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Emanuela Orlandi e l’ennesimo testacoda: la pista familiare

Tommaso Nelli

Nella seconda metà dell'agosto 1983, al sostituto procuratore Domenico Sica, titolare del fascicolo Orlandi, giunse una lettera anonima che accusava Mario Meneguzzi di essere il responsabile della sparizione della nipote e, fra le altre cose, anche di aver mosso delle «avances» nei confronti della sorella maggiore di Emanuela, Natalina

Un testacoda figlio di due congetture e zero riscontri: Emanuela Orlandi vittima di suo zio, Mario Meneguzzi. Infuoca l’estate e il caso della cittadina vaticana scomparsa a Roma quarant’anni fa si arroventa di una nuova inverosimiglianza: la pista familiare. A darne notizia, l’edizione serale del Tg La7 di lunedì 10 luglio, che ha riferito come tra il materiale consegnato dall’Ufficio del Promotore di Giustizia Vaticana alla Procura di Roma nel corso dell’indagine congiunta sulla vicenda, ci sia anche una corrispondenza epistolare risalente proprio all’anno del misfatto: il 1983. In essa, l’allora Segretario di Stato della Santa Sede, il cardinale Agostino Casaroli, chiedeva a monsignor José Luis Serna Alzate, già confessore spirituale di casa Orlandi e poi inviato in Colombia, se fosse vera l’indiscrezione appresa da ambienti investigativi che Natalina Orlandi, sorella maggiore di Emanuela, avesse subìto molestie da parte dello zio, Mario Meneguzzi.

La conferma del presule alla voce del porporato è stata sufficiente per innescare la bomba: siccome lo zio aveva infastidito la più grande di casa Orlandi, allora potrebbe essere coinvolto nella sparizione di Emanuela. Una supposizione rafforzata da un altro accostamento arbitrario delle ultime ore: la somiglianza tra Meneguzzi e l’identikit del finto «uomo Avon», l’individuo che fermò la giovane flautista il pomeriggio della scomparsa su corso Rinascimento, di fronte al Senato, per proporle l’immaginifico lavoro di volantinaggio per conto della famosa casa di cosmetici americana in cambio dello spropositato compenso di 375 mila lire.

«LE AVANCES? ERO TERRORIZZATA»

Il verbale di Natalina Orlandi sulle avance dello zio Mario Meneguzzi (30 agosto 1983)

Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma, Natalina Orlandi, 30 agosto 1983

Ma si tratta di un teorema buono giusto a dar vita all’immancabile «giallo» dell’estate. Pallido e scolorito, oltretutto. Perché queste notizie erano già agli atti dell’inchiesta Orlandi e perché grazie alla loro somma, col binomio di logica e buonsenso, è possibile capire come la povera Emanuela non sia stata vittima dello zio. Originario di Castellammare di Stabia, marito di Lucia Orlandi (una delle sorelle di Ercole, padre di Emanuela) e padre di tre figli, Mario Meneguzzi lavorava come responsabile del buffet della Camera dei deputati. Uomo di fiducia di Mario Peruzy (come vi avevamo già raccontato lo scorso autunno), a sua volta consigliere capo-servizio amministrativo dei patrimoni di Montecitorio e Cavaliere di Gran Croce per nomina quirinalizia del 10 ottobre 1986, Meneguzzi godeva di agiate condizioni economiche essendo proprietario di quattro abitazioni – due a Roma, una a Santa Marinella e l’altra a Borgorose di Torano – e tre vetture: Fiat 128, Citroen Visa e Mercedes 200 D.

Il suo coinvolgimento nella sparizione della nipote nacque nella seconda metà di agosto del 1983, quando all’allora sostituto procuratore Domenico Sica, titolare del fascicolo Orlandi, giunse una lettera anonima, scritta a macchina, che accusava Meneguzzi di essere il responsabile della sparizione della nipote e, fra le altre cose, anche di aver mosso delle avances nei confronti della sorella maggiore di Emanuela, Natalina. Convocata a piazzale Clodio il 30 agosto 1983, lei parlò del suo impiego – «Circa 5/6 anni orsono, dopo aver lavorato per una agenzia di viaggi a piazza Cavour, sono stata assunta presso la Camera dei Deputati come stenodattilografa» dopo «regolare concorso» – e confermò le indiscrezioni della missiva: «Meneguzzi, prima con vari accenni che io fingevo di non capire e successivamente in modo esplicito, mi disse che si era innamorato di me».

Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma, Natalina Orlandi, 30 agosto 1983 (pag.2)

Al che Sica, sempre attento ai particolari, volle saperne di più. Natalina Orlandi rispose che furono «avances a livello di un giovanissimo che si innamora di una ragazza. Ricordo che mi regalò un foulard per Natale. Mi diceva che, se fossi stata sua, avrebbe cambiato notevolmente la sua vita». Non ben quantificato come tempistica, l’interesse non fu ricambiato e si esaurì. «A proposito delle attenzioni […] ricordo che esse durarono alquanto e che risposi sempre negativamente. Dopo di che la cosa terminò e non è accaduto più niente». Natalina Orlandi si confidò col fidanzato Andrea Ferraris «dopo circa 10/12 mesi» e poi, come dichiarato nella conferenza presso l’Associazione della Stampa Estera lo scorso 11 luglio, col confessore spirituale. La sua preoccupazione maggiore all’epoca era che Meneguzzi fosse sposato con «zia Lucia […]. Ricordo che ero terrorizzata di questo fatto. Tra l’altro, ero molto imbarazzata perché il Meneguzzi frequentava casa mia».

IL 22 GIUGNO 1983 MENEGUZZI NON ERA A ROMA

Alle calcagna dell’uomo era stata messa anche un’auto, che però si rivelò più allocca che civetta. Perché lui ebbe il sentore di essere seguito e ne annotò il numero di targa, chiedendo un riscontro a Giulio Gangi, l’agente segreto del SISDe amico di sua figlia Monica. Ma questo, invece di negare da buon 007, confermò i sospetti. E così saltò il pedinamento. Sica però non demorse. Il 2 settembre 1983 predispose anche il controllo del telefono dell’abitazione di Borgorose, ma senza raccogliere indizi utili contro Meneguzzi. E non possono certo essere considerate prova di sue responsabilità nella scomparsa di Emanuela nemmeno le attenzioni nei confronti di Natalina Orlandi, comunque deprecabili e censurabili perché maturate in un contesto parentale e verso una persona che avrebbe potuto essere sua figlia (ventiquattro anni fra i due).

Tra l’altro, la stessa Natalina era stata vittima in precedenza delle sgradite avances del suo capoufficio, Mario Peruzy. Lo raccontò sempre lei a Sica: «Sin dall’inizio venni corteggiata dal mio capoufficio Mario Peruzy con molta insistenza. Egli mi convocava spesso in ufficio e mi faceva intendere di “poter molte cose” e mi chiedeva insistentemente un appuntamento». Per uscire da questo disagio, la donna chiese e ottenne l’aiuto proprio di Meneguzzi. Col senno di poi, a dir poco paradossale. Ma tanto fu: «Confidai il fatto a mio zio che mi aiutò a risolvere il problema che avevo con il Peruzy, comportandomi cioè con molta energia, anche se sempre con educazione».

Il verbale di Mario Meneguzzi, zio di Emanuela Orlandi

Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma, Mario Meneguzzi, 31 ottobre 1985

Queste squallide storie accaddero nel 1978. Cioè, cinque anni prima della sparizione di Emanuela, avvenuta il 22 giugno 1983. Giorno in cui Mario Meneguzzi non era a Roma, bensì a Borgorose di Torano, nel reatino. Dove era arrivato il giorno prima e dove apprese la drammatica notizia della nipote da Ercole Orlandi, come raccontò il 31 ottobre 1985 al giudice istruttore Ilario Martella, che aveva ereditato l’inchiesta da Sica. «Ne sono venuto a conoscenza a mezzanotte (all’incirca) del 22.6.1983; ad informarmi è stato mio cognato Ercole Orlandi, telefonandomi nella casa di campagna dove io al momento mi trovavo, loc. Torano di Borgorose, a circa 110 km da Roma; io ero qui giunto la mattina dello stesso giorno insieme con mia moglie, mia figlia Monica e mia cognata Anna Orlandi (sorella di mia moglie); […] anzi, ora che ricordo meglio, la partenza da Roma era avvenuta il pomeriggio del giorno precedente, e cioè del 21.6.1983».

La circostanza della telefonata fu confermata, sempre al giudice Martella, dallo stesso Ercole Orlandi il 1°dicembre 1987: «Ricordo molto bene che la sera del 22.6.1983, una volta resomi conto che poteva essere accaduto qualcosa a mia figlia Emanuela (in quanto non aveva fatto ritorno a casa nell’ora abituale, e cioè entro le ore 20.30), io stesso mi adoperai per richiedere l’intervento di mio cognato Meneguzzi Mario che, al momento, trovavasi a Torano dove dispone di una casa di campagna. Mi rivolsi a lui sia perché che egli aveva molte conoscenze e in particolare perché né io e né mia moglie sapevamo dove battere la testa».

LE TANTE «STOCCATE» CONTRO LA PISTA FAMILIARE

Verbale di Ercole Orlandi, 1 dicembre 1987

Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma, Ercole Orlandi, 1 dicembre 1987

Queste parole sono molto importanti. Perché smentiscono le affermazioni circolate in questi giorni su alcune testate, secondo le quali Meneguzzi avrebbe detto al giudice che quel giorno Ercole Orlandi era con lui a Torano, quando invece si trovava a Fiumicino da suo fratello Eugenio.

Rientrato subito a Roma, Meneguzzi divenne l’interlocutore dei presunti rapitori di Emanuela. Rispose alle telefonate di quelle prime, torride, settimane (Pierluigi, Mario, l’Amerikano, etc.) e lesse in tv alcuni messaggi in favore del ritorno a casa della giovane. Si defilò non appena entrò in scena l’avvocato Gennaro Egidio, che dalla seconda metà di luglio del 1983 tutelò gli interessi della famiglia Orlandi. La sua nomina è ancora oggetto di controversie. Ercole Orlandi disse che fu indicato dal SISDe per voce di un suo funzionario del tempo, Gianfranco Gramendola. Ma questi nel luglio 1993, audito dalla giudice Adele Rando, smentì: «Escludo decisamente tale circostanza in quanto ho conosciuto solo successivamente il legale in epoca che non sono in grado di ricordare con precisione». Da segnalare inoltre che dal 7 luglio 1983 fu messo sotto controllo anche il telefono di una delle abitazioni di Roma (l’altra ne era sprovvista) di Meneguzzi. Anche qui però non uscì fuori mai nulla contro di lui.

Come d’altronde non esistono suoi legami con l’identikit del finto «uomo Avon» di corso Rinascimento, realizzato con le deposizioni di due testimoni, il vigile Alfredo Sambuco e il poliziotto Bruno Bosco, non nell’immediatezza della scomparsa, ma dopo ventotto mesi: il 22 ottobre 1985! La sua descrizione differisce da quella di Meneguzzi a partire dall’età. Perché Sambuco verbalizzò che aveva «40 anni circa» mentre lo zio di Emanuela nel 1983 aveva traguardato i cinquanta. E in una persona dieci anni di differenza sono visibili. Altra mancata corrispondenza tra i due è l’auto: l’individuo che fermò Emanuela era al volante di una Bmw Touring, un modello non nella disponibilità di Meneguzzi, come abbiamo visto.

Certo, qualcuno potrebbe malignare che se la fosse fatta prestare. Sennonché, dopo i riscontri, arriva la logica a smentire le insinuazioni. Perché nella denuncia di scomparsa presentata da Natalina Orlandi si legge che Emanuela, quando chiamò casa per chiedere un parere sull’offerta di lavoro di quell’imbonitore, specificò che era stata fermata da «un uomo non meglio descritto». Se questo fosse stato Meneguzzi, non sarebbe rimasta sul generico, ma avrebbe tranquillamente detto che si trattava dello zio. Una considerazione che rappresenta l’ultima stoccata contro la pista familiare.

UN PERICOLO: «SVALUTARE» IL CASO AGLI OCCHI DELL’OPINIONE PUBBLICA

Come non fu rapita, tanto più per un ricatto politico o economico al Vaticano, Emanuela Orlandi non è nemmeno rimasta vittima dello zio. Morto oltretutto da circa vent’anni. Tra l’altro, c’è da chiedersi: se fosse questa la verità, perché aspettare così tanto tempo per tirarla fuori? Perché, frattanto, legittimare una pista sconclusionata come la Banda della Magliana? Ancora: dove sarebbe avvenuto il misfatto? Dove sarebbe stato occultato il corpo della ragazza? E soprattutto: se la soluzione fosse così semplice, perché piazza S. Pietro per quarant’anni avrebbe evitato di collaborare attivamente con i nostri inquirenti, raccontando anche bugie?

Nel novembre 1986, quando ricevette la prima rogatoria da parte di un instancabile giudice Martella che chiedeva l’invio di tutta la documentazione in suo possesso, Oltretevere rispose che era stata già trasmessa all’attenzione del dottor Sica. Ma non era vero e lo dimostra proprio la corrispondenza tra Casaroli e monsignor Serna Alzate, assente dagli atti dell’inchiesta e presentata come uno dei nuovi elementi dell’indagine vaticana iniziata lo scorso gennaio.

Ignoriamo gli altri, ma se dovessero essere dello stesso tenore sfumerebbe l’ottimismo per arrivare alla verità su Emanuela Orlandi. Perché una pista sia attendibile, occorrono i riscontri. E come abbiamo visto, quelli esistenti non provano responsabilità di Meneguzzi nella vicenda. Anzi, semmai dimostrano la sua estraneità. Chi vi scrive, li conosceva dal 2017. A cominciare dalla storia delle avances a Natalina Orlandi. Ma non ha mai messo giù mezza riga o detto una parola. Perché non offrono elementi utili per sapere che ne fu di Emanuela, per cui portarli all’attenzione del pubblico avrebbe significato fare allusioni e non fare informazione.

La soluzione su questo caso rimane sì da ricercare negli ambienti di provenienza della vittima, ma illuminando le zone d’ombra lasciate dalle indagini precedenti. A costo di scoprire, se necessario, anche l’inimmaginabile o l’indicibile. Altrimenti congetture come quelle sullo zio Mario saranno un ciclico ritorno finché tutti i protagonisti non saranno scomparsi e questa storia sarà così svalutata agli occhi dell’opinione pubblica da non interessare più nessuno.