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Sette colpi per un killer: la Banda della Magliana e l’omicidio Magliolo

Tommaso Nelli

Quello di «Pino Er Killer», baffoni alla messicana e velate simpatie politiche per l’estrema sinistra, sembrava uno dei tanti delitti a cavallo tra anni Settanta e Ottanta destinati all’oblio. Una cappa di omertà venuta meno grazie alle parole di uno spacciatore di piccolo taglio, originario di Cerveteri, conosciuto nell’ambiente come «Sorcio»

Lido di Ostia, otto di sera di martedì 24 novembre 1981. C’è un uomo esanime a terra, all’angolo tra via delle Sirene e via Duca di Genova dalla quale si stava allontanando prima che sette colpi di pistola calibro 7,65 gli togliessero la vita. A spararli, secondo le prime testimonianze condensate nel rapporto della Squadra Mobile di Roma a cura dell’allora commissario capo Nicola Cavaliere, «alcuni individui sopraggiunti a bordo di un’Alfetta». Anche se generiche, già averle è un piccolo tesoro per gli agenti. Perché a quell’ora è buio, l’illuminazione è scarsa e fa freddo. Ma soprattutto è l’ora di cena e per le strade oramai non c’è più nessuno. Poco distanti dal cadavere, ci sono i documenti e i valori di quell’uomo. Agli assassini però non interessavano i suoi soldi, bensì lui. Perché quella non è stata una rapina finita male, ma un’esecuzione in piena regola. Quella di Giuseppe Magliolo, per tutti «Pino Er Killer».

Nato a Roma il 18 ottobre 1948, una vita di espedienti come scivolo verso la criminalità, la morte aveva raggiunto Magliolo appena uscito da casa della madre e in procinto di dirigersi al Commissariato di Ostia per la firma. Era in regime di libertà provvisoria dopo una condanna a otto anni di reclusione, scontata tra le carceri di Rebibbia e di Ascoli Piceno, dalla quale era uscito da poco più di un mese. Per cui: chi poteva volerlo morto in così breve tempo?

Una domanda senza risposta per le prime indagini che, al di là delle parole di un testimone, uscito dal bar paterno per abbassarne la saracinesca una volta uditi gli spari, non furono in grado di raccogliere indizi significativi. Tanto che il 19 gennaio 1983, il giudice istruttore del Tribunale di Roma Domenico Nostro confermò la richiesta del sostituto procuratore Leonardo Frisani e archiviò il procedimento per due motivi: gli autori erano rimasti ignoti e non erano stati ricavati elementi utili per giustificare il proseguimento dell’azione investigativa.

UN OMICIDIO CHE AFFONDA LE RADICI NELLA STORIA DELLA BDM

Tribunale di Roma, Corte d’Assise, sentenza di primo grado per l’omicidio Magliolo (23 luglio 1996)

Quello di Pino Er Killer, baffoni alla messicana e velate simpatie politiche per l’estrema sinistra, cosa inconsueta nella mala romana degli anni Settanta, sembrava uno dei tanti delitti dell’epoca destinati all’oblio. Sennonché, quell’opprimente cappa d’omertà non durò ancora a lungo. Perché l’8 ottobre uno spacciatore di piccolo taglio originario di Cerveteri, Fulvio Lucioli, meglio conosciuto nell’ambiente come Sorcio, svelò agli inquirenti che il crimine della Capitale era in mano a un’organizzazione leader del mercato della droga, che sarebbe passata alle cronache come la Banda della Magliana, autrice anche di più omicidi fino a quel momento insoluti. Come quello di Giuseppe Magliolo. Il giudice istruttore Guido Catenacci non perse tempo e il 2 dicembre 1983 ne dispose la riapertura del fascicolo perché sussistevano «nuovi elementi probatori utili per la identificazione dei responsabili».

Ma perché la Banda avrebbe voluto eliminare uno appena uscito di carcere, disoccupato e che viveva insieme alla compagna, sorella di un suo ex compagno di cella, in una pensione del litorale laziale? La spiegazione affonda le radici nella storia del sanguinario sodalizio.

Dall’infanzia, Giuseppe Magliolo fu amico di Nicolino Selis, detto Il Sardo, uno dei fondatori della Banda della Magliana. Un’amicizia proseguita anche dietro le sbarre di Regina Coeli, dalla quale nel 1975 erano evasi assieme ad altri detenuti, fra i quali Laudavino De Sanctis, il famigerato Lallo lo Zoppo, come ebbe a dichiarare lo stesso Pino alla compagna, Damiana D. «Allorquando la televisione ha comunicato il suo arresto per il sequestro Corsetti […] esclamò: “Vedi, quello è Lallo, uno di quelli che è evaso con me da Regina Coeli”» raccontò la donna alla Squadra Mobile all’indomani della tragedia.

Nella successiva detenzione ascolana, Magliolo era diventato uomo di fiducia di Raffaele Cutolo, fondatore della Nuova Camorra Organizzata, e si era guadagnato il soprannome di killer perché «aveva accoltellato per conto del Cutolo o del Selis parecchie persone». A rivelarlo, uno dei primi collaboratori di giustizia della Banda, Claudio Sicilia, il Vesuviano per le sue origini campane. Selis si era ispirato proprio alla N.C.O. per costituire anche a Roma un’organizzazione di analoga caratura. Nata ufficialmente col sequestro e l’uccisione del duca Massimiliano Grazioli Lante della Rovere (7 novembre 1977), la Banda della Magliana in pochi anni aveva espanso il suo potere e il suo volume di affari, acquisendo il controllo del mercato della droga ed eliminando i rivali più pericolosi. Come Franco Nicolini, Franchino Er Criminale, freddato nel parcheggio dell’ippodromo di Tor di Valle la notte del 25 luglio 1978.

«IL MAGLIOLO? ERA MOLTO LEGATO A MIO FRATELLO»

Tribunale di Roma, Corte d’Assise, sentenza di primo grado per l’omicidio Magliolo (23 luglio 1996)

La scalata consentì ai suoi componenti di migliorare significativamente il proprio tenore di vita, ma tanta ricchezza, soprattutto per chi proviene dalla povertà, fa perdere il controllo della situazione. A cominciare dai rapporti interpersonali, che si surriscaldarono per poi esplodere. Come quello con Selis. Le sue richieste si erano fatte insostenibili, come raccontò Sicilia ai magistrati: «Si lamentava dal carcere perché il Libero Mancone e l’Edoardo Toscano non rispondevano alle sue richieste di denaro». Così, il 3 febbraio 1981, gli altri esponenti della Banda gli proposero un incontro, al termine del quale si persero per sempre le sue tracce. Perché fu ucciso e poi sepolto in una fossa sul Tevere coperta da calce viva. Il suo corpo non è mai stato ritrovato.

Appresa la notizia, Magliolo giurò vendetta. E dopo essere stato scarcerato, mise al corrente dei suoi propositi proprio Lucioli. Dai suoi verbali dell’8 ottobre e del 2 novembre 1983, si apprende che era andato a trovarlo due o tre volte a casa, chiedendogli se volesse aiutarlo a eliminare coloro che riteneva responsabili dell’uccisione dell’amico. Vale a dire, Edoardo Toscano, Maurizio Abbatino, Marcello Colafigli, Libero Mancone e Massimo De Angelis. Ma il Sorcio si rifiutò, perché non era disponibile ad azioni di violenza. E al giudice Catenacci aggiunse che Toscano gli fece presente di essere al corrente delle intenzioni di Magliolo e che avrebbe cercato di anticiparne le mosse, uccidendolo prima lui.

Il movente del regolamento di conti trovò sponda anche nelle parole della sorella di Selis, Anna, del 6 aprile 1984 sempre al giudice Catenacci: «Il Magliolo era molto legato a mio fratello. Dopo la sua scarcerazione venne a trovarmi due o tre volte. Mi disse che avrebbe cercato di ritrovare il corpo di Nicolino e allo stesso tempo di identificare gli autori della scomparsa». Una versione corroborata dalla madre di Pino, Ivana Savelli: «Mio figlio era rimasto sconvolto dalla morte di Selis Nicolino del quale era amico fin da quando entrambi erano ragazzi». La signora sottolineò poi una macchina bianca con tre persone a bordo sotto casa sua pochi giorni prima dell’agguato – «Sembrava stessero aspettando qualcuno. Ho ripensato a questa cosa quando la polizia mi disse, anzi alcuni inquilini mi dissero che questa vettura era già stata notata altre volte sotto casa» – i timori del figlio – «Sembrava avere paura di qualcosa»mentre già nel 1982 aveva riferito di una telefonata, risalente a una settimana prima della morte, chiusa dal figlio con un sinistro messaggio al suo interlocutore: «Lo so che quello ce l’ha con me, facciamo a chi fa prima». Il riconoscimento in foto di Edoardo Toscano, da parte della donna, ne portò al rinvio a giudizio nel primo maxiprocesso alla Banda della Magliana, dal quale però uscì assolto per insufficienza di prove il 23 giugno 1986. Un verdetto confermato anche dalla sentenza di appello, dopo la quale l’Operaietto tornò in libertà trovando però la morte poco tempo dopo. Una dinamica molto simile a quella proprio Magliolo con la differenza, però, che a oggi ancora non si conoscono i nomi dei suoi assassini.

UNA DINAMICA PARTICOLARMENTE CRUENTA

Tribunale di Roma, ufficio del Giudice istruttore. Verbale di Ivana Savelli (3 dicembre 1982)

Quelli di Pino er Killer furono invece svelati dalla cosiddetta Operazione Colosseo, l’indagine che consentì di sgominare la parte di superstiti della Banda e i soggetti a essa orbitanti. A coordinarla, il giudice istruttore Otello Lupacchini e il sostituto procuratore Andrea De Gasperis, che beneficiarono anche dei contributi dei collaboratori di giustizia. Fra questi, due pezzi da novanta della Magliana: Vittorio Carnovale e Maurizio Abbatino. Arrestato nel 1993, Er Coniglio prese a parlare dopo l’arresto del secondo, latitante a Caracas fino alla notte di Capodanno del 1992, quando si tradì con una telefonata di auguri alla mamma.

«Mi fu detto da Edoardo Toscano che a commettere l’omicidio furono egli stesso, il Pernasetti e Roberto Fittirillo» raccontò il 18 novembre 1992 Crispino, da molti ritenuto la gola profonda della Banda. Sennonché quel 24 novembre 1981, mentre Magliolo veniva crivellato di colpi, lui era in carcere. Quanto sapeva era quindi un de relato. De visu invece il racconto reso da Carnovale il 16 (e non il 14, come erroneamente riportato nella sentenza di primo grado) novembre 1993: «A ucciderlo, provvedemmo io, Toscano, De Pedis e Paradisi, il quale guidava un’Alfetta blu rubata. […] Ci recammo ad attenderlo sotto casa della madre a Ostia, prima che si recasse a firmare […] Io mi ero appostato vicino alla macelleria, Edoardo Toscano vicino al cancello dal quale sarebbe dovuto uscire il Magliolo e De Pedis sempre vicino al cancello, ma dalla parte opposta rispetto a Toscano […] Quando il Magliolo comparve, prima ancora che salisse in auto venne affrontato da Edoardo che lo ferì; ciò nonostante tentò di fuggire e sia io che il De Pedis cercammo, sparando, di sbarrargli la strada. Il Magliolo cadde, si rialzò e cercò ancora di fuggire. Fu allora che Paradisi gli andò addosso con la macchina. Quando ormai il Magliolo era a terra e non si muoveva più fu esploso contro di lui un altro colpo, ma non so da chi».

Ma la sua deposizione fu raccolta quando, oltre a Toscano era già morto anche De Pedis. Per cui i due non finirono alla sbarra dell’aula bunker del Foro Italico. Dove la requisitoria del dottor De Gasperis, oltre agli esecutori del delitto, consentì alla Corte di condannare anche Raffaele Pernasetti come complice, perché al volante di una delle due auto con le quali il commando si dileguò dopo l’agguato e l’abbandono dell’Alfetta, rinvenuta con diverse macchie di sangue sulla carrozzeria. Oggi, Abbatino, Carnovale e Pernasetti hanno saldato il loro debito con la giustizia e sono cittadini liberi. Invece Fittirillo, beneficiario della prescrizione nel 2007 per il «tanto tempo trascorso dal fatto» e «comportamento irreprensibile», è attualmente detenuto presso il carcere di Napoli.

1981, UN ANNO CRUCIALE PER LA STORIA DELLA BANDA

Con quell’omicidio la Banda pensò di aver riaffermato la sua potenza e il suo dominio sul territorio. Ma fu un’illusione. Il giorno dopo, negli scantinati del Ministero della Sanità all’EUR, fu scoperto l’arsenale militare dell’organizzazione nel quale fu trovato anche l’esplosivo utilizzato sul rapido Milano-Taranto del 13 gennaio del 1981 per depistare le indagini sulla strage di Bologna. Un anno cruciale per la Banda. Oltre agli omicidi di Selis, Leccese e Magliolo, che aprirono la faida interna tra le diverse anime dell’associazione, dovette fare i conti con gli arresti di due suoi esponenti (Antonio Mancini e Marcello Colafigli) per i fatti di via Donna Olimpia (16 marzo) e fu coinvolta anche nell’omicidio di Domenico Balducci (16 ottobre), cravattaro in rapporti con mafia e servizi segreti. Un excursus cruento che, come si sarebbe poi visto con gli arresti e le morti degli anni seguenti, rappresentò l’inizio della sua fine.