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di Tommaso Minotti
Paolo Patrizi è uno dei testimoni più importanti dell’epopea giornalistica dell’Osservatore Politico e del suo direttore Mino Pecorelli. Elemento di primo piano della redazione fin dal suo ingresso in OP nel 1974, Patrizi accompagnò Pecorelli fino all’ultimo. Fu infatti lui, insieme alla segretaria Franca Mangiavacca, a cercare di soccorrere il giornalista molisano mortalmente ferito nella tragica serata del 20 marzo 1979. Patrizi, con il tempo, si legò anche a livello personale con il direttore di OP che ospitò il suo giovane collaboratore in casa sua. Un rapporto, dunque, che andava ben oltre la dimensione meramente professionale.
Parlare con Patrizi, di conseguenza, permette di immergersi in un ambiente particolare, crocevia di interessi e poteri nel pieno della Prima repubblica. Lavorare a OP significava, lo dice Patrizi stesso, trattare notizie importantissime in un contesto artigianale con costi difficili da coprire e una costante fretta per chiudere i numeri. Questa dissonanza tra informazioni di alto livello e mezzi limitati aumenta ancor di più se si pensa alla quantità e alla qualità delle fonti su cui si poteva basare il lavoro in OP. Nella lettura di questa intervista, ci si imbatterà nei nomi di Carlo Alberto Dalla Chiesa, Antonio Varisco, Antonio Bisaglia, Egidio Carenini, Vito Miceli e molti altri. Si tratta dei vertici politici e militari dello Stato italiano durante gli anni Settanta. Uomini con cui Pecorelli, come nel caso di Varisco, si rapportava quasi ogni giorno.
Paolo Patrizi (fotogramma ripreso dall’intervista concessa a Edgardo Fiorini sugli «intrecci» tra i casi Moro e Pecorelli)
Com’è entrato in contatto con Pecorelli?
«Io nel 1974 ero a Milano. Dopo la fine del mio primo matrimonio, vengo a Roma e devo trovarmi un lavoro. Un mio amico, Giuseppe Vita, era un piccolo editore locale di stampa minore, riviste di numismatica. Lui conosce Pecorelli e mi procura un colloquio. Pecorelli cercava un corsivista del Manifesto. Io non arrivavo dal Manifesto. All’epoca andava di moda Luigi Pintor, che faceva paura alla DC con i suoi corsivi al veleno. A Pecorelli interessava qualcosa che mettesse spavento ai democristiani. Vado quindi per necessità, riottosamente e con grande imbarazzo. Nel giro di poco tempo, ho capito che aveva in mano una macchinetta che smuoveva un enorme potere. È una sensazione importante, che fa piacere specie quando sei giovane e arrivi da delusioni. Mi sono fatto talmente coinvolgere da questa macchinetta che poi sono andato in burnout. Ho confuso la vita privata con quella professionale. Ma queste sono cose successive. A Pecorelli andava bene ciò che facevo. Lo stile goliardico, pezzentesco, è stato conservato fino alla fine di questa operazione. Ci arrivavano davanti notizie importantissime, ma non stavano dentro una redazione che si poteva permettere editing spaventosi. Stavamo in quattro stanze, con quattro sciagurati. Nel tempo sono diventato abbastanza esperto. Mi sono raccapricciato quando sono iniziate le indagini dei nostri investigatori, che avevano il compito di non trovare nulla. Compito perfettamente eseguito. Alcuni di loro, Domenico Sica, hanno avuto anche delle promozioni».
Com’era lavorare con Pecorelli e in quella redazione?
«Era una cosa molto creativa. Nel senso che le notizie le portava all’80 per cento lui, ma erano “pizzini”. Poi bisognava contestualizzare la dritta. Il pizzino diventava un pezzo, un’indiscrezione o addirittura un editoriale. Il settore nel quale Pecorelli era particolarmente informato era il settore dei servizi segreti e quindi anche le vicende della corruzione di Stato, delle truffe alle banche, dell’indebitamento delle imprese. Quando si vedeva che facevano affari miliardari solo aziende afferenti a un determinato ambiente, ci si faceva delle domande».
Che idea si era fatto delle fonti di Pecorelli?
«Fonti evidenti erano i vertici dei servizi segreti, nella persona di Miceli, Maletti, Varisco. Posso citare anche degli altri, alcuni magistrati: Infelisi, Labozzetta, da cui è partito tutto lo scandalo dei petroli. Fonti autorevoli».
Com’è stato possibile che avesse tutte queste fonti in tutti questi ambienti diversi?
«Pecorelli era a-ideologico. È stato un periodo nella segreteria, come capo ufficio stampa, di Fiorentino Sullo. Era un democristiano atipico perché fu il primo a chiedere l’abbassamento delle superfici fabbricabili, dando un grosso danno ai costruttori. Una categoria fortemente presente dentro la Democrazia Cristiana».
Le fonti arrivano dall’ambiente di Sullo?
«Sullo è una traccia. Pecorelli conobbe personalmente Aldo Moro. Nella Democrazia Cristiana gli amici di Moro non erano i morotei, ma quelli che stavano fuori e ne difendevano la persona. Nei partiti, il maggior nemico è quello che sta vicino: “Dagli amici mi guardi Dio”».
Aldo Moro e Mino Pecorelli, a Bari, in occasione di un incontro sui «giornali scolastici» promosso dall’agenzia di stampa OP
Il caso Moro fu uno dei grandi temi di OP.
«Quelli che raccoglievano le notizie erano il povero Varisco, un amico personale di Pecorelli con cui si incontrava tutti i giorni, o quasi, a piazza delle Cinque Lune. Varisco, non a caso, viene ammazzato qualche mese dopo Pecorelli in un delitto, attribuito alle Brigate Rosse, che presenta modalità simili a quelle che si videro durante l’agguato al giudice Alessandrini. Pecorelli e Moro si erano conosciuti per vie istituzionali. Pecorelli partecipò alle premiazioni di alcuni giovani di Bari in una manifestazione elettorale di Moro. Premiavano dei ragazzi che volevano entrare nel giornalismo. Il caso Moro veniva trattato puntualmente. Eravamo tra i pochissimi che stavano sul fronte della trattativa. Avevamo notizie di prima mano che alcuni organi inquirenti fornivano a Pecorelli o per il suo tramite, a noi. Le famose lettere di Moro, le più importanti secondo Sciascia, portavano il timbro della DIGOS. Ma queste non sono rivelazioni, queste cose si sanno perfettamente».
Tornando ai legami di OP e Pecorelli, quali erano i rapporti con la politica e i servizi segreti?
«Tutto ciò che è stato scritto su OP, è stato scritto in redazione. I nostri servizi sono analfabeti. Hanno poca fantasia, ricorrono sempre alle stesse frasi. Labruna è venuto a farsi intervistare in redazione, ma ciò è normale. Non c’è nulla di strano in tutto ciò. Con i politici c’era un rapporto para-istituzionale, nel senso che quasi tutti i martedì del mese, almeno quattro volte al mese, si andava a cena all’Elefante Bianco. L’Elefante Bianco era in via Aurora, una traversa di via Veneto. Un posto in cui si mangiava malissimo, estremamente costoso, nel quale teneva banco Egidio Carenini. Era stato sottosegretario della Democrazia Cristiana e boss dei calabresi di Milano, sua base elettorale. Era proprietario di Norditalia, una compagnia d’assicurazione. Pecorelli frequentava ambienti della Democrazia Cristiana: Carenini, Piccoli, Bisaglia. Tutte cose non determinanti, erano attività di copertura. Le notizie non erano le formazioni dei governi».
Sulla famosa lettera di Bisaglia?
«Quella è stata un’operazione tutta imbastita dagli organi inquirenti. La redazione di OP è stata perquisita per un mese dalla polizia giudiziaria, guidata dal sostituto procuratore Domenico Sica. Non tutto ci venne restituito. Quando ci hanno ridato le chiavi e siamo potuti rientrare in redazione, in mezzo alla stanza di Pecorelli c’era una lettera, quella a Bisaglia, trovata da Renato Corsini, un mio collega. Scritta per persuadere Bisaglia a fare delle concessioni».
Può dirci di più sul tema delle perquisizioni in redazione?
«Le perquisizioni durarono venti, trenta giorni. Un periodo molto lungo di tempo».
Quanto materiale fu portato via?
«Tutto quello che era possibile portare via. Carte, fascicoli e appunti furono portati via. L’impressione è che questi signori (gli investigatori, ndr) non abbiano minimamente studiato il caso, ma abbiamo semplicemente secretato il materiale».
Quindi il materiale di Pecorelli è andato perso per la maggior parte. Si può dire così?
«Ci sono i reperti archeologici. Ogni tanto esce fuori un pizzino, quando serve».
Cambiamo il tenore delle domande. OP aveva un determinato stile giornalistico?
«Non ci siamo mai posti questo problema. Lo stile giornalistico era determinato dalla fretta. Nel senso che per scrivere un buon pezzo occorre un certo numero di ore, che noi non avevamo. La forma era in secondo piano, l’importante era salvaguardare la comprensione del contenuto».
Che idea si è fatto dei processi avvenuti dopo l’omicidio Pecorelli?
«Devo rispondere? Per fortuna, la Corte dei conti non ha competenza su questa materia. Chi non è in malafede, direbbe subito: “non luogo a procedere”. Ci sono nate decine di carriere, altre ne nasceranno. Ogni tanto c’è un’ondata. Al momento era un pensiero negativo; appena morto Pecorelli sembrava che bisognasse ringraziare gli assassini che finalmente lo avevano tolto di mezzo. Adesso c’è un’altra ondata, è cambiato qualche vento. Pecorelli non era un delinquente ieri e non è un santo oggi. Era una persona che, nei suoi limiti, cercava di svolgere la sua professione con onestà. Non credo finisca qui. In Italia non sappiamo ancora cos’è successo a Portella della Ginestre. I tempi sono biblici».
Non le chiedo che aspettative ha sul nuovo processo perché mi sembra superfluo.
«Io, personalmente, non ci credo. Non ho alcuna speranza. Non avevo fiducia ieri e non ho fiducia oggi. Non vedo che cosa sia successo nel frattempo per dovermi conferire fiducia. C’è una strumentalizzazione. Se a un politico per raggiungere un obiettivo farà comodo affermare una verità, quella verità si affermerà. Viceversa, se ne affermerà un’altra se farà comodo a un altro politico. Mi ero creato delle illusioni. Se a questa età avessi ancora illusioni sarei un imbecille. Non escludo di esserlo naturalmente».
Franca Mangiavacca, la segretaria di Pecorelli, è sempre rimasta un po’ defilata in questi discorsi. Perché?
«È nato un contrasto, anche per motivi economici, tra Rosita Pecorelli e Franca Mangiavacca. Noi abbiamo dovuto barcamenarci. Io dovevo pagare gli stipendi a quei quattro disgraziati della redazione. Non potevo non mantenere un rapporto con la Mangiavacca. Ho deciso di non schierarmi. Non ho avanzato alcuna rivendicazione. Uno dei vari depistaggi ai quali la nostra solerte magistratura e macchina inquirente ci ha sottoposto è stata anche quella del dramma sentimentale. La prima cosa che hanno pensato è stato il dramma di gelosia, cosa da escludere a priori. La tecnica della Procura di Roma consiste nell’ingigantire un’imputazione per acquisire il fascicolo e farlo restare nel deposito».
Sulle inchieste di OP, quale fu la più scottante o pericolosa?
«Questa domanda me l’hanno fatta tantissime volte. Tutte quante le inchieste erano scottanti perché tutte quante riguardavano elementi emergenti nell’equilibrio dello Stato profondo. A quelle si devono aggiungere le inchieste sul terrorismo nero. Prima (dell’intervista, ndr) le facevo accenno a Vinciguerra, a queste cose qui. È accaduto qualcosa che non so spiegarmi, però qualcosa è accaduto. E questo è un ferro caldo perché so che si stanno muovendo in questa direzione. Però noi pensavamo di essere abbastanza immunizzati da queste cose. Avevamo una spia della Guardia di Finanza che lavorava con noi. Gli facemmo sbobinare una parte del Mi.Fo.Biali, nel quale veniva indicato come uno degli informatori di cui si serviva la GdF. Lo facemmo per metterlo in imbarazzo e per fargli capire che conoscevano dove “giocava”».
Da chi era composta la redazione di OP?
«C’era un’amica del colonnello Varisco che poi andò a lavorare nella RAI. C’era un Marcelli, che poi lavorava per la Guardia di Finanza, c’era Marcello Solito, sostanzialmente monarchico. C’ero io, c’era Renato Corsini. Altri venivano a battere a macchina a volte».
Quindi c’era un ufficiale della GdF in redazione?
«Un informatore, Marcelli. Veniva da Paese Sera. Il suo nome figura nel Mi.Fo.Biali».
Tra l’altro, il Mi.Fo.Biali fu un’altra inchiesta significativa
«“Forniture. Militari. Libia”. Oppure, secondo un’altra decrittazione: “Miceli. Foligni. Libia”. Foligni era Mario Foligni, un tizio che si era inventato un partito personale per fare affari elettorali, intrighi e aggiustare maggiorane e minoranze. Persona che sarà successivamente interessata alla Lega Meridionale».
Adesso una domanda più particolare. Lei arriva dalla sinistra extraparlamentare, giusto?
«Io sono stato compagno di scuola e amico personale di Oreste Scalzone, quindi venivo da Potere Operaio. Sono uscito da PotOp dopo il convegno nel quale fu teorizzato il rifiuto del lavoro. Mi sembrava una cosa un po’ troppo avveniristica».
Questa differente cultura politica rispetto a Pecorelli ebbe qualche conseguenza?
«A Pecorelli non interessava niente dell’ideologia politica. Pecorelli era un uomo d’azione, un giornalista d’azione. Io sono stato sinceramente amico di Pecorelli. Credo che lui sia stato effettivamente monarchico. A 15 anni scappa con gli sbandati di Anders. Da lì nascono questi contatti con gli ufficiali. Nell’esercito italiano, che si ricostituisce nel 1946 come esercito repubblicano, chi sono gli alti ufficiali? Sono quelli che avevano fatto la lotta di Liberazione. Erano i compagni d’arme. I più giovani, che all’epoca erano sottotenenti e capitani, erano i ragazzini universitari che avevano risalito l’Italia con gli Alleati».
Torniamo brevemente alla questione delle fonti. Alcune di esse potrebbero arrivare dall’ambiente dell’avvocatura fallimentare? Visto che comunque Pecorelli esercitò questa professione per diversi anni.
«Al tribunale civile di Roma ci sono stanzette polverose con accatastate decine di fogli. Gli avvocati possono prendere questi fascicoli e imboscarseli».
Passiamo, invece, ai legami con alcuni personaggi di primo piano di quell’epoca. Quale fu il rapporto tra Pecorelli e Dalla Chiesa?
«Su Dalla Chiesa so ciò che sapete voi. Cioè, che sono partiti per Cuneo, nel carcere dove si sono incontrati con il maresciallo Incandela. Io non ne sapevo niente. Però abbiamo sempre parlato molto bene di Dalla Chiesa, era conosciuto con il nome di “Amen” perché era quello che aveva l’ultima parola».
È possibile che fosse Dalla Chiesa colui che filtrava le notizie sul caso Moro?
«Non era una sola persona, non era una sola fonte. Sono più fonti e più persone. Di questo ne ho la certezza. Che una di queste fonti possa essere stato Dalla Chiesa è molto probabile, ma non era l’unica fonte. Non è mai stato pubblicato niente che provenisse da un’unica fonte».
Quindi si faceva un lavoro di raccordo?
«No, si faceva un lavoro di dialettica e di dinamica. Si mettevano in concorrenza due ambienti. Il riscontro si vede nella vicenda Sindona».
Perché?
«Ci sono degli argomenti colpevolisti e argomenti innocentisti, non in eguale proporzione».
Invece, sul rapporto con Andreotti?
«Il rapporto con Andreotti non c’è mai stato. C’era con gli andreottiani. Pecorelli era molto amico di quello che veniva considerato il braccio destro di Andreotti, Franco Evangelisti. Il quale, in articulo mortis, testimonia contro Andreotti».
E la famosa lettera sul mal di testa?
«Quello è un pizzino. Qualunque esperto di mafia le potrà raccontare che, quando c’è il funerale di un uomo ucciso dalla mafia, la prima corona è sempre di quello che ha commissionato il delitto. Quel biglietto non ci fu sequestrato durante la perquisizione. Non è stato ritenuto materiale degno di osservazione».
Il rapporto con Gelli? Ogni tanto su OP si leggono attacchi, in altre occasioni si usano toni più concilianti.
«La componente dominante sono stati gli attacchi. È stato avvicinato per vedere che cosa si facesse dentro quel circolo di potere così importante, nel quale si trovava tanta gente con cui Pecorelli intratteneva rapporti. E quindi è andato a vedere, per approfondire. Poi i giudizi sono stati tutti quanti negativi. Anche perché Pecorelli ha subito un solo incidente giudiziario, relativo alla moglie del ministro Luigi Mariotti che fu trovata mentre andava in Svizzera con 60 milioni in tasca. All’epoca era un reato penale l’esportazione di capitale. Questa notizia gli era stata data dalla stessa fonte che aveva dato una notizia analoga, poi risultata vera. Viceversa, Mariotti, membro della P2, denunciò Pecorelli che ebbe delle noie. Gli sequestrarono il passaporto e venne istituito il processo*. Gelli disse che avrebbe trovato una soluzione extragiudiziale. Mai trovata».
Occorre ora evidenziare alcuni elementi di questa intervista. In primis, uno dei dati più interessanti è il discorso sulle fonti. Queste ultime, probabilmente, avevano la propria origine negli ambienti che erano stati frequentati da Pecorelli nel corso della sua vita: il diritto fallimentare, la segreteria di Sullo e il periodo da volontario nelle armate di Anders. Il metodo giornalistico del direttore di OP prevedeva l’esplorazione di più tracce, mettendo in competizione ambienti diversi, spesso in conflitto tra loro. Tale modus operandi comporta rischi e vantaggi. Se da una parte, infatti, le informazioni ottenute da centri di potere rivali consentono una lettura totale del fatto in questione, dall’altra il gioco è pericoloso, soprattutto perché il confine tra coloro che strumentalizzano e strumentalizzati era molto labile
Un altro particolare da sottolineare è la presenza di infiltrati nella redazione di OP. Il fatto che ci fosse un membro della Guardia di Finanza desta enorme interesse. Pecorelli e i suoi giornalisti ne erano perfettamente consapevoli. Ciò aiuta anche a comprendere come l’Osservatore Politico fosse al centro di grande attenzione da parte delle istituzioni politiche e militari del tempo. D’altronde, anche Patrizi lo afferma: la creatura giornalistica di Pecorelli era «una macchinetta che smuoveva enorme potere». Tale potere veniva visto con grande attenzione e, per questa ragione, messo sotto controllo.
Sul caso Moro le parole di Patrizi sono illuminanti. L’ex collaboratore di Pecorelli presuppone con buona sicurezza che Dalla Chiesa fosse effettivamente una delle fonti di OP. Anche Varisco, il cui assassinio viene collegato da Patrizi a quello del giornalista molisano, era una delle fonti privilegiate, forse anche sul rapimento e omicidio di Moro. Ma Patrizi rivendica anche la posizione favorevole alla trattativa e la vicinanza personale tra il presidente della Democrazia Cristiana e Pecorelli.
In conclusione, questi tre elementi sono solo alcuni spunti che emergono da un’intervista che vale la pena rileggere in più occasioni, focalizzandosi di volta in volta su particolari differenti. Il periodo storico che Patrizi ha vissuto in prima persona è estremamente complesso e lo è ancor di più se si pensa alla storia di OP e di Pecorelli. Per questa ragione, leggere le parole di chi è stato un testimone di quegli anni rappresenta quasi una necessità.
* Nota: effettivamente la notizia della condanna di Pecorelli comparve su alcuni organi di stampa. Per esempio l’edizione romana del Corriere della Sera (9 luglio 1977).