieme a lei nell’appartamento: tra questi c’è anche Cesare Battisti che, già ricercato per una rapina a Latina, presenta false generalità ma viene riconosciuto e identificato.

L’INTERROGATORIO DI WALTER ANDREATTA

Pierluigi Torregiani

Una perquisizione nell’appartamento di Maria Pia Ferrari, sospettata dalla Digos di aver avuto contatti con militanti di Prima linea, porta all’arresto della stessa Ferrari e di Giuseppe Memeo per detenzione di armi. Nell’appartamento viene ritrovato anche un volantino di rivendicazione degli omicidi Torregiani e Sabbadin.

Nell’ottobre 1979 si svolge un’altra perquisizione domiciliare ai danni di Walter Andreatta, nell’ambito di indagini su Prima linea: ad Andreatta vengono sequestrati contrassegni assicurativi provenienti da una rapina ai danni di una agenzia milanese. Il passo successivo è l’interrogatorio al quale Andreatta viene sottoposto, volto a verificare eventuali contatti con Memeo e Maria Pia Ferrari: le risposte del giovane fanno emergere stretti rapporti non solo con Giuseppe Memeo, ma anche con quel Gabriele Grimaldi – il già citato fidanzato di Annia Casagrande – ancora latitante.

Andreatta dice che Memeo e Grimaldi sono amici e che la sera del 18 febbraio si sono presentati a casa sua armati di revolver, preoccupati che la polizia potesse risalire a loro tramite Annia Casagrande. I due raccontano ad Andreatta di aver sparato a Torregiani, ma nonostante questo ottengono ospitalità per la notte. Il giovane precisa agli inquirenti particolari che non lasciano dubbi circa la conoscenza degli eventi: Torregiani aveva risposto al fuoco, ma la versione riportata dalla stampa era sbagliata perché il figlio del gioielliere era stato colpito accidentalmente dal padre e non da Memeo e Grimaldi. Sono proprio le dichiarazioni di Andreatta a portare all’incriminazione di entrambi per l’omicidio Torregiani.

LA PAROLA FINE SUL DELITTO TORREGIANI

Qualche giorno dopo, Andreatta è pervaso dai sensi di colpa per aver parlato: nonostante i gravi reati che gli vengono contestati si preoccupa più per le conseguenze delle sue dichiarazioni agli inquirenti che per la sua posizione.

Scrive quindi una lettera a Radio Black Out nella quale esprime la volontà di voler ritrattare tutto di fronte agli inquirenti in modo tale da potersi riscattare, almeno in parte, di fronte ai propri compagni dall’aver fatto la «spia». La lettera viene comunque intercettata dalla polizia giudiziaria e quando Andreatta ritratterà effettivamente le proprie dichiarazioni davanti ai giudici, le sue parole non avranno alcun effetto processuale di riguardo.

Nelle prime settimane del 1980 vengono arrestati Masala e Grimaldi: gli alibi forniti dai due si riveleranno completamente falsi. Nel maggio 1981, la Corte D’Assise milanese condanna Grimaldi, Memeo, Masala e Fatone come autori materiali dell’omicidio Torregiani: i primi due hanno esploso i colpi di pistola contro il gioielliere, con Masala a fare da terzo e Fatone da autista.

Pietro Mutti, ancora latitante, viene assolto per insufficienza di prove dall’accusa di omicidio, ma condannato per banda armata: verrà arrestato solo nel gennaio 1982, rendendo un’ampia confessione e ottenendo sconti di pena nel secondo processo che confermerà per tutti il verdetto di primo grado.

La Cassazione metterà la parola fine sul delitto Torregiani nel dicembre 1984 secondo un quadro probatorio e processuale che troverà ulteriore conferma a metà anni Ottanta quando Memeo, Masala, Grimaldi e Fatone diranno a chiare lettere di essere stati i quattro autori materiali dell’omicidio del gioielliere milanese.

LA FORMULA DEL «PATTO SOCIALE»

Andrea Campagna

Una analisi più approfondita del contesto nel quale matura il doppio delitto Sabbadin-Torregiani non può prescindere dai documenti stilati dai Pac. Nelle loro teorizzazioni i Proletari armati per il comunismo utilizzano la formula del cosiddetto «patto sociale» per spiegare una sorta di funzione di «supplenza» esercitata da talune categorie di cittadini armati di fronte alla inefficienza della macchina repressiva-giudiziaria statale: i cittadini, dicono in sostanza i Pac, si armano per sopperire al vuoto istituzionale in un contesto di gravissima crisi dell’ordine pubblico.

In questo quadro, Torregiani e Sabbadin vengono intesi quasi come due figure paradigmatiche dei «cittadini poliziotti» di cui si trova traccia nei primissimi documenti di rivendicazione firmati dai Pac.

Sabbadin viene ucciso due ore dopo Torregiani con quattro colpi calibro 7,65. Mutti e Fatone sono concordi nell’indicare, come responsabili dell’omicidio, Diego Giacomini, Paola Filippi e Cesare Battisti. Le parole di Giacomini spiegano bene la fretta dei «compagni» di Milano che avrebbe portato alla individuazione di Sabbadin: non riuscendo a individuare gli altri nominativi segnalati dallo stesso Giacomini, si sarebbe scelto di colpire il macellaio soltanto perché più noto.

LE DUE «ANIME» DEI PAC

Il ruolo di Giacomini, inoltre, avrebbe dovuto essere in un primo momento molto più limitato, soltanto quello di avviare la cosiddetta «inchiesta» cioè la raccolta delle informazioni sui potenziali obiettivi da colpire. Fatone conferma i nomi di Battisti, Giacomini e Filippi in ordine al delitto Sabbadin: dice di averlo saputo da Sebastiano Masala. La contemporaneità della duplice azione contro Sabbadin e Torregiani viene poi spiegata dallo stesso Masala al giudice istruttore come rispondente a una volontà di dare «maggiore risalto» possibile a entrambe.

Nell’interrogatorio dibattimentale, Fatone spiega poi che il coordinamento tra le due azioni venne curato da Battisti e da Masala. In particolare Mutti sostiene che era stato proprio Battisti a fare da «cerniera» tra le due anime dei Pac: quella veneta facente capo a Giacomini e Filippi e il gruppo lombardo facente capo a Masala, Memeo, Fatone e Grimaldi.

Mutti e Fatone raccontano poi di una riunione svoltasi a Milano, pochi giorni prima degli omicidi Sabbadin e Torregiani, convocata da quella parte dei Pac che aveva deciso di ritirare il proprio appoggio all’azione: secondo Mutti, Battisti si sarebbe presentato per dire che la opposizione di alcuni non gli interessava, visto che in Veneto era tutto pronto per l’uccisione di Sabbadin. Una versione, questa, in parte confermata anche da Cavallina che però non fa esplicitamente il nome di Battisti.

OMICIDIO TORREGIANI. BATTISTI CONDANNATO PER CONCORSO MORALE

Battisti

In sostanza Battisti, Giacomini e Filippi vengono condannati come autori materiali dell’omicidio Sabbadin sulla base delle chiamate in correità, fatte nei loro confronti da Mutti e Fatone, i cui contenuti vengono poi confermati anche dalla confessione dello stesso Giacomini. Quest’ultimo, in virtù della sua dissociazione, non fa il nome del compagno che entrò con lui nella macelleria di Sabbadin, ma si limita a dire che faceva da anello di congiunzione tra i compagni di Milano e il Veneto, vale a dire Battisti.

In particolar modo, Battisti viene condannato anche per concorso morale nell’omicidio Torregiani: le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e le dichiarazioni di Cavallina, Masala e Giacomini hanno portato i giudici a ritenere che Battisti abbia partecipato a tutte le riunioni preparatorie dell’azione contro il gioielliere.

Una volontà di uccidere Torregiani (e Sabbadin) manifestata anche in occasione della già citata riunione di Milano nella quale alcuni Pac decisero di prendere le distanze dagli omicidi commessi