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Emanuela Orlandi: lo scenario della scomparsa e le sue contraddizioni

Tommaso Nelli

Cosa non torna nella ricostruzione degli attimi che precedettero la sparizione della Orlandi? Quasi tutto. A cominciare dalla “storia della Avon”, l’offerta di lavoro che sarebbe stata ricevuta dalla giovane cittadina vaticana per pubblicizzare prodotti della nota casa di cosmetici americana durante una sfilata di moda

Una miniera di contraddizioni. E di domande. Tante. Dopo quarantuno anni, l’assenza di verità sulla scomparsa di Emanuela Orlandi è dovuta sia all’incompleta illuminazione dei suoi universi sociali che, soprattutto, alla mancata ricostruzione dello scenario della sua sparizione. Ovvero di quel che accadde quel 22 giugno 1983, nel centro di Roma, tra piazza S. Apollinare, sede della scuola di musica della giovane cittadina vaticana (“T. L. Da Victoria”), e corso Rinascimento, ultimo luogo dove si rilevarono le sue tracce. Un gigantesco banco di nebbia figlio dei conflitti testimoniali di molti dei protagonisti e dell’inefficacia investigativa nel corso del tempo.

Ma che cosa non torna di quei momenti funesti? Quasi tutto. A cominciare dalla “storia della Avon”, l’offerta di lavoro ricevuta da Emanuela Orlandi per pubblicizzare prodotti della nota casa di cosmetici americana durante una sfilata di moda. La verbalizzò subito Natalina Orlandi nella denuncia di scomparsa presentata la mattina successiva (23 giugno) all’Ispettorato Generale di Pubblica Sicurezza presso il Vaticano. E la dettagliò l’altra sorella, Federica, ai Carabinieri il successivo 29 luglio: “Alle ore 18:40 circa, ho ricevuto una telefonata di Emanuela, la quale […] mi riferiva quanto segue: ‘Mentre andavo a lezione, sono stata avvicinata da un signore, il quale mi offriva un lavoro di volantinaggio, pubblicizzare un prodotto e altri della casa cosmetica “Avon”, in una sfilata di moda che si sarebbe svolta il sabato successivo, ovvero il 25 giugno, nella sala ‘Borromini’ alle 16:30. Mi avrebbe offerto la cifra di 350.000 lire per questo lavoro”. Da notare come fino a quel giorno gli uomini dell’Arma non avessero chiesto a Federica Orlandi niente in merito nonostante l’avessero già sentita (12 luglio). Perché?

LA DEPOSIZIONE DI RAFFAELLA MONZI, ALFREDO SAMBUCO E BRUNO BOSCO

Il libro di Tommaso Nelli sul caso di Emanuela Orlandi

“Atto di dolore”, il libro di Tommaso Nelli sul caso Orlandi, è in via di esaurimento sul mercato. Alcune copie sono però nella disponibilità dell’autore. Chi fosse interessato all’acquisto, può contattarlo al seguente indirizzo email: tommaso.nelli@spazio70

A ogni modo, proseguiamo. Emanuela telefonò dall’apparecchio della scuola di musica, anticipando di alcuni minuti la sua uscita dalle lezioni. Una volta fuori, parlò di quell’offerta anche a una sua compagna della classe di flauto, Raffaella Monzi, mentre si dirigevano verso la fermata dell’autobus di corso Rinascimento di fronte al Senato poi tristemente consegnata alla Storia.

Fin qui, tutto liscio. O almeno sembra. Perché proprio da Monzi partono le incongruenze. Relative al compenso – “₤ 375.000” invece che ₤ 350.000 – ma soprattutto a “quando” e “dove” Emanuela avrebbe ricevuto quella proposta. Nel suo primo interrogatorio (9 luglio 1983, Squadra Mobile di Roma), la ragazza riferì come non fosse giunta il giorno della scomparsa: “L’Emanuela ha precisato che aveva trovato tale lavoro, insieme ad un’amica, senza precisare il nome, ad una sfilata, senza specificare che tipo di sfilata era”.

Proprio l’eventuale presenza di una testimone è un particolare ancora più importante nell’economia investigativa della vicenda. Monzi lo confermò anche nella sua seconda deposizione, resa pochi giorni dopo, il 28 luglio, al sostituto procuratore Domenico Sica, fresco titolare delle indagini: “Preciso che la Emanuela mi riferì come l’offerta di lavoro le era stata fatta mentre era in compagnia di un’amica, ma non mi precisò chi fosse”.

Quest’affermazione collide però con quelle di altri due protagonisti della vicenda. Il vigile Alfredo Sambuco e l’appuntato di polizia Bruno Bosco. In servizio presso il Senato della Repubblica e raggiunti il 24 giugno 1983 dal cugino di Emanuela e dal futuro marito della sorella Natalina, raccontarono di aver notato “verso le 17 del 22 giugno una ragazza (che dai connotati poteva identificarsi in Emanuela) parlare con un uomo ben vestito, che aveva con sé una borsa reclamizzante i prodotti ‘Avon’, vicini a una vettura BMW blu”. Lo si apprende dal rapporto della Squadra Mobile del successivo 6 luglio. Come si nota, nessun cenno a una seconda ragazza.

Evidenziata in “Atto di dolore”, questa contraddizione sarebbe stata una ragione più che sufficiente per predisporre all’epoca un confronto tra Monzi e i due ufficiali al fine di dirimere la questione. Ma nessuno fece nulla.

PERCHÉ LA RICHIESTA DI CONSIGLI PROPRIO ALLA MONZI?

Emanuela Orlandi. Il verbale di Alessandra Cappai, reso di fronte a Domenico Sica il 28 luglio 1983

Il verbale di Alessandra Cappai, reso di fronte a Domenico Sica il 28 luglio 1983

In quell’afoso luglio ’83 la Squadra Mobile appurò, mediante la responsabile per le vendite su Roma, che la “Avon” non si avvaleva di personale maschile. Un’informazione che, se acclara la natura imbonitrice dell’individuo che avrebbe parlato con la Orlandi, non dirime gli interrogativi sulla sua presenza in questa storia: Emanuela dove lo conobbe? Quanti soldi le offrì? Ma soprattutto: perché Monzi ricordò una versione dei fatti così differente rispetto a quelle di Federica Orlandi, del vigile e del poliziotto?

I contrasti non sono finiti. Tutt’altro. Fuori la scuola di musica, poco prima di raggiungere Monzi, nel fugace spazio tra piazza S. Apollinare e l’inizio di corso Rinascimento, Emanuela scambiò due parole con un’altra allieva della “Da Victoria”: Alessandra Cappai. Come la stessa riferì sempre a Sica e sempre il 28 luglio: “La conversazione che ho avuto (anche per la brevità del tratto di strada da percorrere) si è limitata al fatto che io avrei dovuto telefonarle il venerdì sera successivo per chiedere l’orario delle prove che ci sarebbero state il sabato pomeriggio”.

Poche, ma interessanti battute. Perché “sabato pomeriggio” è proprio quando Emanuela Orlandi avrebbe dovuto svolgere il lavoro alla sfilata di moda. Del quale aveva appena parlato alla sorella Federica e di cui, di lì a pochi secondi, racconterà anche a Monzi. Però non a Cappai: “Emanuela non mi disse nulla di quello che aveva da fare sabato dopo l’uscita da scuola”. La specifica temporale farebbe pensare che le prove si svolsero prima delle 16:30. Approfondiremo. Intanto, ci si chiede: perché Emanuela non parlò di quel lavoro anche ad Alessandra? Dopotutto, di lei aveva il numero di telefono nel diario e nei mesi precedenti l’aveva chiamata per chiederle perché avesse saltato alcune lezioni, a testimoniare un rapporto meno superficiale (al tempo non esistevano i cellulari) rispetto a quello con Monzi, della quale non aveva l’utenza. Tanto che per contattarla la notte della scomparsa, la famiglia Orlandi dovette chiederla a suor Dolores, la direttrice della scuola di musica. E non c’è da stupirsi. Raffaella – come annotò la Squadra Mobile il 25 giugno 1983 – “non aveva mai ricevuto da Emanuela alcuna confidenza”. Ma allora perché chiederle un consiglio per quel lavoro? E perché soltanto a lei? Dai documenti giudiziari di quelle calde settimane seguenti il dramma e dalle testimonianze raccolte per il mio libro, nessuna altra studentessa della “Da Victoria” quel pomeriggio aveva saputo di quella proposta.

«SONO INCERTA TRA “QUESTI” E “QUESTO”»

Emanuela Orlandi. La seconda pagina del verbale di Alessandra Cappai, reso di fronte a Domenico Sica il 28 luglio 1983

La seconda pagina del verbale di Alessandra Cappai, reso di fronte a Domenico Sica il 28 luglio 1983

Ginepraio di divergenze, la “storia della Avon” ci introduce però in un’altra nebulosa di quel giorno: Emanuela Orlandi che dalla scuola di musica si dirige su corso Rinascimento. Una scelta ancora oggi senza spiegazione. Perché lei aveva appuntamento con gli amici e la sorella Cristina alla Mole Adriana che, uscendo dalla “Da Victoria”, si trova sulla destra, accanto al “Palazzaccio”. Invece andò dalla parte opposta. Come mai? Secondo Monzi a Sica, per dare una risposta al finto “uomo Avon”: “Mi sembra che l’Emanuela mi abbia detto ‘Ho appuntamento con questi’”. Non ricordava però se fossero uno o più: “Ma non posso essere sicura. Posso escludere che abbia detto ‘questa’; sono incerta tra ‘questi’ e ‘questo’”. Sennonché, pochi secondi prima, Emanuela le aveva chiesto un parere sull’autobus 26 in transito: “Che faccio? Lo prendo o no?”. Ma perché una domanda del genere se invece di andarsene si sarebbe dovuta trattenere? Anche in questo caso il resoconto di Monzi si scontra con quello di Federica Orlandi ai Carabinieri: “Emanuela mi disse che aveva appuntamento con quel signore alle 19:10 davanti alla scuola”.

Chiedendosi quale dei due fosse quello veritiero, è certo che davanti alla scuola Emanuela non trovò nessuno. E allora: se quel soggetto non si era fatto vedere, se la sorella le aveva sconsigliato di ascoltarlo invitandola a ritornare a casa e se gli amici l’aspettavano alla Mole Adriana, perché andò su corso Rinascimento? Che cosa la trascinò e la trattenne a lungo, almeno fino alle 19:20 secondo i verbali, a quella fermata dell’autobus di fronte al Senato? “Non so spiegarmi perché mia sorella Emanuela si era intrattenuta alla fermata del 70 con le compagne di scuola, perché aveva appuntamento con l’altra sorella Cristina alla Mole Adriana all’uscita da scuola” disse all’epoca Federica Orlandi. Condividiamo le sue perplessità, ancora senza risposta dopo quarantuno anni.

UNO DEI PIÙ GRANDI ERRORI INVESTIGATIVI DI TUTTA LA VICENDA

Quando fu vista per l’ultima volta, Emanuela non era sola. Insieme a lei, anche una studentessa della scuola di musica mai identificata, la “rosa blu”, uno dei più grandi errori investigativi di questa vicenda. Un’altra allieva della “Da Victoria”, Maria Grazia Casini, ne parlò alla famiglia Orlandi già la sera della scomparsa. E ribadì questa presenza nei suoi tre colloqui con gli investigatori. Nel primo, 13 luglio 1983, sottolineò un particolare: “Sembrava che le due ragazze fossero in attesa di qualcuno e l’atteggiamento di Emanuela era molto teso”. Chi avrebbe potuto essere quel “qualcuno”? E perché quello stato d’animo?

Non riteniamo il caso di sovraccaricare il quadro dei fatti con ipotesi buone soltanto a intensificarne le nebbie. Che investono anche il luogo della scomparsa di Emanuela. Se è certo che lei rimase a quella fermata fino alle 19:20, è doveroso sottolineare un’altra affermazione di Casini (inedito di “Atto di dolore”): nel suo confronto con la “rosa blu” al cospetto di suor Dolores, questa avrebbe raccontato che con Emanuela si sarebbero “avviate a piedi fino a corso Vittorio (fine di corso Rinascimento, ndg), punto in cui si sarebbero divise, andando ognuna per proprio conto”. E allora: dove sparì Emanuela? Di fronte al Senato o in fondo a corso Rinascimento?

Non aver identificato quella ragazza e non averlo chiesto a suor Dolores, che invece ci era riuscita, sono state mancanze pesanti da parte degli inquirenti. E hanno compromesso larga parte dell’indagine. Se non si ricostruisce il cosiddetto “luogo del delitto” e le circostanze che lo precedono, come si può risolvere un caso? L’individuazione di quella giovane oggi donna è fondamentale per chiarire tutti gli interrogativi fin qui sollevati. A partire dal principale: quel 22 giugno 1983, che cosa successe a Emanuela Orlandi?

Per quanto appreso nelle settimane scorse, la Procura di Roma non sta lasciando niente al caso. Vuole completare tutte le strade iniziate e mai finite in questi decenni. Quella del luogo della scomparsa è finora paragonabile a una delle grandi opere del Paese prima annunciate in pompa magna e poi rimaste incompiute. Vere e proprie dissipazioni di tempo e di denaro. Come quelle di questa vicenda dietro piste inverosimili o personaggi improbabili. Col risultato che purtroppo tutti conosciamo. Essere sempre fermi a quella sera di quarantuno anni fa.

tommaso.nelli@spazio70