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Emanuela Orlandi e la nuova inchiesta: il Vaticano vorrà davvero indagare su se stesso?

Tommaso Nelli

Alcuni corsi, ricorsi e intrecci lasciano pensare a un'ipotesi, la più nefasta. Cioè che questa inchiesta, a più riprese auspicata dalla famiglia Orlandi, possa trasformarsi nella tomba della verità sulla sorte di Emanuela

Una novità epocale, ma con ben poche certezze e, anzi, densa di dubbi e domande. A meno di dieci giorni dalla morte di Benedetto XVI, la magistratura vaticana ha annunciato un’indagine sulla scomparsa di Emanuela Orlandi. Una singolare coincidenza per un fatto storico, visto il quarantennale muro di omertà innalzato Oltretevere sulla vicenda, tra reticenze cardinalizie, risibili collaborazioni con gli inquirenti italiani nonostante tre rogatorie e ordini di negare anche ai magistrati l’esistenza di un’inchiesta interna su questa loro cittadina scomparsa a Roma il 22 giugno 1983. Era l’ottobre 1993, quando un allora sovrastante della vigilanza vaticana, pochi giorni prima di presentarsi in Procura per rispondere sulla scomparsa di Mirella Gregori (adolescente romana sparita nel nulla quarantaquattro giorni prima di Emanuela Orlandi), ricevette la telefonata di un suo superiore dal contenuto più che eloquente: Che sai di Orlandi? Niente! Noi non sappiamo niente! […] l’Ufficio ha indagato all’interno… questa è una cosa che è andata poi… non dirlo che è andata alla Segreteria di Stato”.

A CHI GIOVA LA RIAPERTURA DEL CASO DA PARTE DEL VATICANO?

Il mutismo di diversi Don Abbondio, il doppio filo con la Santa Sede di più di un laico cresciuto all’ombra del Colonnato e i silenzi delle “amiche” della parrocchia frequentata dalla Orlandi, hanno completato un quadro di pesanti anomalie che vogliono le responsabilità della tragedia albergare proprio sotto al Cupolone.

Ma allora perché questa inversione di tendenza? Da dove nasce la volontà del Vaticano di riaprire una vicenda che lo chiama in causa in prima persona? Gli apostolici palazzi sono davvero disposti ad accertare eventuali misfatti di qualche loro eminente personalità in un dramma che contemplerebbe l’omicidio di una minorenne, presumibilmente in un contesto a sfondo sessuale, col rischio di occultamento se non addirittura distruzione del cadavere? Uno scenario terribile che, se confermato, inchioderebbe alle loro responsabilità anche i complici degli autori del crimine, cioè tutti coloro che in questi decenni hanno osservato uno scrupoloso silenzio. E le conseguenze sarebbero devastanti per l’immagine della Chiesa a livello mondiale, che si ritroverebbe a dover gestire uno scandalo di enormi dimensioni.

Quindi cui prodest questa novità? A chi giova? A colui che in questa indagine ha già vinto, indipendentemente da come andrà a finire: Papa Francesco. Che passerà alla storia come il primo pontefice ad aver acconsentito, in forma ufficiale, a un’azione giudiziaria da parte del Vaticano sul caso Orlandi, differenziandosi così da quanto fatto dai suoi predecessori: Benedetto XVI e Giovanni Paolo II. Un cambio di atteggiamento netto, in linea con la trasparenza proclamata da Bergoglio all’indomani della sua elezione al soglio petrino, che per la sparizione di Emanuela si era già manifestato nel 2019. Quando il Vaticano, per la prima volta dal 1983, permise verifiche interne con l’ispezione di due tombe del Cimitero Teutonico nelle quali, secondo una lettera anonima che diceva di guardare dove indicasse la statua dell’angelo presente nel piccolo camposanto, si credeva fossero custoditi i resti della giovane. Una storia degna del miglior Dan Brown. E infatti quelle tombe erano vuote. Si scoprì poi che la fonte di quella notizia, come di altre infondate sulla storia della Orlandi uscite dopo l’elezione di Papa Francesco (tipo la telefonata alla Sala Stampa vaticana la sera della scomparsa), era monsignor Carlo Maria Viganò: negazionista del Covid, trumpista della prima ora e soprattutto acerrimo nemico di Bergoglio al punto da chiederne le dimissioni nel 2018.

L’indagine fresca di annunciazione è la replica in grande scala di quel circoscritto approfondimento di quattro estati fa. E non deve sorprendere più di tanto. Perché Papa Francesco già nel febbraio 2022, rispondendo a una lettera dell’avvocatessa della famiglia Orlandi del novembre 2021 che lo informava di essere in possesso di nuovi elementi per fare luce sul destino della sfortunata Emanuela, aveva ufficialmente dichiarato che avrebbero potuto metterli a disposizione del promotore di giustizia vaticano. Cioè colui che conduce le indagini dentro le Mura Leonine, l’equivalente del sostituto procuratore della giustizia italiana. A ricoprire il ruolo, è il professor Alessandro Diddi, avvocato penalista di grande esperienza (nel suo curriculum processi come “MPS”, “Alitalia”, “Telecom (dossier)”, “Fastweb”, “Why Not”, “Bancarotta Parmalat” e “Bancarotta Cirio”) e docente di diritto processuale penale all’università della Calabria. Un uomo di Bergoglio visto che è stato quest’ultimo a nominarlo nel maggio 2021.

I TRE PUNTI SUI QUALI CONCENTRARE L’ATTENZIONE

A meritare attenzione, sono semmai altri tre punti di questa indagine: la tempistica, le sue effettive ragioni e la sua futura impostazione. Perché il Vaticano ha deciso di avviarla a meno di dieci giorni dalla morte di Benedetto XVI? Una risposta si può trovare proprio nei giorni seguenti la dipartita del Vescovo Emerito, che ha sancito la fine della cosiddetta pax christi tra la sua corrente, tradizionalista, e quella di Papa Francesco, progressista. A dare fuoco alle polveri, le accuse di monsignor Georg Gaenswein, segretario personale di Ratzinger, a Papa Francesco reo, a suo dire, di averlo esautorato dal ruolo di Prefetto. “Mi ritrovai a essere un Prefetto dimezzato” ha scritto nel suo libro Nient’altro che la verità, richiamandosi al visconte di Italo Calvino. Parole uscite sulla stampa mentre il corpo di Benedetto XVI non era ancora stato tumulato nelle tombe vaticane. E allora Bergoglio è passato al contrattacco con una scelta che rafforza la sua immagine agli occhi dei fedeli, infligge un duro colpo ai suoi nemici interni e si fa beffe di chi ultimamente l’ha raffigurato come il papa “complice del silenzio” sul caso Orlandi al pari di Wojtyla e Ratzinger.

Dai tempi alla natura dell’inchiesta. Quali elementi ne hanno determinato l’apertura? Quale ipotesi di reato campeggia in alto al fascicolo? E guarderà soltanto in Vaticano o anche all’estero, cioè in Italia? Tre interrogativi determinanti per comprendere l’effettiva portata di questa iniziativa e che cosa ci si può aspettare. Una nota del portavoce della Sala Stampa della Santa Sede, Matteo Bruni, ha riportato che l’indagine è nata anche “sulla base delle richieste fatte dalla famiglia in varie occasioni”. Ci sono poi degli screenshoot di conversazioni WhatsApp tra due importanti prelati. Ma sono informazioni sommarie per capire meglio l’azione investigativa, che non chiarificano nemmeno l’ipotesi di reato che ha determinato il suo avvio e che non consentono di capire se intende avventurarsi o meno anche in terra straniera, vale a dire sulle italiche sponde. Per saperne di più, abbiamo contatto il promotore di giustizia Alessandro Diddi. Ma senza successo: “Vorremmo attenerci a criteri di sobrietà e riservatezza”, è stata la sua risposta.

Non ci rimane dunque che ipotizzare degli scenari, basandoci su dei dati di fatto. Se l’istruttoria si rivolgerà anche in Italia, acquisendo l’immensa documentazione giudiziaria custodita negli archivi della Procura di Roma, si prevedono tempi biblici per la sua durata. E qualora dovesse colmare le lacune dei nostri inquirenti, li esporrebbe a una brutta figura con annesse ripercussioni diplomatiche agli occhi del mondo (l’Italia messa knock out da un piccolo Stato, situato per giunta al suo interno). Certo, una simil procedura solleverebbe la magistratura romana dall’apertura di una sua indagine sul caso Orlandi, comunque possibile perché due Stati possono procedere giudiziariamente sulla stessa vicenda, che sarebbe stata più opportuna. Perché di Emanuela si persero le tracce sul territorio italiano e già il luogo della sparizione pullula di interrogativi irrisolti – la mancata individuazione dell’ultima persona assieme a lei, chi c’era effettivamente quella sera a quella fermata dell’autobus, chi lei seguì, ecc. – e però d’importanza apicale per la risoluzione del mistero. Quel mistero che, pensando alla macchina scura che talvolta passava a prendere la ragazza all’uscita della scuola di musica o all’incontro ravvicinato con un alto ecclesiastico nei Giardini Vaticani, due degli inediti di Atto di Dolore, conduce proprio in quel Vaticano che ora ha deciso di indagare su questa sua cittadina.

CORSI, RICORSI E INTRECCI

Un copione dalla forma kafkiana e dalla sostanza dostoevskjiana. Perché se è certo che guarderà dentro casa sua, è altrettanto vero che il Vaticano che indaga sul Vaticano è roba da Delitto e castigo. Stiamo infatti parlando di una monarchia assoluta, temporale e teocratica: dove i poteri sono accentrati nelle mani di una sola persona (il Papa); dove i cittadini sono innanzitutto sudditi; dove ci sono gerarchie ben strutturate e definite; dove vige la regola dell’obbedienza; e dove ci sono conflitti di potere per i quali la strumentalizzazione di una vicenda scottante come questa può risultare molto utile per regolare conti in sospeso di altra natura. C’è poi da fare un’altra osservazione relativa ai soggetti in campo. Qualora l’inchiesta del promotore Diddi, che sarà coadiuvato dalla Gendarmeria Vaticana, dovesse concludersi con l’individuazione di alcuni responsabili ancora in vita, questi saranno rinviati a giudizio presso il Tribunale Vaticano. Presieduto, dall’ottobre 2019 e sempre per volontà di Bergoglio, da Giuseppe Pignatone. Cioè l’ex Procuratore Capo della Procura di Roma, che nel maggio 2015 chiese l’archiviazione per l’inchiesta sulla scomparsa di Emanuela Orlandi. Ma non solo. Prima di lasciare le alte stanze di piazzale Clodio per la pensione, Pignatone coordinò l’indagine ribattezzata “Mafia Capitale” che, tra gli altri, rinviò a giudizio anche un imprenditore, Salvatore Buzzi. Chi era il suo avvocato? Diddi, che riuscì a evitargli la condanna per imputazione mafiosa. Corsi, ricorsi e intrecci degni di una spy story, quando invece è tutto vero.

Così vero da contemplare anche l’ipotesi più nefasta. Cioè che questa inchiesta, a più riprese auspicata dalla famiglia Orlandi, possa trasformarsi nella tomba della verità sulla povera Emanuela. Perché qualora non dovesse approdare ad alcun risultato, concludendosi con un’archiviazione, oppure dovesse rinviare all’esterno, cioè in Italia, sarà difficile accusare ancora il Vaticano di aver fatto sempre orecchie da mercante sulla vicenda. Potrà infatti rispondere di aver riaperto le indagini senza trovare alcuna prova di un coinvolgimento, con un conseguente e prevedibile invito a cercare altrove. Il finale ideale, almeno su quel piano formale da sempre molto caro a piazza San Pietro, che induce a chiedersi: ma il Vaticano avrà davvero il coraggio di indagare se stesso?