Qui potrai trovare una vasta rassegna di materiali aventi ad oggetto uno dei periodi più interessanti della recente storia repubblicana, quello compreso tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Ottanta del secolo scorso.
Il sito comprende sei aree tematiche e ben ventidue sottocategorie con centinaia di pezzi su anni di piombo, strategia della tensione, vicende e personaggi più o meno misconosciuti di un’epoca soltanto apparentemente lontana. Per rinfrescare la memoria di chi c’era e far capire a chi era troppo giovane o non era ancora nato.
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L’8 giugno 1994, durante l’inchiesta della cosiddetta Operazione Colosseo, anche Fabiola Moretti parlò dell’omicidio di Edoardo Toscano: «Renatino venne a sapere che Edoardo lo cercava e ritenne di doverlo far uccidere, in quanto altrimenti sarebbe stato ucciso lui […] Io seppi questo dopo e non prima dell’omicidio […] dallo stesso De Pedis». Le sue parole però arrivarono quando Enrico De Pedis era già morto da quattro anni.
La Moretti affermò poi che a sparare fu Angelo Cassani, detto Ciletto, uno dei tanti pesci piccoli del torbido mare della Magliana. «Era entrato a far parte della Banda in occasione dell’omicidio Faina» e secondo lei agì insieme a un certo Rufetto che «faceva il killer già all’epoca di Abbruciati», ma del quale la donna afferma di non ricordare il cognome. Anche per Sicilia fu Cassani a premere il grilletto, animato dalla vendetta per un litigio durante una partita di calcio in carcere tra il 1985 e il 1986. Una motivazione non straordinaria per un omicidio. Senza contare che gli inquirenti, che mai arrivarono a Rufetto, lo conoscevano e non avrebbero avuto problemi nel metterlo a confronto con i testimoni dell’agguato. Sennonché in quella mastodontica indagine scaturita dalle dichiarazioni di Maurizio Abbatino, mentre Ciletto veniva rinviato a giudizio e pure condannato in Cassazione per alcuni crimini, l’omicidio Toscano non figurò nemmeno tra gli episodi finiti a processo.
Fiction, romanzi criminali e giornasensazionalismo hanno però accreditato questa lettura e quella del Vesuviano di cui vi abbiamo già parlato nella prima parte, sedimentandole nell’immaginario collettivo. Ma come in tutte le finzioni, dietro l’apparenza spesso c’è il vuoto. E la fine dell’Operaietto oggi è un altro buco nero a causa di diversi interrogativi che l’incedere del tempo ha reso sempre più complicati da sciogliere. In primis, la mancata identificazione del killer. Anche se lo notarono in diversi. Come due agenti di polizia, richiamati dagli spari mentre uscivano dalla banca situata dall’altra parte della strada: «Era alto circa 1,65 mt., corporatura esile, un paio di occhiali da vista e un berretto estivo di colore chiaro con i risvolti abbassati». Un particolare, quest’ultimo, rilevato anche da un passante intento a guardare le locandine di un cinema, che si girò in direzione della motocicletta non appena udì i colpi di arma da fuoco.
Ma l’assassino fu visto soprattutto da Bruno Tosoni che però, dal letto d’ospedale dove fu interrogato poiché rimasto ferito, non seppe descriverlo e tentò addirittura di depistare con informazioni «verosimilmente reticenti o comunque prive di attendibilità» come scrisse la Squadra Mobile. Tipo l’inversione delle posizioni tra lui e Toscano. Impossibile. Altrimenti l’Operaietto si sarebbe ritrovato con le spalle alla panetteria e non avrebbe potuto essere colpito né alla nuca e né alla schiena. Senza dimenticare che l’assassino arrivò dalla strada, non dall’interno del locale. Dove le poche persone presenti, una volta sentiti gli spari e il vocio dei passanti, uscirono per rendersi conto di che cosa fosse accaduto. Dunque, perché tanta mistificazione da parte di Tosoni, indagato poi per favoreggiamento? Per paura? Per complicità nell’agguato? O entrambe? Il killer infatti colpì anche lui. Un proiettile nella gamba sinistra, «penetrato direttamente» si legge nella perizia, per una prognosi di trenta giorni che ci consente di smentire un’altra finta verità, riprodotta per decenni da molta pubblicistica sull’argomento: Tosoni raggiunto di rimbalzo dai colpi diretti a Toscano.
Risparmiandolo quando avrebbe potuto finirlo, l’assassino volle mandargli un messaggio. Tipo: «Guai a te se parli!». Un’interpretazione che ben si sposa con la successiva reticenza del panettiere, che però con Vittorio Carnovale, che ben lo conosceva perché aveva sposato la sorella di un suo cognato, fu di tutt’altro avviso. «Quando uscì dall’ospedale, io e Mancone ci recammo da lui, per chiedergli ‘chi’ e ‘come’ avesse fatto la ‘carica’. Il Tosoni ci descrisse la persona che aveva sparato: un uomo robusto, con capelli lunghi, che secondo lui erano una parrucca, e che zoppicava. Secondo quanto ci disse questa persona attraversò la strada, proveniente dalla banca, Edoardo l’aveva di spalle, mentre lui se l’era trovata di fronte, sicché l’aveva notata mentre zoppicando attraversava la strada. Ci disse che dopo che l’uomo aveva sparato era fuggito a bordo di una moto sopraggiunta nel frattempo. A dire del Tosoni, il quale fu molto evasivo, il conducente aveva il casco ed egli non aveva mai visto prima la persona che aveva sparato».
Datato 16 novembre 1993, l’identikit della versione del Coniglio contrasta con quello dei due agenti. Non si parla né di berretto e né di occhiali da vista, la corporatura da esile ora è robusta e l’assassino avrebbe avuto problemi di deambulazione. Non proprio l’ideale per agire a piedi. Ma la deposizione di Carnovale è interessante perché fa luce sulla ragione del rapporto fra Toscano e Tosoni, fino a quel momento celata dal silenzio di quest’ultimo: i soldi. «So per certo che quando Edoardo venne arrestato, lo incaricò di tenergli i soldi, nel senso che Tosoni aveva dei canali per farli fruttare. Edoardo gli diede un centinaio di milioni e Tosoni gli “pagava la mesata”, gli dava cioè il sette per cento al mese. Non so come Tosoni impiegasse il denaro al fine di un guadagno senz’altro superiore a quel sette per cento mensile».
Altri enigmi dai corridoi della Scientifica. Accanto alla moto fu ritrovato il casco del guidatore con ventisei capelli all’interno. Fu stabilito il colore, alcuni castani chiari e altri castano scuri, ma non fu mai estrapolato il DNA, che avrebbe permesso una comparazione con quello di altri uomini della Magliana. Non fu identificato nemmeno il telaio della moto, ovviamente abraso in quanto rubata, e rimasero sulla fiancata alcune impronte digitali. Come mai?
Anche dal controllo del telefono di casa Toscano, predisposto dalle ore successive al delitto per le poco convincenti parole rilasciate dalla moglie, non emerse alcunché di significativo e così le indagini scivolarono verso l’archiviazione. A chiederla, il 21 febbraio 1991, l’allora pubblico ministero Silverio Piro, che nell’autunno precedente aveva comunque iscritto due nomi nel registro degli indagati: Luciano e Marco De Pedis, i fratelli di Enrico. I due avrebbero commissionato il delitto dopo una lite tra uno di loro e Toscano davanti al loro ristorante di Trastevere. A raccontarlo, il 6 agosto 1990, un altro pilone della Banda fresco di arresto, Marcello Colafigli: «Fu proprio Edoardo a parlarmi di questo incontro». Un particolare non da poco che rilancerebbe l’ipotesi della guerra interna alla Magliana come movente, anche se Marcellone sull’omicida dell’Operaietto non fu certo bensì parlò di «convinzione che era una persona o più persone che avevano degli obblighi nei suoi confronti». Entrambi gli indagati però esclusero l’episodio e la conoscenza del loro accusatore le cui parole, compreso il presunto incontro tra Toscano e uno dei fratelli di Renatino, non trovarono riscontro in quelle di personaggi a lui vicini come Carnovale e Mancone. E così il 15 maggio 1991 il delitto Toscano fu definitivamente consegnato alla Storia. In largo anticipo e con troppi misteri.