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Emanuela Orlandi: l’inattendibilità di Sabrina Minardi

Tommaso Nelli

Sul caso della cittadina vaticana scomparsa a Roma il 22 giugno 1983, le dichiarazioni della Minardi si sono distinte per una costante assenza di riscontri. Una mancanza che impedisce di attribuire attendibilità alle sue parole e farne un testimone-chiave per arrivare alla verità

Niente di vero tranne il vuoto. Sabrina Minardi è stata una delle protagoniste, in negativo, della scomparsa di Emanuela Orlandi. Entrò in scena nella primavera di quindici anni fa e fu la spinta definitiva all’apertura della seconda inchiesta giudiziaria sulla sparizione della giovane cittadina vaticana. Quella durata dal 2008 al 2015, che avrebbe visto la Banda della Magliana artefice del misfatto per volere di uno dei suoi capi, Enrico De Pedis, amante per un breve periodo della donna. Una forsennata ricerca conclusa in un nulla di fatto: «Emergono dunque in tutta evidenza le contraddizioni e le inverosimiglianze che hanno caratterizzato le dichiarazioni della Minardi» scrisse il GIP del Tribunale di Roma, Giovanni Giorgianni, nell’ottobre 2015, accogliendo le valutazioni formulate pochi mesi prima dal pubblico ministero Simona Maisto nella richiesta di archiviazione.

Un esito prevedibile, ma soprattutto un esito logico. Perché l’intera parabola di Sabrina Minardi nel caso Orlandi è percorsa da una costante assenza di riscontri. Una mancanza che impedisce di attribuire attendibilità alle sue parole e di farne un testimone-chiave per arrivare alla verità.

«HAI PORTATO LA SPESA BUONA? CI STA LA RAGAZZINA CHE DEVE MANGIARE»

Danilo Abbruciati

La sabbiosità delle sue ricostruzioni fu evidente fin da subito. Da quei colloqui con la Squadra Mobile di Roma, tra il 14 e il 19 marzo 2008, nei quali per la prima volta Minardi si attribuì un presunto ruolo nella scomparsa della povera Emanuela. Sosteneva di averla vista una volta sola. Durante un incontro al colle del Gianicolo, l’avrebbe presa in consegna da De Pedis per condurla a un uomo vestito da sacerdote presso il benzinaio del Vaticano. L’incapacità di collocare nel tempo l’episodio – prima disse «Era tipo primavera, era da poco passato l’inverno, questo me lo ricordo bene» (per la cronaca: quando Orlandi sparì, era già estate) e poi «Dopo un paio di mesi (dalla sparizione, ndg) mo’ te lo dico approssimativamente» – e il luogo, il Gianicolo è uno dei posti più frequentati di Roma durante l’estate, fecero sorgere qualche perplessità all’allora capo della Squadra Mobile capitolina, il dottor Vittorio Rizzi, esplicito verso quelle affermazioni: «Io non posso avere una storia che è fatta di tutti tasselli scombinati. Ho bisogno di riscontri».

Mai parole furono più profetiche. Perché non emerse mai una prova a sostegno dei racconti di Minardi, che affermò come Emanuela, prima di quel trasporto, fosse stata tenuta prigioniera nei sotterranei di una casa sulla Gianicolense e che di quella detenzione le avesse chiesto notizie addirittura Danilo Abbruciati, esponente di punta della Banda della Magliana e amico di De Pedis: «C’hai portato la spesa buona? Perché lì ci sta la ragazzina che deve mangiare». Parole che sarebbero state più che sufficienti per non dedicare altro tempo alle esternazioni di questa signora. Perché, quando scomparve Emanuela Orlandi, 22 giugno 1983, Abbruciati era già morto da quattordici mesi. Era stato ucciso a Milano il 27 aprile 1982, nel corso della sparatoria che lo aveva visto attentare la vita dell’allora vicepresidente del Banco Ambrosiano, Roberto Rosone. Per cui, salvo il ricorso a ritualità medianiche, Minardi mai parlò di Emanuela Orlandi con Er Camaleonte. A ogni modo, furono perlustrati anche i luoghi della presunta carcerazione, relativi ai sotterranei di una casa al primo piano di via Antonio Pignatelli. Ma gli esami della Polizia Scientifica stabilirono come né «Emanuela Orlandi o altro essere vivente potesse essere stato tenuto prigioniero in quei locali».

IL «ROMANZO CURIALE» SUL CASO ORLANDI

Paul Marcinkus

Nonostante due incontri con la Squadra Mobile e un’audizione in Procura, Minardi non disse mai come Emanuela fosse arrivata in quel luogo. E nessuno le chiese nulla. Sennonché, all’improvviso, fu lei a narrarlo. Era il 28 ottobre 2008. Quando stravolse i fatti affermando di aver visto Emanuela già la sera della scomparsa. Al laghetto dell’EUR insieme a De Pedis, al quale la ragazza sarebbe stata consegnata da due giovani a bordo di una BMW verde fosforescente. Al che lui l’avrebbe portata nella casa dei genitori di Minardi a Torvajanica, dove l’avrebbe tenuta prigioniera venti giorni prima di trasferirla nei sotterranei di via Pignatelli. Motivo? La preoccupazione che la coppia si recasse presso l’abitazione e scoprisse il sequestro.

Particolare questo resoconto della donna. Perché aggiunse il tassello mancante alla sua versione sulla vicenda e arrivò circa un mese dopo la prima audizione di Salvatore Sarnataro, l’uomo che avrebbe ricevuto dal figlio Marco la confidenza di aver fatto salire Emanuela sulla sua BMW a piazza Risorgimento e di averla poi portata a De Pedis che lo attendeva al laghetto dell’EUR. Una versione fasulla, come vi abbiamo raccontato la scorsa estate. E nella quale, soprattutto, non compariva Sabrina Minardi.

A parte la perdurante assenza di riscontri e le contraddizioni con quanto raccontato fino a quel momento, aggravate da una nuova collocazione dell’episodio del Gianicolo ora spostato a ottobre, nelle parole di Minardi la logica va in cortocircuito. Perché affermò che un giorno monsignor Paul Marcinkus sarebbe andato a Torvajanica e avrebbe violentato la ragazza. Sennonché è lo stesso Marcinkus al quale l’ex di De Pedis alluse come possibile ragione del presunto sequestro della ragazza. Il 4 giugno 2008, quando fu sentita per la prima volta in Procura, lei premise di ignorare il movente – altro particolare sfavorevole per la sua attendibilità – per poi ipotizzare: «Senta, io la motivazione esatta non la so, però posso dire che con De Pedis conobbi monsignor Marcinkus. Lui era molto ammanicato con il Vaticano, però i motivi… Posso immaginarli che erano quelli di riciclare il denaro, che Marcinkus, che allora, mi sembra che era il Presidente dello IOR, però so’ ricordi così, eh…”».

Su queste parole, insieme alle dichiarazioni mai provate di un altro leader della Banda (Maurizio Abbatino), è stato edificato il romanzo curiale di Emanuela Orlandi sequestrata dalla Banda della Magliana per ricattare lo IOR, la banca vaticana, colpevole di non aver restituito un ingente prestito di denaro. Sennonché il presidente dello IOR era proprio Marcinkus. E non si è mai visto il bersaglio di un ricatto esserne anche il beneficiario.

«MA CHE NE SO, NON LO SAPEMO SE È MORTA»

Enrico De Pedis

Anche sulla fine di Emanuela, Minardi offrì un altro saggio di inattendibilità. Fin da subito disse che il corpo della ragazza era stato gettato in una betoniera a Torvajanica, località del litorale laziale, da De Pedis, insieme a un altro cadavere: quello del piccolo Domenico Nicitra, figlio di Salvatore, boss del quartiere di Primavalle, scomparso in circostanze mai chiarite. Però nel 1993. Cioè, dieci anni dopo Emanuela Orlandi e, soprattutto, tre anni dopo la morte di De Pedis. Il 5 novembre 2008 nuova versione: Emanuela non sarebbe stata più uccisa e il suo corpo gettato a Torvajanica, ma imbarcata a Ciampino su un aereo diretto in un Paese arabo. Due settimane dopo, altro giro e altra corsa. Il cadavere della povera Emanuela sarebbe stato gettato in mare al largo di Torvajanica da un gommone a bordo del quale c’erano De Pedis (immancabile) e due suoi uomini di fiducia, Alessio Monselles e Sergio Virtù. In questa occasione, Renatino le avrebbe addirittura telefonato a casa per dirle che l’operazione era andata a buon fine. Infine, per non lasciar niente di intentato, in una conversazione telefonica con la sorella, Minardi ignorava la sorte della ragazza: «Ma che ne so. Non lo sapemo se è morta o non c’è più».

Altre perle si aggiungono alla collana delle inverosimiglianze. Per esempio, la persona che avrebbe accompagnato a bordo di una Renault 5 Emanuela al Gianicolo dai sotterranei di via Pignatelli sarebbe stata una tale Maria Luisa M., domestica dei coniugi proprietari dell’abitazione. Che però non aveva mai avuto la patente e non sapeva guidare la macchina. Gli inquirenti lo accertarono il 25 giugno 2008. Sempre il 28 ottobre dello stesso anno, Minardi cambiò versione: a guidare quell’auto sarebbe stata una certa Maria Adelaide, badante dello zio di De Pedis e morta però a inizio anni Duemila. Infine, per non tralasciare nulla, gli inquirenti condussero Minardi anche nel luogo dove si sarebbe trovata la betoniera di Torvajanica nella quale sarebbe stato gettato il corpo di Emanuela. Lei però indicò una zona che nel 1983 era già costruita. E non c’è da stupirsi.

IL TENTATIVO DI «RICAVARE UN GUADAGNO» DALLE DICHIARAZIONI SUL CASO ORLANDI

Semmai c’è da esserlo per la considerazione delle sue parole da parte del mainestream e di qualche investigatore. Che ancora oggi le ripropongono come attendibili, addebitando le contraddizioni all’eccessivo consumo di droga che ha danneggiato la sua mente e ai giornalisti che, diffondendone le deposizioni, la fecero precipitare in uno stato di paura inducendola così a ritrattare. Giustificazioni con le gambe corte. Perché se una persona non è lucida, non può essere presa in considerazione come testimone di un’indagine. Altrimenti come si stabilirebbero le eventuali responsabilità penali? Premiando il racconto che più si avvicina alla realtà come in un gioco a premi? Incolpare i giornalisti invece è un classico del qualunquismo italico. Dove un insuccesso non è figlio delle nostre responsabilità, ma sempre colpa di qualcun altro, di solito l’anello debole della catena. Ma con la pubblicazione di parti dei verbali di Minardi, i giornalisti non fecero altro che il loro lavoro: dare le notizie. Ricevute dagli ambienti che le custodivano.

Per comprendere meglio l’azione della donna nel caso Orlandi, occorre dare spazio ad altre informazioni affiorate dall’attività di intercettazione telefonica nei suoi confronti. Minardi cercava un significativo miglioramento delle sue condizioni di vita e mediante la sorella arrivò a contattare don Piero Vergari, ex rettore della basilica di S. Apollinare, con la speranza che intercedesse con il Vaticano perché le procurasse una casa in affitto a prezzo simbolico. L’uomo però mai le rispose. E gli inquirenti accertarono come lei cercasse «in tutti i modi di ricavare un guadagno dalle sue dichiarazioni fatte ai media in ordine alla scomparsa di Emanuela Orlandi». Infatti, Minardi aveva scritto un libro sulla vicenda durante i suoi colloqui con i magistrati. Premesso che, se si teme per la nostra incolumità dovuta a un fatto che ci avrebbe visto protagonisti, questo non si affronta in un’opera che ci esporrebbe ancora di più al rischio di possibili ritorsioni, giova sottolineare come al telefono la donna non ricevette alcuna minaccia. Né presentò mai alcuna denuncia in merito. Anzi, dal controllo delle sue conversazioni – si legge nel decreto di archiviazione che riporta un’informativa della polizia giudiziaria – emerse come lei fosse consapevole «che il clamore suscitato dalle notizie che si susseguono in tv e sui giornali potrà essere un’ottima pubblicità per il suo libro».

Per cui, se dopo quarant’anni il caso di Emanuela Orlandi è ancora un mistero, è anche perché dalla sua archiviazione in poi (2015) si è continuato a dare visibilità e in più forme (tv, cinema, docuserie, possibili commissioni parlamentari) a figure come Sabrina Minardi. Quando invece bisognerebbe prendere atto di quel che sono state e archiviarle. Una volta per tutte.