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Due «spie» italiane in Bulgaria. L’incredibile storia di Paolo Farsetti e Gabriella Trevisin

Redazione Spazio70

Una odissea giudiziaria ai tempi della «Cortina di ferro»

Fine agosto 1982. Paolo Farsetti e Gabriella Trevisin formano una affiatata coppia di 34 e 27 anni. Lui è un aitante toscano: impiegato presso la Lebole di Arezzo, svolge in azienda attività sindacale per conto della Uil. Appassionato di fotografia e viaggi, Farsetti propone alla propria donna un soggiorno estivo in Bulgaria. Entrati nel Paese socialista con un visto turistico, i due vengono bloccati alla frontiera meridionale con la Turchia. Il pretesto utilizzato dalle autorità bulgare è un servizio da tè in porcellana – acquistato da Farsetti qualche giorno prima – per il quale la dogana pretende una forte imposta.

La coppia di italiani contesta il pagamento e viene riaccompagnata in albergo per accertamenti: lì si vede sequestrare passaporti e macchine fotografiche. Le portiere dell’auto vengono sigillate. Il sospetto, subito avanzato dai bulgari, è che in mezzo ai negativi contenuti nella macchina fotografica di Farsetti vi siano immagini di alcune postazioni militari collocate al confine. I due italiani vengono immediatamente tratti in arresto per spionaggio, un reato che nel codice bulgaro prevede una condanna fino a vent’anni di reclusione. I funzionari dell’ambasciata italiana a Sofia fanno molti tentativi per ottenere informazioni sui due detenuti, mentre i familiari si recano in Bulgaria nella speranza di poterli incontrare.

«Solo il 26 ottobre, cioè due mesi dopo l’arresto», dice Mauro Farsetti, «mi viene consentito di vedere mio fratello Paolo in una caserma della polizia. Da quello che sono riuscito a capire le celle sono nei sotterranei. Vedo mio fratello pallido, tremante, con gli occhi arrossati e gonfi perché nella sua minuscola cella la luce rimane accesa notte e giorno. Dal colloquio apprendo che non gli hanno consegnato neanche la nostra corrispondenza inviata attraverso l’ambasciata. Quando lo portano via gli viene una crisi: urla di non essere una spia, dice ai bulgari di telefonare in Italia per averne certezza».

L’ATTENTATO A GIOVANNI PAOLO II. LA «PISTA BULGARA»

A rendere ulteriormente complicato il caso di Farsetti e Trevisin è l’arresto del bulgaro Serghej Antonov, accusato dalle autorità italiane di complicità nell’attentato a Giovanni Paolo II. Il governo di Sofia, per rappresaglia, blocca le operazioni di rilascio dei due italiani pretendendo di fare rientrare nella loro vicenda quella di Antonov.

Il direttore del quotidiano socialista Avanti!, Ugo Intini, dedica un lungo editoriale alla storia di Farsetti e Trevisin ricordando come il Paese dell’Europa orientale si trovi al centro di clamorose inchieste giudiziarie: dal cosiddetto «caso Scricciolo», all’attentato al Papa fino a un traffico di armi e droga scoperto a Trento. Il giornale del Psi sottolinea poi come i servizi segreti bulgari siano «un semplice braccio operativo del Kgb sovietico», al quale sarebbe stato dato il compito di sostituire i cecoslovacchi nelle operazioni sul territorio italiano.

L’attentato a Giovanni Paolo II

«I casi sono due: o questa storia è la più tragica buffonata che si possa immaginare», scrive Antonio Ferrari sul Corriere della Sera del 3 marzo 1983, «oppure siamo di fronte a un sottile gioco delle parti che può essere inventato, costruito, e oggi offerto all’opinione pubblica per spiegare un normale caso di spionaggio diventato importante non tanto per la modestissima caratura dei due protagonisti italiani, quanto per il fatto di svilupparsi nel bel mezzo della cosiddetta “pista bulgara”». Il riferimento è ovviamente alle indagini sul tentato omicidio di Giovanni Paolo II. 

FARSETTI E TREVISIN SONO DELLE SPIE?

Quando alla vigilia della festa di liberazione bulgara dai turchi si riapre il processo ai due italiani, il presidente della corte, Michail Menev, spiega che esiste agli atti una completa planimetria fotografica della base navale di Burgas e un dettagliato dossier sul cambio delle guardie alla frontiera con la Turchia, presso Malko Trnovo, dove più acute sono le tensioni tra il blocco comunista del Patto di Varsavia e l’avamposto della Nato.

Il colpo di scena, insomma, è dietro l’angolo. «Mi riconosco colpevole», dice la Trevisin alla corte, «mi riconosco colpevole di aver offeso il popolo bulgaro, di aver commesso un reato che nessuno ha diritto di compiere contro un altro Stato. Ma l’iniziativa non è stata mia, non ne avrei avuto alcun interesse. Ero venuta qui solo per le vacanze: so che non posso chiedere niente al popolo bulgaro, ma so anche che la corte capirà le mie intenzioni: non volevo offendere nessuno, non volevo fare le foto. Chiedo perdono e clemenza al tribunale di Sofia».

Farsetti e Trevisin sono quindi delle spie? Per conto di chi? La donna spiega di «non essere pratica di servizi segreti», ma sostiene di aver capito che il suo compagno Paolo Farsetti «era interessato a scoprire gli autori della strage di Bologna».

CHI È PAOLO FARSETTI?

Ma chi è Paolo Farsetti?

Antonio Ferrari, inviato del Corsera in terra bulgara per seguire da vicino tutta la vicenda del processo ai due italiani, lo descrive come «un trentacinquenne aretino, dipendente della “Lebole”, che vanta la conoscenza di Licio Gelli e un bell’autografo di Roberto Calvi». Uno che ama la fotografia, i viaggi all’estero, che è stato al «Mundial» spagnolo per vedere la finale Italia-Germania e che sostiene di conoscere alcuni giocatori della nazionale. Farsetti viene descritto quindi come uno capace di lanciarsi con entusiasmo al volante della sua auto verso il fascino discreto e un po’ pericoloso dell’Est europeo, assieme alla sua donna. Un Farsetti, a detta di Ferrari, somigliante a quei tanti personaggi della storia italiana recente «un po’ mestatori, un po’ inattendibili, ma sicuramente agganciati a qualche centro di potere». Un uomo descritto dalla sua donna come un «intelligentissimo vanesio». Insomma, secondo il Corsera, l’affaire Farsetti-Trevisin assumerebbe i connotati di «un pasticcio completo, con ingredienti che vanno dal classico spionaggio, seppur dilettantesco, alla loggia massonica P2, all’odore di loschi traffici, fino a miserabili vicende di sentimenti mercificati».

Quando i giudici gli chiedono perché abbia fotografato una rete metallica militare, Farsetti risponde che «ha un fascino particolare». L’italiano non batte ciglio alle accuse della compagna, ma si inalbera solo verso la fine quando lei – parlando della «particolare immunità» di cui avrebbe goduto presso gli ambienti sindacali della UIL – non riesce a specificare, di fronte alla corte, se lui sia o meno un dirigente nazionale. Farsetti: «Dillo, allora, andavo a Roma o a Firenze?». Trevisin: «A Roma». Farsetti: «E allora vedi che sono un dirigente nazionale?».

PER LA PUBBLICA ACCUSA FARSETTI È COLPEVOLE

L’autodifesa dell’uomo, di fronte alla corte, ha più la dimensione e la forma del comizio. L’italiano ammette di sentirsi in colpa per aver detto una bugia a un ufficiale di frontiera, presso Malko Trnovo, sul fatto di non aver scattato fotografie. Ma a sorprendere un po’ tutti, osservatori italiani compresi, è l’atteggiamento morbido dei giudici nei confronti dei due imputati: a Farsetti viene addirittura permesso di fare domande ai testimoni dell’accusa, zittire almeno un paio di volte il pubblico ministero, infrangere le regole del protocollo abbandonando il proprio posto, tra gli agenti di custodia, per sedersi sul tavolo dell’avvocato difensore. 

La pubblica accusa ha però ben pochi dubbi sulla colpevolezza dell’italiano: «Si tratta di una spia al servizio della P2», dice il pm Atanas Atanasov, «e va punito senza crudeltà, ma senza astratti liberalismi».

«Compagni giudici», prosegue Atanasov con tono solenne, «vi chiedo di infliggere una pena basata sulla legge, sulla vostra consapevolezza socialista, sulla vostra coscienza di magistrati e sulla nostra forza di società e di Stato. Chiedo pertanto per Farsetti una condanna alla metà del massimo della pena che il nostro codice prevede per lo spionaggio militare e chiedo che alla Trevisin sia inflitta una condanna inferiore, molto inferiore, al minino della pena». Secondo i calcoli, si tratta di quindici anni per Farsetti e di cinque per la Trevisin.

«Gabriella è una brava ragazza», continua il pubblico ministero, «irretita da un uomo che l’ha strappata ai familiari, l’ha allontanata dalla sua patria e l’ha condotta sin qui davanti a noi. Fuori dall’aula avrete letto quel motto latino: “Chi si pente è quasi innocente”. Anche se nessun pentimento può modificare il carattere di un reato».

LE INSINUAZIONI DEL PUBBLICO MINISTERO

A far saltare i nervi dell’imputato sono però le insinuazioni del pubblico ministero. «In Italia si fa la raccolta fondi per mantenere la moglie e i figli che Farsetti ha abbandonato per andare all’estero con un’altra donna», dice Atanasov, con la reazione dell’italiano che si fa violentissima: «Questo non glielo permetto. Non lo può dire. Accetto tutto, ma non questo. Se mi fai un’altra offesa così, ti spacco. Sì, ti spacco, buffone. I figli non si toccano, hai capito?». È a questo punto che scoppia il caos in aula, con i poliziotti che trattengono, spintonano, mettono le mani al collo dell’imputato e soprattutto cercano di cacciare dall’aula i giornalisti italiani presenti i quali, dal canto loro, dicono di accettare ordini «soltanto dal presidente Menev».

La scena si fa insomma tragicomica. La Trevisin singhiozza: «Gli mettono le manette!», fa riferendosi a Farsetti, «gli fanno male! No, no, lui è una vittima!», mentre il presidente della corte urla all’imputato di uscire dall’aula. Farsetti, dal canto suo, risponde che «la verità verrà fuori», prima di essere trascinato via con la forza. 

Quando i giudici si ritirano in camera di consiglio, è ormai metà aprile 1983. I giochi sono fatti: Farsetti è in piedi, sudato e teso. Si volta verso Gabriella Trevisin, la accarezza teneramente con lo sguardo. I bulgari non hanno più niente da temere. Il confronto tra i due non si farà. E così la coppia può finalmente riabbracciarsi. «Credetemi, sono un compagno. In queste foto, non c’è nulla di eccezionale. Io», dice Farsetti prima che i giudici si ritirino in camera di consiglio, «non sono una spia, ma se le foto hanno creato in qualche modo dolore e offesa allora chiedo perdono e comprensione. Se potessi mi sottoporrei a lobotomia, se potessi scordare quello che è successo cancellerei questo capitolo dalla mia vita. Purtroppo non posso: un giorno simili errori non succederanno più. Mai avrei pensato di trovarmi in questa situazione, in prigione, e per di più nella prigione di un Paese socialista. Perdonate il mio gesto. Ripeto: credete a un compagno».

ARRIVA LA SENTENZA

Farsetti compie anche una vera e propria arringa contro il sistema giudiziario bulgaro: «So cosa significhi l’isolamento», dice, «e capisco perché Gabriella abbia ceduto. Un giorno le hanno fatto leggere un protocollo, dicendo che io avevo firmato. Nessuno ha prodotto in aula quel protocollo, perché è un falso e quindi non esiste. Lei è crollata, ma la comprendo. Ho vissuto anche io una identica esperienza. Trovarsi senza alternativa è una tortura psicologica insostenibile».

Gabriella Trevisin, «Oggi», 13 giugno 1984

Quando arriva finalmente la sentenza, Gabriella Trevisin si accascia sulla panca di legno dell’aula. Lui, Farsetti, è in piedi, immobile, silenzioso. Per la giustizia bulgara Farsetti e Trevisin sono due spie che «hanno agito in complicità e compartecipazione allo scopo di trasmettere a Stati e organizzazioni straniere notizie di carattere militare coperte da segreto». La sentenza è netta. Il presidente Michail Menev la legge: «Gabriella Trevisin, 27 anni, di Roncade, cittadina italiana, istruzione media, senza professione e senza alcun lavoro, non iscritta ad alcun partito politico, nubile, incensurata, e Paolo Farsetti, 34 anni, di Arezzo, cittadino italiano, istruzione media superiore, impiegato, divorziato, incensurato, iscritto al Partito socialista, sono colpevoli di aver scattato fotografie nella zona che comprende i distretti di Burgas e di Jambol, agendo in complicità e in compartecipazione allo scopo di spionaggio. Per cui il tribunale li condanna come segue: Gabriella Trevisin tre anni di reclusione, con regime iniziale generale. Paolo Farsetti, dieci anni e sei mesi, con regime iniziale rigoroso».

«ERO UN AUTOMA, MI DAVANO SONNIFERI». TREVISIN RITRATTA TUTTO

Al giudizio di secondo grado, i ruoli tornano in discussione. Gabriella non è più la ragazza fragile, apparentemente imbambolata, di tre mesi prima. Si presenta leggermente ingrassata, dignitosa nella sua divisa carceraria a strisce verticali bianche e blu. La voce è ferma e il tono sicuro. Ritratta tutto, svelando le insidie e le pressioni alle quali è stata sottoposta per raccontare quello che gli inquirenti volevano sentirsi dire. Recuperando un insospettato coraggio e rischiando di compromettere la propria posizione processuale, la Trevisin si alza in piedi: «Trovo assurdo che questo stia diventando un processo personale della procura di Sofia contro Paolo. Lui», dice la donna, «si è trovato solo e ha reagito perché ha un carattere polemico, combattivo. Non si può però certo condannare un carattere. Rileggete i miei primi verbali, lì troverete la verità».

«Sì, signor presidente», continua la Trevisin, «il 14 aprile dopo la sentenza sono stata accompagnata nell’ufficio numero 213, l’ufficio del giudice istruttore. Gliel’ho detto in faccia al dottor Spassov che era tutta colpa sua. Fu lui a dirmi che Paolo era una spia. Io ero stupita, debole, per quattro mesi e mezzo mi avevano somministrato sonniferi, ero priva di volontà. Quando mi mostravano un verbale firmavo come un automa. Poi dopo la sentenza mi hanno tolto i sonniferi e allora la realtà mi si è rivelata. Fatti e avvenimenti mi sono tornati nella mente lucidi e precisi. Per esempio ricordo che tra le foro scattate con la Nikon ce n’era una dove apparivo io con un abito color ciclamino: una foto turistica. Come mai non è stata messa nell’album assieme alle altre? Avete detto che Paolo è una spia della Nato, ma è assurdo. Al massimo potrebbe essere, dico per dire, una spia del Terzo mondo. In Paesi industrializzati, che dai satelliti vedono tutto, che cosa se ne farebbero di un kamikaze come Farsetti?»

Farsetti graziato, «L’Unità», 6 settembre 1984

LA LIBERAZIONE DEI DUE ITALIANI

In secondo grado la condanna ai due italiani viene confermata. Nel maggio 1984, in coincidenza con un miglioramento delle relazioni diplomatiche tra Italia e Bulgaria, Gabriella Trevisin viene scarcerata dopo avere ottenuto un forte sconto di pena per buona condotta. Dopo l’estate, nel settembre ’84 è la volta anche di Farsetti. La liberazione del detenuto italiano viene salutata dalle grida di giubilo degli altri carcerati e all’ambasciata italiana a Sofia si tiene anche un brindisi.

Paolo Farsetti, appena ricevuta la grazia dalle autorità bulgare, si presenta libero e ciarliero. Il personaggio di sempre. Il volto è disteso, il fisico asciutto. Quando lo liberano indossa un doppiopetto grigio, ovviamente marca Lebole. «Storia finita? Questa storia magari inizia adesso», dice sibillino rispondendo alle domande dei cronisti. Perché della vicenda che ha visto loro malgrado protagonisti la coppia Farsetti-Trevisin si conosce solo il risultato finale, non lo svolgimento. Quando sbarca a Roma, impettito, manda un bacio all’asfalto della pista. In tasca, un tricolore prontamente sventolato. Ad accoglierlo, ci sono le sorelle, il cognato, il fratello, l’ambasciatore italiano in Bulgaria.

FARSETTI RITORNA A CASA

Per le polemiche c’è tempo. Le foto mostrate al processo, dirà poi Farsetti, non sarebbero state quelle scattate da lui. Il sospetto dell’uomo è che gli scatti siano stati prodotti – dopo l’arresto dell’italiano – per sostenere l’accusa di spionaggio. Una tesi ribadita quando Farsetti viene ricevuto dal sindaco di Arezzo, dalla giunta e dai capigruppo. Quasi uno sfogo per ribadire la propria innocenza. A suo dire le pellicole sequestrate sono state  poi distrutte dalla polizia: ai giudici ne sarebbero quindi state mostrate altre di tenore diverso. «Le prove di questa sostituzione? Semplice», dice Farsetti, «nelle foto che mi accusavano c’era lei, Gabriella, ma con un abito diverso».

Farsetti e Trevisin su «Oggi», 26 settembre 1984

Arezzo sembra non essersi accorta del ritorno a casa del suo concittadino. Poche le persone davanti al municipio per l’incontro ufficiale con il sindaco. Una cosa scontata, a sentire i clienti di un bar lì vicino, perché tutto sommato Farsetti ad Arezzo non ha mai goduto di troppa popolarità. C’è poi anche chi sostiene che per la maggior parte degli aretini l’emozione per la «spy story» si sia affievolita nel tempo.

Paolo Farsetti morirà nel maggio 1991, sulla E 45, travolto da un autocarro, mentre è a bordo della sua Alfa 164 ferma in corsia di emergenza