Qui potrai trovare una vasta rassegna di materiali aventi ad oggetto uno dei periodi più interessanti della recente storia repubblicana, quello compreso tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Ottanta del secolo scorso.
Il sito comprende sei aree tematiche e ben ventidue sottocategorie con centinaia di pezzi su anni di piombo, strategia della tensione, vicende e personaggi più o meno misconosciuti di un’epoca soltanto apparentemente lontana. Per rinfrescare la memoria di chi c’era e far capire a chi era troppo giovane o non era ancora nato.
Buona lettura e non dimenticare di iscriverti sulla «newsletter» posta alla base del sito. Lasciando un tuo recapito mail avrai la possibilità di essere costantemente informato sulle novità di questo sito e i progetti editoriali di Spazio 70.
Danilo Abbruciati, la famiglia De Pedis, una tomba e tanti misteri. A cominciare da un uomo sconosciuto che il 13 giugno 1990 si presentò agli uffici del cimitero del Verano di Roma per chiedere e ottenere che le spoglie del «Camaleonte» lasciassero il posto a quelle di Antonio De Pedis, padre di Enrico. C’era però un problema in quella domanda e non di poco conto: quell’uomo non esisteva. Mise per iscritto di chiamarsi Enrico Branceto e di essere nato e abitare nella Capitale. Ma non era vero. Al pari degli estremi del suo documento di identità: «È palesemente falso, perché non risulta alcuna persona con i dati anagrafici indicati e non risulta che il Comune di Roma abbia mai rilasciato una carta d’identità con quel numero».
A fare questa scoperta, gli uomini della Squadra Mobile di Roma. Non all’epoca dei fatti, bensì vent’anni dopo, tra la seconda metà di marzo e l’inizio di maggio del 2010, durante le indagini sulla scomparsa di Emanuela Orlandi. All’epoca «Renatino» giaceva sempre nei sotterranei della basilica di S. Apollinare e gli inquirenti avevano deciso di saperne di più sui luoghi di sepoltura della sua famiglia.
Mai avrebbero immaginato di imbattersi in una storia così inquietante, che qui raccontiamo per la prima volta e che tra i suoi protagonisti annovera soprattutto il «Lord Brummel del crimine». Cioè Danilo Abbruciati, così definito dal «Corriere della Sera» all’indomani della sua morte. Era il 27 aprile 1982 quando da Roma, dove era nato trentotto anni prima, salì a Milano per attentare alla vita di Roberto Rosone, vicepresidente del «Banco Ambrosiano» di Roberto Calvi. Lo attese fuori dalla sua abitazione, in via Oldofredi, poco dopo le 8 del mattino, e gli sparò alle gambe con una «Beretta» calibro 7,65. Ma non fece in tempo né a terminare la sua azione e né a fuggire. La pistola si inceppò (quattro colpi rimasero inesplosi), lui saltò sulla motocicletta guidata dal suo complice, Bruno Nieddu, ma dopo poche decine di metri cadde esanime sull’asfalto, ferito mortalmente alla schiena dai colpi di pistola esplosi da una guardia giurata intervenuta non appena si era resa conto della scena che si stava materializzando davanti ai suoi occhi.
Mai si è saputo «chi» e «perché» avesse commissionato ad Abbruciati quell’operazione. Addosso gli fu trovato un pacchetto di fiammiferi con scritto il nome di Ernesto Diotallevi, uno tra i più noti pregiudicati romani per usura e riciclaggio di denaro. Fu imputato e poi assolto insieme al noto faccendiere Flavio Carboni nel processo per stabilire i mandanti di quell’attentato che sancì il punto di non ritorno tra le due anime della «Banda della Magliana», i cosiddetti «Maglianesi» e gli altrettanto giornalisticamente inventati «Testaccini», ai quali apparteneva lo stesso Danilo Abbruciati. I primi non digerirono che i secondi li avessero tenuti all’oscuro di quell’agguato, grazie al quale si scoprì come «Er Camaleonte» avesse con sé ben due permessi di guida internazionali: uno rilasciato dal Nicaragua e uno dalla Nigeria. Un’informazione subito trasmessa alla Direzione del SISDe di Roma, cioè il servizio segreto civile, dal mittente però ancora coperto dal segreto nonostante la declassificazione dell’atto.
La corrispondenza non fu episodica. Perché la notizia fu confermata il 13 maggio successivo, salvo cambiare in parte l’11 agosto. Quando un altro telex, prosecuzione dei precedenti come si può notare dai riferimenti nelle date, affermava che entrambi i documenti erano stati rilasciati dalla Nigeria.
Quei permessi di guida rinvigoriscono gli interrogativi su chi fosse davvero quel criminale che sparava in doppio petto bianco e completo di grisaglia. Come mai ne fruiva? E perché si recava in quei Paesi? Per conto di qualcuno? Per esempio, gli stessi servizi segreti con i quali aveva avuto più rapporti anche in carcere – «Sono provati per loro stessa ammissione […] gli incontri presso il laghetto dell’EUR (tra Danilo Abbruciati e Mario Fabbri, direttore del centro Roma 2 del SISDE) e […] un colloquio non autorizzato tra Danilo Abbruciati e Giancarlo Paoletti, vicedirettore del centro SISDE Roma 2 in data 6.4.1982 nel carcere di Rebibbia» si legge nella sentenza di primo grado della Corte di Assise di Perugia nel processo per l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli – e per i quali avrebbe collaborato. Almeno così riporta una relazione della Squadra narcotici di Roma del 14 luglio 1982: «L’Abbruciati, prima del suo decesso a Milano, era stato contattato dai servizi segreti e con essi pare avesse intrapreso un’attività di collaborazione fornendo notizie nell’ambito del terrorismo, specialmente di sinistra».
Giova ricordare come il Nicaragua fosse un Paese a matrice comunista e fornisse asilo politico a terroristi italiani come Alessio Casimirri, il brigatista vaticano ancora oggi latitante. E come Abbruciati non fosse nuovo a viaggi a Milano. Nel 1981, tanto per fare un esempio, vi era andato per il processo al boss Francis Turatello, suo amico e compare di scorribande. Tutti comportamenti anomali per un malavitoso come lui, cresciuto nella borgata di Primavalle, pugile per un breve periodo in gioventù nel tentativo di emulare il padre Otello (campione italiano dei pesi piuma e dei pesi leggeri tra le due guerre), che aveva cominciato con i furti della banda dei «Camaleonti» (da qui il soprannome) per poi fare il salto di qualità con i sequestri di persona del «clan dei Marsigliesi» e con il traffico di stupefacenti della «Banda della Magliana».
Accuse di omicidio, ripetuti soggiorni carcerari e rapporti con magistrati, immobiliaristi (il già citato Carboni), faccendieri (Francesco Pazienza), neofascisti e mafiosi (Pippo Calò e Stefano Bontate) lo avevano reso un battitore libero della delinquenza, avvolto da un’aura di mistero proseguita anche dopo la morte. Già perché il 29 aprile 1982, a quarantott’ore dal decesso, il suo corpo approdò al Verano e fu deposto nel loculo 20 del riquadro 120 che una signora, Ilda C., aveva preso in concessione nel 1972 per deporvi uno dei suoi figli (R.) salvo poi spostarlo nel 1981 in favore di un nipote, G.B. E fu sempre lei, il 18 maggio 1982, a ufficializzare la tumulazione di Danilo Abbruciati al posto di quest’ultimo. Una decisione fonte di due anomalie. La prima è che G.B. non era nipote della donna. La seconda, più eclatante, è che Ilda C. siglò la sepoltura di Abbruciati in quanto marito di sua sorella Elsa.
Sennonché Abbruciati, che ebbe varie amanti nella mala dell’epoca come Fabiola Moretti e Daniela Mobili, si era sposato soltanto una volta: alla fine degli anni Sessanta, con Claudia De Cristofaris, dalla quale ebbe una figlia. Mentre secondo una verifica anagrafica risultava addirittura celibe. Viene dunque da chiedersi come mai la signora Ilda C. si prese l’ardire di inventare quella parentela e se Germana Abbruciati, molto precisa nel racconto dell’excursus criminale del fratello agli inquirenti del caso Orlandi (10 febbraio 2010), fu mai messa al corrente di questo episodio.
Andiamo avanti. Il corpo di Abbruciati rimase in quella tomba per otto anni. Fino all’11 giugno 1990. Quando entrò in scena l’uomo inesistente presentato in apertura, Enrico Branceto, che quel giorno alla «Direzione dei Servizi Funebri e Cimiteriali» del Verano dichiarò «di essere l’unico erede della nonna, Ilda C., in quanto figlio dell’ex unico figlio Giuseppe».
Un’informazione falsa poiché la signora, tra l’altro sempre in vita al tempo, era coniugata S. e gli altri suoi figli maschi si chiamavano M. e P. Eppure, quell’attestazione fu presa per vera e Branceto poté disporre di quel loculo a suo piacimento. Così avviò immediatamente la pratica per traslare i resti di Abbruciati. Una richiesta formalizzata anche dalla sorella Germana, a differenza di quanto accaduto nel 1982, che li unì assieme a quelli della madre. Ma il vero interesse dell’uomo non era «Er Camaleonte», bensì Antonio De Pedis, deceduto a inizio mese per cause naturali e per il quale il 13 giugno chiese la deposizione proprio nel sepolcro che fino a pochi giorni prima aveva ospitato la salma di Abbruciati. Motivo? Secondo quanto da lui sottoscritto, il defunto sarebbe stato sposato con un’altra sorella di Ilda C., Maria. Ma anche questa è un’informazione fasulla. Perché sua moglie si chiamava Eda Proietti.
Da allora il nome di Enrico Branceto non è più comparso negli archivi del Verano. A differenza delle nebbie sulla sua figura, intensificate dalla comunicazione dei figli di Ilda C., che nel 1991 precisarono come fossero soltanto loro gli eredi di un’altra tomba, nella quale avevano seppellito la madre. Ma allora come mai questa signora e la sua famiglia entrarono nella vita di due personaggi a loro estranei, visto che non avevano alcun rapporto di parentela, e con la pretestuosa invenzione di due relazioni sentimentali?
Ma soprattutto: chi si celava dietro la finta identità di Enrico Branceto? Da dove saltò fuori? Gli Abbruciati e i De Pedis lo conoscevano? Perché ebbe la possibilità di decidere quelle tumulazioni? O forse non è che la sua inquietante e meteorica apparizione fu l’ennesima spia dei misteri che si celano dietro quei due nomi, protagonisti di almeno un ventennio del crimine capitolino?