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Alternative für Deutschland e il «ritorno» della destra radicale in Germania

Redazione Spazio70

L'ascesa dell'AfD ha infranto un vecchio tabù, esemplificato in una famosa battuta di Franz Josef Strauß, «boss» della CSU, a lungo presidente della Baviera, secondo il quale alla destra dei partiti conservatori avrebbe dovuto esserci «solo la parete»

di Gianluca Falanga

L’affermazione nel panorama politico della Germania del partito Alternative für Deutschland (AfD) costituisce un fatto nuovo nella storia della Repubblica federale dal 1945. La novità sta nell’avere infranto un tabù, quello – per dirla con parole famose di Franz Josef Strauß – che alla destra dei partiti conservatori «ci sta solo la parete» ovvero che nel sistema partitico della democrazia tedesca non doveva esserci posto per un partito di destra radicale. Nei decenni che videro il consolidamento e la maturazione della democrazia parlamentare, prima nella Germania Ovest, poi dal 1990 nella Germania riunificata, uno dei maggiori meriti attribuiti alla Christlich Demokratische Union (CDU) e al suo partito-sorella in Baviera, la Christlich-Soziale Union (CSU), è stato proprio quello di essere riusciti a integrare nel sistema il cosiddetto rechten Rand («il margine destro»), le posizioni dell’ultraconservatorismo tedesco, marginalizzando al contempo le organizzazioni del neonazismo. Ciò vale, in una certa maniera, anche per la Germania Est, dove il regime comunista, sollecitato dal Cremlino, diede a nazionalisti e nostalgici del Terzo Reich, per lo più ex funzionari del partito hitleriano e ufficiali orfani della Wehrmacht, una rappresentanza politica interna al sistema socialista, quella National-Demokratische Partei Deutschlands (NDPD) che, fino al dicembre 1989, incardinata nel cosiddetto Blocco democratico, si mostrò una delle più fedeli ancelle della Sozialistische Einheitspartei Deutschlands (SED), il partito-Stato della Repubblica democratica tedesca (RDT).

L’AFD CONTRO LA MONETA UNICA. NASCE IL PARTITO DEI «PROFESSORI»

Jörg Haider, governatore della Carinzia

Jörg Haider, figura di riferimento nei primi anni di AfD, in una foto del 2008 (fonte: Dieter Zirnig, sugarmelon.com)

Un altro elemento di novità dell’AfD è che non si tratta di una forza politica di estrema destra/neonazista come la Nationaldemokratische Partei Deutschlands (NPD) o i Republikaner, e anche l’etichetta del populismo non pare sempre sufficiente a qualificarne i connotati politici, ideologici e programmatici. Per comprendere il fenomeno AfD bisogna avere chiari l’evoluzione e gli snodi principali della sua breve storia. Il partito nacque nella primavera del 2013 come compagine euroscettica di orientamento nazional-liberale sul modello dell’austriaco Freiheitliche Partei Österreichs (FPÖ) di Jörg Haider, del quale riprodusse non solo la particolare amalgama ideologica liberalconservatrice, ma anche la tendenza all’agitazione populista, inquadrando la critica alla moneta unica e ai burocrati di Bruxelles in una più estesa «ideologia» politica che abbracciava anche i temi della pubblica sicurezza e dell’immigrazione.

Per individuare la scintilla iniziale della gestazione dell’AfD si deve risalire addirittura al Trattato di Maastricht del 1992 e al ricorso sull’incostituzionalità dell’unione economica e monetaria (ormai quasi dimenticato, ma all’epoca clamoroso), respinto dalla Corte costituzionale tedesca nell’ottobre 1993. A presentarlo furono Manfred Brunner, capo di gabinetto dimissionario del commissario europeo per il mercato interno, e l’eminente economista Joachim Starbatty, i quali nel 1994 diedero vita al Bund Freier Bürger (BFB), pendant tedesco del partito di Haider e precursore dell’AfD. Nel corso degli anni Novanta, sia Brunner che Starbatty abbandonarono il BFB per la sua rapida radicalizzazione. Il primo rientrò nei liberali, Starbatty invece fondò con una pattuglia di fuoriusciti dalla CDU, il movimento politico Wahlalternative 2013, presto ribattezzata AfD.

La scelta del termine Alternative nel nome del nuovo movimento politico era un riferimento diretto alle parole pronunciate dalla Merkel il 25 marzo 2010. Quel giorno la Cancelliera prima escluse categoricamente in un intervento al Bundestag la concessione di aiuti finanziari alla Grecia, duramente colpita dalla crisi della moneta unica, e appena poche ore dopo, in sede di vertice europeo, votò a favore del primo pacchetto di salvataggio della Grecia. Giustificando la propria decisione, disse che era alternativlos, senza alternative. Fino ad allora, in Germania, la critica al sistema della moneta unica era stata questione per specialisti. A catapultare il tema al centro del dibattito politico intervenne nel 2011 la discussione sul meccanismo di stabilità, controverso anche all’interno della coalizione di governo liberal-conservatrice. Per reazione alla sua approvazione, a metà del 2012, si formò il movimento civico antieuro Bündnis Bürgerwille, cui aderirono alcuni dei protagonisti della «prima» AfD come l’economista amburghese Bernd Lucke e l’ex presidente della Confindustria tedesca Hans-Olaf Henkel.

Lucke, iniziatore del Plenum degli economisti eurocritici, divenne presto il principale volto pubblico dell’AfD. All’indomani del suo congresso fondativo a Berlino, il 13 aprile 2013, avvalendosi di significative risorse finanziarie messe a disposizione dalla media impresa tedesca, il partito riuscì a organizzarsi rapidamente. Nel maggio del 2013 contava già oltre 10.000 iscritti, non neonazisti ma per lo più transfughi dagli altri partiti di massa, soprattutto ex CDU e liberali, e federazioni regionali in tutti e sedici i Länder della Germania.

DALL’EURO ALL’IMMIGRAZIONE. LA RADICALIZZAZIONE DELL’AFD 

Thilo Sarrazin, autore del saggio «La Germania si abolisce», in una foto del 2009 (fonte: Nina Gerlach – opera propria)

Mancato l’ingresso al Bundestag alle federali del 2013, l’AfD riuscì a eleggere sette deputati all’Europarlamento in virtù di un ragguardevole 7,1% conseguito alle europee del maggio 2014. A Strasburgo gli eletti aderirono al gruppo parlamentare dei Conservatori e riformisti europei, dominato dai conservatori britannici. Contemporaneamente, i candidati dell’AfD cominciarono a entrare nelle assemblee municipali e circondariali in quasi tutte le regioni del Paese. Nelle fortunate campagne elettorali del 2014, tutte incentrate attorno alla richiesta di uno scioglimento controllato dell’unione monetaria, già comparivano posizioni conservatrici e restrittive in tema di genere, di famiglia e di immigrazione. Che proprio quest’ultima questione avesse anche in Germania il potenziale per l’esplosione di un partito populista o di ultradestra si era intuito dalle vivaci polemiche scatenate dalla pubblicazione, nel 2010, del saggio Deutschland schafft sich ab («La Germania si abolisce») di Thilo Sarrazin.

Controverso e provocatorio, il libro, opera di una personalità che era stato ministro delle Finanze socialdemocratico del Land Berlino ed era membro del consiglio di amministrazione della Bundesbank, trattava degli effetti combinati sulla società tedesca contemporanea dell’arresto demografico, dell’impoverimento del ceto medio e dell’immigrazione di massa da Paesi islamici. Il saggio trovò una vasta eco nei media tedeschi, facendo del suo autore lo spiritus rector di un’AfD che, sopitasi la fiamma della crisi dell’euro, individuò nel contenimento dell’immigrazione il suo nuovo tema centrale. Ciò corrispose a un netto spostamento verso destra del baricentro del partito e degli equilibri di potere fra le correnti interne al partito. I successi elettorali nei Länder tedeschi orientali nel 2014 incoraggiarono le federazioni più radicali dell’AfD, quelle della Turingia, della Sassonia e del Brandeburgo, a sfidare apertamente la leadership «moderata» del partito, lavorando per un superamento del corso neoliberista in favore di una più ampia piattaforma nazional-conservatrice e antiglobalista.

La svolta a destra attirò nel partito schiere di militanti e sostenitori di formazioni politiche islamofobe, populiste e neonaziste (Republikaner, Schill-Partei, Die Freiheit), che andarono a ingrossare le fila della componente radicale e presto si fecero strada anche negli organi direttivi, regionali e nazionali. Al più tardi nel gennaio 2015 fu chiaro a tutti che la dirigenza liberale aveva perduto il sostegno dei funzionari e della base del partito. Lucke e i professori furono scalzati definitivamente nel luglio dello stesso anno con l’elezione al vertice della segreteria nazionale del duo Petry-Meuthen. Seguì la scissione, provocata dalla fuoriuscita in blocco dei fondatori liberali (Lucke, Henkel, Starbatty) e di una parte dei rappresentati moderati. Le tensioni intestine provocarono la perdita di circa un quinto degli oltre 20.000 iscritti, compressero i consensi, ma a evitare il peggio arrivò la crisi dei rifugiati del settembre 2015, che diede nuova spinta all’AfD, catapultandolo oltre il 20% dei consensi nelle regioni orientali e sopra il 10% in quelle occidentali.

Strumentalizzando senza scrupolo le inquietudini suscitate in settori dell’opinione pubblica dalle immagini di un’ondata migratoria di massa fuori controllo, l’AfD si fece portavoce dei diffusi malumori e della protesta antimigranti, alimentata quest’ultima da uno stillicidio di episodi di violenza (accoltellamenti, violenze sessuali, su tutti le aggressioni di massa nella notte di Capodanno 2015/2016 a Colonia) e dalla serie di attentati terroristici a sfondo islamista compiuti in Francia, in Belgio e anche a Berlino, alla vigilia del Natale 2016.

LA «FRUSTRAZIONE ORIENTALE» E LE ROCCAFORTI DELL’ETNO-NAZIONALISMO VÖLKISCH 

Björn Höcke, capo dell’ala «völkisch» di AfD. (Foto di Sandro Halank, Wikimedia Commons, CC BY-SA 4.0)

Nelle sue roccaforti tedesco-orientali, la componente nazional-conservatrice dell’AfD fece leva sulle ferite ancora aperte, scaturite dal periodo della riunificazione, come sul diffuso malcontento verso l’attuale sistema politico e, in particolare, sulle preoccupazioni destate dalla previsione di nuovi cambiamenti sociali innescati dall’inserimento dei migranti nella società. Il malcontento nell’est tedesco post-comunista aveva profonde radici nei traumi della fulminante e radicale trasformazione, che negli anni Novanta aveva letteralmente catapultato quei territori dal socialismo reale al capitalismo della globalizzazione neoliberista: deindustrializzazione, disintegrazione delle strutture sociali, disorientamento culturale, svalutazione della propria esperienza di vita e delle opinioni di cittadini indottrinati e socializzati nella dittatura, moltissimi erano gli elementi a lungo trascurati dall’establishment occidentale e che facilmente si prestavano alla strumentalizzazione da parte di estremisti e populisti.

Scalzando la sinistra post-comunista (Die Linke, ex SED), che per anni si era fatta carico del sentimento di alienazione di una parte della popolazione orfana del sistema autoritario della RDT, l’AfD si affermò molto rapidamente e assai nettamente nelle regioni ad est dell’Elba come il partito catalizzatore della «frustrazione orientale». Mentre i partiti democratici lamentavano la disabitudine e la disaffezione degli Ossis alla democrazia, in sostanza ignorandone le voci e tacciandoli di essere retrogradi, ignoranti o, peggio, nazisti, l’agitazione del personale politico AfD (quasi completamente di provenienza occidentale e fanaticamente anticomunisti), da un lato incoraggiando narrazioni vittimistiche come quella della riunificazione subita, forzata da un Occidente arrogante, avido e sopraffattore, dall’altro appropriandosi indebitamente dell’eredità ideale della rivoluzione democratica del 1989, riuscì ad attivare politicamente il risentimento, facendone un’arma e soprattutto il collante di una funzionale ideologia identitaria del revanscismo antioccidentale e della contestazione antisistema.

Per le forze più estreme all’interno dell’AfD, l’est tedesco non era però solo un mero serbatoio elettorale, alimentato dal voto di protesta dei delusi e degli esclusi, bensì la potenziale base popolare per realizzare una programmatica politica radicalmente antagonista all’ordinamento sociale democratico e pluralista. Nel marzo 2015, in aperta contestazione del corso moderato («tecnocratico») della leadership dei professori, si costituiva nell’AfD la frazione denominata Der Flügel («l’Ala»), di orientamento etno-nazionalista («völkisch») e capeggiata dalla figura carismatica del segretario dell’AfD in Turingia, Björn Höcke.

L’ex insegnante di storia ed educazione fisica della Vestfalia, cresciuto in una famiglia di negazionisti dell’Olocausto e con posizioni revisioniste, talora apertamente nostalgiche rispetto alla storia del nazismo, si fece iniziatore della cosiddetta Risoluzione di Erfurt (documento costitutivo dell’Ala), nella quale già si affacciava il principio di una strategia gramsciana della componente ultraradicale dell’AfD: spostare progressivamente i confini del dicibile ovvero la conquista dell’egemonia discorsiva e culturale come prerogativa alla costruzione dell’alternativa al sistema (laddove per sistema s’intendeva sia la democrazia pluralista sia la società egalitaria, multiculturale ed inclusiva, entrambe – per Höcke – espressioni del totalitarismo globalista-neoliberista che opprime la Germania) e, sul lungo periodo, di conquista del potere.

Il campo di battaglia individuato da Höcke per preparare la società a un cambiamento radicale prima di paradigma ideologico e poi di sistema socio-politico, era quello delle parole («Kampf um die Sprache»): rendere dicibile quindi pensabile e infine praticabile ciò che oggi è tabù. Höcke introduceva nell’AfD i concetti elaborati dagli ideologi della Nuova Destra tedesca (Götz Kubitschek, Felix Menzel) e rendeva il partito osmotico ai movimenti islamofobi e all’estrema destra (Pegida, identitari, Burschenschaften). Il linguaggio adoperato da lui e dai suoi adepti (circa 7000 fra delegati e militanti del partito, secondo le stime dei servizi informativi) riprendeva termini e immagini della retorica nazista, la metaforica della nazione malata, della società degenerata da salvare e guarire, la caratterizzazione l’AfD come partito del movimento di rigenerazione nazionale.

ISOLAMENTO E OPPOSIZIONE FONDAMENTALE AL «CARTELLO DEI VECCHI PARTITI»

Una recente foto di Vladimir Putin. La crisi degli approvvigionamenti di gas, provocata dall’aggressione russa all’Ucraina, e il pericolo di una nuova guerra mondiale hanno dato nuovo slancio all’AfD in Germania

Il primo programma di partito approvato dalla maggioranza degli iscritti nel maggio 2016, conforme agli orientamenti neoliberista dei fondatori, ingannava circa il vero equilibrio di potere all’interno dell’AfD, decisamente sbilanciato verso una netta prevalenza della componente völkisch. Le sempre più manifeste tendenze di estrema destra continuarono a dividere, provocando aspre polemiche all’interno della segreteria federale e nelle federazioni regionali, nel complesso però il duro braccio di ferro fra moderati e radicali non pregiudicò l’ascesa politica del partito, che nel 2017/18 centrò lo storico obiettivo dell’ingresso al Bundestag e nei parlamenti di tutti i Länder.

Il sorprendente risultato a livello federale (12,6%) assicurò all’AfD con 94 seggi nella camera bassa la posizione di terzo partito tedesco e primo di opposizione al governo di Grande coalizione, ancora guidato da Angela Merkel. Alla sua prima esperienza nel parlamento nazionale, il partito diede immediatamente dimostrazione del suo modus operandi, volto a emozionalizzare e polarizzare i dibattiti, a polemizzare e ostacolare sistematicamente il lavoro delle commissioni su progetti e iniziative di promozione dell’integrazione sociale, del contrasto al razzismo e in favore del rafforzamento della partecipazione democratica.

Mentre sul piano dei contenuti si scoprirono la debolezza e l’inconsistenza del partito su temi non riconducibili alle problematiche legate all’immigrazione, i deputati dell’AfD si dimostrarono abilissimi a sfruttare i social media come piattaforme di controinformazione e cassa di risonanza per amplificare ad arte le inquietudini del proprio popolo, per aizzarne il risentimento contro il sistema, presentando il partito come unica radicale opposizione al «cartello dei vecchi partiti». Anche a livello regionale e locale, i fondi statali destinati ai partiti politici venivano investiti non tanto nel radicamento territoriale, bensì nell’attività di propaganda, agitazione e disinformazione attraverso troll-server, social bots, network finalizzati a condizionare il clima politico nella società nella direzione desiderata.

Ciò nonostante, a ridosso dello scoppio della pandemia e nel lungo periodo dell’emergenza sanitaria ed economica del 2020-21, che vide una parte del partito solidarizzare apertamente con le proteste di negazionisti, antivaccinisti e complottisti, l’AfD mostrò in maniera eclatante tutti i suoi punti deboli, a cominciare dalla mancanza di una seria proposta politica costruttiva. Più scemava l’urgenza della questione dei rifugiati, più si scoprivano le difficoltà a sviluppare politiche credibili in opposizione alle misure adottate dal governo. Alle elezioni federali del 2021 fu la stabilità dei consensi raccolti nei Länder orientali a bilanciare la perdita di un quarto dei voti nelle regioni occidentali: due soli punti percentuali in meno rispetto al 2018 furono appena una modesta flessione, il passaggio della CDU ai banchi dell’opposizione privò però l’AfD del primato fra le forze antagoniste alla maggioranza, posizione che le aveva assicurato grande visibilità.

Il ferreo isolamento nel sistema politico impostole da tutti gli altri partiti, conseguenza della sua radicalizzazione, rese evidente il vicolo cieco nel quale si era manovrato il partito in termini di strategia. La tendenza al ridimensionamento proseguì inizialmente nelle tornate elettorali del 2022 (primo eclatante insuccesso: l’AfD rimase fuori dal parlamento del Land Schleswig-Holstein), ma ancora una volta furono l’incertezza e l’inquietudine generate nell’opinione pubblica da avvenimenti drammatici a risollevare le sorti del partito, riportando in alto sondaggi e risultati elettorali: come nel caso della crisi dei rifugiati del 2015-16, l’AfD approfittò della crisi degli approvvigionamenti di gas, provocata dall’aggressione russa all’Ucraina, ma anche del pericolo di una nuova guerra mondiale, per cavalcare le acute paure che affliggevano la popolazione, abbracciando un corso ambiguamente pacifista, in verità filorusso, in polemica contrapposizione al sostegno prestato dal governo all’Ucraina invasa.

SULLA SOGLIA DEL POTERE NEL «PIÙ GRANDE ANNO ELETTORALE» DELLA STORIA

All’inizio del 2024, l’AfD appare giunto a un passaggio cruciale della sua fulminante ascesa. Alla vigilia di scadenze elettorali decisive per il futuro politico dell’Europa e del mondo, il partito sembra davvero essere a un passo dal potere. Fra le europee in primavera e le elezioni presidenziali negli Stati Uniti ai primi di novembre, a settembre si voterà in Germania per rinnovare i parlamenti dei tre maggiori Länder orientali, Sassonia, Turingia e Brandeburgo. In tutte e tre le regioni, l’AfD sarebbe il primo partito con oltre il 30% dei consensi e margini di vantaggio significativi sulla concorrenza. Il fatto che le federazioni della Sassonia e della Turingia (ma anche della Sassonia-Anhalt, dove si voterà nella primavera del 2025) siano state dichiarate dalle autorità di sicurezza organizzazioni «certificatamente estremiste» e ostili all’ordinamento democratico dello Stato, non ha avuto finora alcun effetto deterrente sull’elettorato che le sostiene. Lo scenario che si prefigura è quello di un trionfo dell’AfD, senza la quale non sarà possibile dare vita ad alcuna coalizione di governo. E in Turingia, proprio Höcke potrebbe riuscire a farsi eleggere primo ministro. La conquista del governo di almeno due dei tre Länder tedesco-orientali, eventualmente in concomitanza con il collasso (al momento non inverosimile) dei grandi partiti popolari tedeschi provocherebbe un radicale spostamento a destra dell’asse politico nazionale e vedrebbe cedere anche l’ultimo argine (quello tedesco) al dilagare continentale delle destre populiste, sovraniste e xenofobe, con pesanti conseguenze anche sugli equilibri politici interni all’Unione europea e sul quadro internazionale.

Nel turbolento contesto, segnato dalla crisi internazionale e, nello specifico della Germania, dalla recessione economica, l’AfD, ormai consolidatosi anche in due pesanti Länder occidentali (Assia e Baviera), ha fiutato l’opportunità storica e ha soffiato sul fuoco delle tensioni provocate dalle agitazioni degli agricoltori. Il governo semaforo diretto dal socialdemocratico Olaf Scholz appare impopolare e in difficoltà, la strategia di isolamento dell’AfD non riesce a contenerne la crescita di consensi e preoccupa la proiezione in vista delle elezioni federali, in programma per l’autunno 2025, alle quali il partito ha già annunciato di volere presentare un proprio candidato alla cancelleria.

A livello nazionale l’AfD sarebbe ormai oltre il 20% e, causa il crollo di consensi dei partiti di governo e la frammentazione del sistema partitico con la nascita di due nuove forze politiche (a sinistra il partito di Sahra Wagenknecht, a destra la Werteunion di Hans-Georg Maaßen) il secondo partito tedesco dopo la CDU. In questo passaggio delicato è caduto, lo scorso gennaio 2024, lo scandalo scatenato dalle rivelazioni circa il convegno segreto di Potsdam, che avrebbe visto esponenti di spicco dell’AfD, fra cui Roland Hartwig, braccio destro dell’attuale leader Alice Weidel, agitatori del movimento identitario, come il neonazista austriaco Martin Sellner, ma anche imprenditori e giuristi discutere progetti di remigrazione ovvero espulsioni di massa di almeno due milioni di persone, fra richiedenti asilo, stranieri legalmente residenti e immigrati di seconda e terza generazione con cittadinanza tedesca non assimilati, in caso di approdo dell’AfD al potere. La notizia ha avuto un eco mediatico fortissimo, innescando un’inaspettata reazione della società civile, con imponenti manifestazioni di protesta che non si vedevano da tempo.

Gli scenari che si profilano hanno anche riacceso il dibattito sull’ipotesi di sciogliere il partito, per la per la sua agenda ostile all’ordinamento democratico e alla garanzia di rispetto della dignità umana sancita dalla Carta costituzionale, o almeno di privare Björn Höcke del diritto di voto e di eleggibilità in base all’art. 18 della Costituzione, vale a dire farlo dichiarare dalla Corte costituzionale inadeguato a ricoprire cariche pubbliche. Al di là della praticabilità, entrambe le opzioni appaiono ai più rischiose, un’ammissione di fallimento della politica, che non è riuscita a misurarsi efficacemente con le ragioni del voto all’AfD. Inoltre, messo fuori legge il partito, non scomparirebbero i suoi sostenitori e i loro orientamenti politici. D’altronde, l’AfD non mostra alcun comportamento marziale, né simboli che facciano più o meno apertamente riferimento al passato nazista. Il suo attuale programma ufficiale non è più radicale di quello della Lega o di Fratelli d’Italia. E nonostante la base sia galvanizzata dalla prospettiva di prossimi possibili storici traguardi, la dirigenza mostra di non avere fretta di governare. La componente neoliberista, antisocialista e più moderatamente nazional-conservatrice, che esprime l’attuale leader del partito Alice Weidel, sembra fungere da scudo e paravento alla componente völkisch del neofascista Höcke, il quale, dopo avere quasi conquistato il controllo del partito e averne fatto il braccio parlamentare della Nuova Destra identitaria, potrebbe ora, forte del seguito di cui gode, gettare la maschera, sbarazzarsi anche della Weidel (dopo avere già sbaragliato tutti i suoi avversari interni, da Lucke a Petri e Meuthen) e palesare le proprie intenzioni eversive.

Quello di una resa dei conti finale fra le due anime del partito non è però l’unico scenario prevedibile, anzi, non sono da escludere soluzioni di compromesso per conservare un profilo che fa dell’ambivalenza fra moderazione e radicalità, moderno e passato, la formula vincente. Gli sviluppi di questo anno cruciale ci diranno come stanno davvero le cose.