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L’omicidio di Pierluigi Torregiani

Redazione Spazio70

Come esecutori materiali verranno condannati Giuseppe Memeo, Gabriele Grimaldi e Sebastiano Masala

Milano, 22 gennaio 1979. È un tranquillo lunedì sera per la pizzeria «Transatlantico» in via Malpighi 3, zona Porta Venezia. Verso il fondo del locale siede una comitiva di sette persone, venuta a farsi una pizza dopo una televendita presso l’emittente locale «Antenna 3» di Castellanza.

Per approfondire: «L’utopia armata», Giampaolo Pansa, 2006

Parte attiva di quel tavolo è una vistosa signora, Adele Bianchi, che ha fama da parapsicologa. I sette mangiano più o meno spensieratamente la pizza quando, verso mezzanotte, la Bianchi inizia a sfilarsi bracciali e anelli per posizionarli ordinatamente davanti al piatto: «Questa sera c’è nell’aria qualcosa che non va», dice agli amici, «qualcosa di brutto». Gli altri la guardano e iniziano a preoccuparsi: la Adele ci aveva già preso altre volte. «Mi scusi, cameriere, non è possibile chiudere la porta del locale?», fa la signora. «Da noi al Transatlantico non si usa», risponde l’uomo, «perché non c’è alcun pericolo».

Nel tavolo della Bianchi c’è anche un commerciante ben consapevole del fatto che Milano sia diventata da almeno dieci anni una città pericolosa. L’uomo porta sempre con sé una Smith&Wesson calibro 38 regolarmente denunciata. Non si sa mai possa servire per un mestiere come il suo che attira i ladri: nella vita fa il gioielliere. Quando la mezzanotte suona e il calendario segna già martedì 23 gennaio 1979, entrano due strani tipi con il bavero del cappotto alzato. Uno dei due arriva fin in fondo al ristorante; impugna una rivoltella e, come nei film, grida la frase di rito: «Questa è una rapina! Tirate fuori tutto quello che avete!». Praticamente tutti seguono il consiglio, ma non appena il rapinatore arriva al tavolo della signora Bianchi si sente prendere il polso: è il gioielliere con la calibro 38. Quando il bandito chiama il complice, inizia la sparatoria.

Uno dei commensali che stava al tavolo con la Bianchi e il gioielliere, fugge terrorizzato verso l’uscita: arriva alla porta del locale, ma quando forse pensa di aver guadagnato la salvezza viene fulminato da una scarica di colpi partiti da un terzo complice appostato all’esterno del ristorante a far da palo.

«NON SONO UN CACCIATORE DI TESTE»

Poi, all’improvviso, tutto finisce. Sul terreno resta un secondo uomo: è uno dei banditi che aveva lottato col gioielliere. Proveniva dalla provincia di Enna, trentaquattrenne a Milano da tempo, ma senza fissa dimora. Anche il commerciante che aveva mostrato grande determinazione e una certa dimestichezza con il suo revolver è ferito, ma solo di striscio: il suo nome è Pierluigi Torregiani.

Non era stata una notte tranquilla. A Novate Milanese un paio di banditi entrati in una tabaccheria avevano accoppato uno dei clienti. In via Moscova, a Milano, due anziane sorelle erano state ammazzate nel salotto di casa, di sera, da uno sconosciuto introdottosi nell’appartamento: stavano guardando alla tivù «Anatomia di un omicidio».

Di quale pasta fosse fatto Torregiani lo si era visto anni prima. Nel 1970 gli avevano scoperto un male terribile: cancro al polmone. Ricoverato all’Istituto tumori, se l’era cavata. In quell’ospedale aveva conosciuto tre fratellini: Alberto, il più piccolo, poi Anna e Marisa. Erano orfani di padre e la madre stava morendo. Quando rimasero soli al mondo, Torregiani trovò il modo di adottarli tutti insieme e così i tre ragazzi divennero suoi figli.

Pierluigi Torregiani

Torregiani aveva una gioielleria in via Mercantini, a Milano. E come tanti altri piccoli esercenti della zona era impaurito. Aveva addobbato il suo negozio come un bunker: vetri antiproiettile, porta blindata, più un percorso molto complicato, anch’esso ben protetto, per raggìungerlo. E poi l’inseparabile calibro 38.

Quando i quotidiani del giorno dopo escono in edicola, spicca su tutti il resoconto offerto da Repubblica nel quale si descrive Torregiani come una sorta di cacciatore di teste alla ricerca di rapinatori da accoppare.

La lettera di rettifica dello stesso Torreggiani serve a poco. Cominciano le telefonate notturne: «Porco, ti faremo fuori», «Perché vai in giro con il cannone? Preparati la cassa».

Torregiani ha paura: acquista un giubbotto antiproiettile e si abitua a portarlo sempre così come aveva cominciato a fare da tempo con la sua calibro 38.

IL GIUBBOTTO ANTIPROIETTILE NON SALVA TORREGIANI

I funerali di Torregiani

Venti giorni dopo il sanguinoso episodio della pizzeria, in un piovoso venerdì pomeriggio milanese, Torregiani si fa accompagnare in auto al negozio dalla figlia Marisa: c’è anche Alberto, il figlio più piccolo. A poca distanza dalla serranda del negozio, ci sono alcuni giovani nei pressi di una Opel Ascona color giallo.

Uno di loro chiama Torregiani, ma il gioielliere non fa nemmeno in tempo a voltarsi che due dei tre ragazzi inizia a sparare. Torregiani risponde al fuoco, ma viene colpito più volte: si accascia al suolo e accanto a lui, per terra, c’è Alberto colpito alla schiena. Il padre rimane sull’asfalto, morto. Il giubbotto antiproiettile non gli è servito a nulla: cinque colpi lo hanno raggiunto alle gambe, al torace e alla testa. Alberto, invece, viene portato subito all’ospedale Maggiore: qui gli scoprono una pallottola nella settima vertebra. Lesione del midollo spinale e paralisi a vita.

Una imponente operazione della polizia porta all’arresto di due uomini sospettati di essere gli esecutori materiali dell’omicidio: Sisinio Bitti, un sardo di 32 anni, e Marco Masala, di 19, compaesano di Bitti.

Assieme ai due, vengono arrestati, sotto imputazioni diverse, tre donne e quattro uomini, più un sospettato che li raggiungerà a San Vittore nei giorni successivi. Sono quasi tutti autonomi gravitanti nella zona del Naviglio Grande. Ben presto si scopre però che la polizia ha fatto un buco nell’acqua: Bitti e Masala hanno due alibi inattaccabili e pure gli autonomi vengono scarcerati uno alla volta.

In dichiarazioni ai giornali, e in particolareggiate denunce alla magistratura, gli arrestati affermano di aver subito percosse da parte di alcuni uomini della Squadra mobile.

Sisinnio Bitti: «Sono finito in uno stanzino con circa dieci agenti Digos. Quando mi hanno invitato a denudarmi ho provato a rifiutarmi, ma mi sono saltati addosso spogliandomi completamente. Mi sbattono su un tavolo al centro della stanza, mi legano mani e piedi con le manette e me ne fanno di tutti i colori. Mi vengono i brividi solo a ricordarlo. Mi hanno messo i cerini accesi sotto i piedi e sotto i testicoli: un altro mi ha messo una coperta sul torace e picchiava con un bastone. Infine mi hanno portato sotto un rubinetto dell’acqua dove era inserita una pompa in plastica: me l’hanno infilata in bocca e lo stomaco si è riempito come un pallone. Poi me l’hanno schiacciato con un ginocchio per quattro o cinque volte fino a quando non ho cacciato fuori lo stomaco intero».

Mentre montava la polemica sui supposti maltrattamenti e la Questura respingeva ogni sospetto, la storia cominciata in una anonima serata di gennaio presso la pizzeria Transatlantico vede irrompere sulla scena proprio il gruppo di killer che ha ucciso Torregiani: è infatti la banda stessa a dar prova dell’omicidio e a raccontarlo in una cronaca scritta.

«POSSIAMO DIMOSTRARE COME SI È SVOLTA L’AZIONE»

Tre giorni dopo l’arresto degli autonomi, i veri responsabili del delitto Torregiani diffondono a Milano un breve volantino, privo di sigle, nel quale si indica l’esatto tipo di proiettile con il quale è stato colpito il commerciante. Ma è ai primi di marzo che un giornalista della redazione milanese di Repubblica trova nella propria auto una busta arancione con una piccola scatola.

Nella busta c’è la dinamica del delitto: «Possiamo dimostrare come si è svolta l’azione di via Mercantini. Possiamo dimostrare che non siamo stati noi a colpire il figlio di Torregiani, ma è Torregiani che ha sparato contro il figlio con la sua calibro 38. L’azione contro il commerciante è stata decisa dopo l’assassinio di un giovane proletario al Transatlantico».

Nella scatola che accompagna la cronaca c’è un contenitore con sei proiettili calibro 357 magnum e un biglietto: «Diamo la scatola originale dei colpi usati nell’azione con le pallottole e dichiariamo che sul cadavere di Torregiani abbiamo lasciato un paio di occhiali da sole di tipo Lozza di cui nessun giornale ha parlato». Sì, è vero, sul corpo dell’orefice vengono trovati degli occhiali di quel tipo, un particolare conosciuto soltanto ai giudici, alla polizia e agli assassini. Qualche giorno più tardi escono da San Vittore Bitti e Masala più i restanti autonomi arrestati nelle settimane precedenti.

Alberto Torregiani testimone nel processo

Il gruppo di killer di Torregiani resta a Milano e nel primo pomeriggio del 19 aprile 1979 compie l’ultimo atto di una serie di azioni iniziate al Transatlantico. È un giovedì quando una 127 arriva in via Modica: dall’auto scende un tizio dai capelli chiari. Il giovane risale per la via e arriva fino al numero 15: aspetta qualcuno, ma non lo dà a vedere perché si ferma dietro la carcassa di una 600 accanto alla quale sta parcheggiata un’Alfasud.

Qualche minuto dopo l’attesa dello sconosciuto viene premiata: dal portone escono due uomini, un giovane e un anziano. Quest’ultimo sale sull’Alfasud, aiutato dal ragazzo che poi aggira la macchina per sedersi al posto di guida. In quel momento il biondo sbuca da dietro la 600 e con una pistola a tamburo gli spara contro: cinque colpi, di cui uno in faccia, l’altro al torace. L’uomo steso per terra, accanto all’Alfasud, è Andrea Campagna, 25 anni, agente di polizia. Da tre anni autista alla Digos, non ha mai partecipato ad azioni di rilievo. L’unica sua colpa è quella di essere stato ripreso da un operatore tivù nel giorno dell’arresto degli autonomi del quartiere.

Passano altri tre giorni e il 7 febbraio a Milano uno dei testimoni dell’inchiesta viene ucciso a rivoltellate mentre va a lavorare: è il geometra William Vaccher. Aveva 26 anni. A rivendicare il delitto, questa volta, è Prima Linea secondo la quale Vaccher aveva compiuto un’opera precisa e documentata di delazione. È il vero epilogo del caso Torregiani, una vicenda che con Vaccher ha fatto cinque morti.