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«Operazione Alex». Così muore un magistrato. L’agguato contro Emilio Alessandrini

Redazione Spazio70

Alessandrini aveva interrogato recentemente l’ex presidente del Consiglio Rumor e il deputato missino Vito Miceli, ex capo del Sid. Nel 1972 aveva subito un attentato per mano delle Squadre d’azione Mussolini. Infine dal covo di via Negroli nel quale si nascondeva Corrado Alunni era emersa una foto. La sua.

Porta Romana, 29 gennaio 1979, ore 8.30 di un lunedì freddo e piovoso. Dentro una Renault 5, dietro i finestrini infranti, il corpo di un uomo crivellato di colpi. Il capo leggermente piegato sulla destra, il loden insanguinato, le mani sulla pancia. Gli hanno appena sparato nel traffico di una caotica mattinata milanese. Pochi minuti dopo, l’annuncio recapitato alla redazione di un giornale: «Qui Prima Linea, abbiamo giustiziato noi il giudice Emilio Alessandrini». Così si è voluto porre termine alla vita di un magistrato nel cui ufficio sono passate inchieste delicatissime. Dopo Coco, Occorsio, Palma, Tartaglione e Calvosa questo giovane giudice di trentasette anni è il sesto ucciso dal terrorismo politico dal 1976.

Quando i piellini iniziano la propria «inchiesta» su di lui, Alessandrini coltiva l’abitudine di muoversi ogni mattina come un cittadino qualsiasi, senza protezione. Non la vuole neppure la scorta, citando spesso gli esempi di via Fani e del collega Coco assassinato dalle Brigate Rosse a Genova assieme ai propri agenti. Dopo aver salutato ogni mattina la moglie, gli piace accompagnare a scuola il figlio Marco di appena otto anni. Uscire dal suo appartamento di viale Montenero, salire su una delle sue auto – una R5 e una Mini – raggiungere le scuole di via Pietro Colletta e infine salutare il suo bambino prima di avviarsi verso il proprio ufficio in procura.

UN ATTENTATO CON ALCUNI ELEMENTI DI CRITICITÀ

Il presente passo è tratto dal nostro «Borghesia violenta» (Gog edizioni, 2021)

Un attentato, quello contro il magistrato, che proprio per questa regolarità di spostamenti e comportamenti presenta, come constatato dagli stessi terroristi, alcuni elementi di criticità. Alessandrini, infatti, non può essere attaccato né all’uscita di casa al mattino – vista la presenza del figlio e di qualcuno che ogni volta si affaccia alla finestra dello stabile – né tantomeno sul luogo di lavoro, avendo il Palazzo di giustizia un efficiente servizio di sicurezza. Anche i pressi dell’edificio scolastico dove Marco segue le lezioni vengono scartati per la presenza di bambini e di almeno due vigili. Quando stanno ormai per decidere di abbandonare l’obiettivo, i piellini, che spesso seguono il magistrato con un motorino, si avvedono che Alessandrini, durante il percorso dalla scuola del figlio al Palazzo di giustizia, giunge con l’auto all’incrocio di viale Umbria con le vie Tertulliano e Ludovico Muratori. Da lì, dovendo compiere una manovra di svolta a sinistra, è sempre obbligato a fermarsi davanti al semaforo rosso. Si stabilisce dunque che quello sarà il luogo dell’omicidio, considerando anche le numerose vie di fuga presenti nella zona.

Il nucleo di Prima Linea incaricato dell’azione è composto da Sergio Segio, Marco Donat-Cattin, Michele Viscardi, Umberto Mazzola e Bruno Palombi Russo. I primi due hanno compiti operativi, gli altri restano di copertura. L’operazione viene decisa inizialmente per venerdì 26 gennaio 1979, ma quel giorno c’è uno sciopero nelle scuole a causa del quale il giudice non esce di casa all’ora stabilita per accompagnare il figlio. Tutto viene quindi rinviato al lunedì successivo. Domenica 28, però, viene fatta una riunione preliminare. Unico assente è proprio Donat-Cattin: ha l’influenza e c’è la concreta possibilità che, il giorno dopo, l’attentato venga compiuto senza di lui.

DETERMINAZIONE E FREDDEZZA PER UN’AZIONE PORTATA A TERMINE IN MENO DI 40 SECONDI

Si rimetterà in tempo. A sera, in un bar di via Mascagni, Segio distribuisce le armi. Ha provveduto a caricare le due rivoltelle, con le quali verrà ammazzato il giudice, con due differenti tipi di cartucce dal micidiale potenziale offensivo. Non deve avere scampo, Alessandrini. Quando il giorno dopo, a volto scoperto, muniti di giubbetti antiproiettile,189 i terroristi sono ormai nei pressi della Renault 5 del magistrato, impugnano le pistole ed esplodono i colpi a disposizione. Usano determinazione e freddezza.

Tutti sentono tutto. Sergio Segio, che si è annerito i baffi, spara per primo poi Marco Donat-Cattin. Alessandrini viene attinto da otto proiettili, due sono al capo e sei al resto del corpo. Nel frattempo Viscardi, servendosi di un mitra Sten, e Mazzola tengono a bada il traffico. Prima della fuga è proprio Viscardi a lanciare un candelotto fumogeno; anche Mazzola dovrebbe fare lo stesso, ma, avendo le mani inguantate, non è capace di tirare via la linguetta necessaria a completare l’operazione. Calcolata perfettamente sui tempi del semaforo, l’azione omicidiaria è comunque portata a termine in meno di quaranta secondi.

L’auto di Alessandrini viene subito circondata. Chi ha assistito alla scena, ma anche chi arriva dopo e vede dove è stato colpito il giudice, capisce che non c’è più niente da fare. Qualcuno piange. Dopo pochi minuti giungono sul posto a sirene spiegate le vetture di polizia e carabinieri. Arrivano anche le grosse berline di alcuni alti magistrati. Infine arriva la moglie del giudice, la signora Paola Bellone, che lascia un’occhiata di dolore sul marito e poi torna subito a casa. Il corpo di Emilio Alessandrini viene pietosamente avvolto in una coperta grigia e poi scompare in un furgone dell’obitorio. In un attimo, nel Palazzo di giustizia, la notizia gira di bocca in bocca seminando rabbia, sgomento, dolore e un senso di impotenza. Tutti conoscono e ricordano il viso pulito di quel giovane magistrato che dal 1969 aveva svolto alcune delle più delicate indagini degli anni Settanta italiani. Piazza Fontana, i gruppi di estrema destra, il caso Walter Alasia, l’omicidio Ramelli. E poi i reati finanziari come l’inchiesta appena avviata sul finanziere Roberto Calvi e gli altri personaggi accusati di avere esportato capitali all’estero.

IL RINNOVATO «EFFICIENTISMO» DELLA PROCURA DELLA REPUBBLICA DI MILANO

Alessandrini aveva interrogato recentemente l’ex presidente del Consiglio Rumor e il deputato missino Vito Miceli, ex capo del Sid. Nel febbraio 1972 aveva subito un attentato per mano delle Sam, le Squadre d’azione Mussolini, poi una serie di lettere minatorie. Infine, dal covo di via Negroli nel quale si nascondeva il leader delle Formazioni Comuniste Combattenti, Corrado Alunni, era emersa una foto. La sua.

Il volantino diffuso a nome di Prima Linea viene preparato in prima battuta da Sergio Segio: è solo una bozza, ma poi la macchina da scrivere si rompe e quindi la definitiva realizzazione del documento passa a Marco Donat-Cattin. Nelle tre pagine di rivendicazione si legge che il giudice ha contribuito a rendere efficiente la procura della Repubblica di Milano e che, con l’indagine sulla strage di piazza Fontana, ha tentato di dare credibilità democratica allo Stato. «I mezzi di informazione e la controguerriglia psicologica nel suo complesso», si legge, «tenteranno di farne un eroe dell’antifascismo. L’adesione ideologica al compromesso storico hanno portato questo magistrato a occuparsi subito dopo il 1972 delle organizzazioni comuniste rivoluzionarie e dei risvolti penali delle lotte operaie, a inquisire, incriminare, condannare decine di comunisti».

L’attacco alla magistratura rientra quindi a pieno titolo tra gli obiettivi strategici, o forse ormai soltanto tattici, dell’organizzazione. Si pensa cioè di colpire soprattutto quei giudici definiti «democratici» perché li si ritiene dotati di una maggiore capacità di analisi, più efficienti nel reprimere la lotta armata. Di Alessandrini, in particolare, si temevano intelligenza, capacità organizzativa e meticolosità nel lavoro, qualità comuni ad altri giovani giudici come Guido Galli, assassinato ancora da Pl, tredici mesi più tardi, all’interno di un corridoio dell’Università Statale di Milano al termine di una lezione di criminologia.

Quando verrà domandato ai terroristi quali sono stati i capi di imputazione della loro sentenza di morte contro Alessandrini essi citeranno l’indagine svolta contro gli operai della Magneti Marelli, sorpresi a esercitarsi con le armi a Verbania, e quindi il timore che da quell’episodio il giudice potesse arrivare alle basi di Prima Linea. Citeranno il convegno sul terrorismo svoltosi a Cadenabbia, sulle rive del lago di Como, il 20-21 gennaio 1979, e il sospetto che il giudice milanese potesse replicare nel capoluogo lombardo quello che il sostituto procuratore Calogero stava portando a compimento a Padova, cioè l’inchiesta su Autonomia Operaia.

L’IPOTESI DELLE «TALPE» ALL’INTERNO DELLA PROCURA

Sul tema risulteranno interessanti le parole rese in sede processuale da Marco Donat-Cattin: «Noi ritenevamo pericolosa la capacità di Alessandrini di portare a Milano un discorso tipo 7 aprile perché all’epoca dell’omicidio circolavano già con insistenza, anche su taluni giornali, voci relative all’inizio a Padova di una inchiesta del tipo di quella che sarebbe poi stata chiamata “del 7 aprile”. Pensavamo che se fosse incominciata a Padova qualcosa del genere, immediatamente si sarebbero avute ripercussioni a Milano perché vi era stretto collegamento tra le aree di autonomia delle due città. Poiché Prima Linea si collocava all’interno dell’area dell’autonomia (o quantomeno aveva una storia con molti punti in comune con quella dell’autonomia) certamente un’inchiesta sull’autonomia milanese avrebbe finito per coinvolgere anche Pl […]. Per quanto riguarda i sette di Verbania, […] temevamo che ripercorrendo questo loro percorso politico, partendo da Lotta Continua e via via attraverso le lotte della Marelli, inevitabilmente gli inquirenti avrebbero finito per arrivare a Prima Linea […]. Lo stretto contatto tra Alessandrini e Calogero rappresentava più che altro una nostra intuizione, nel senso che si sapeva che Calogero aveva cominciato […] un’inchiesta sull’autonomia a Padova e allora si dava per scontato, anche per l’appartenenza dei due magistrati allo stesso ambito, il contatto Alessandrini-Calogero».

Qualcuno ipotizza, a mezza voce, la presenza di «talpe» all’interno della complessa macchina della giustizia milanese. Sul punto le voci dei pentiti e anche di chi ha cercato di dare il proprio contributo alla definizione giudiziaria della complessa vicenda di Prima Linea suggeriscono due differenti tipologie di approccio. C’è chi, come Michele Viscardi, suggerisce, senza però dare certezze, l’esistenza di informatori all’interno del Palazzo di giustizia: «Quel che ho saputo mi porta a pensare che vi sia stata una qualche indicazione su Alessandrini che arrivava dall’interno […]. Ma non è questione che io abbia potuto chiarire con certezza […]. Non ho certezze né elementi di una qualche concretezza al riguardo. […] Questa peraltro è soltanto una mia deduzione».

C’è poi, sullo stesso punto, l’interessante interpretazione del concetto di «talpa» fornita da Marco Donat-Cattin di fronte agli inquirenti che vogliono capire perché sia stato ucciso Alessandrini: «Le cosiddette talpe, il più delle volte, sono in realtà le due parole che su un certo argomento vengono pronunciate con le modalità più innocenti, entrano poi in circolo e possono giungere all’orecchio di chi invece le può utilizzare a scopi delittuosi. Ciò vale in particolare a Milano e in quel periodo in cui la lotta armata attraversava moltissimi settori ed esisteva una notevole circolarità di notizie». Sul tema sembrano fungere da pietra tombale le parole di Roberto Rosso, tra i piellini uno dei migliori conoscitori del contesto milanese, secondo il quale «le notizie su Alessandrini derivano da intuizioni e da una raccolta di informazioni frammentarie. Noi non abbiamo una fonte che ci indichi determinate cose».

«È ORA DI FINIRLA. NOI DICIAMO BASTA»

Nell’ufficio del giudice vittima dell’agguato, all’interno della procura, qualcuno ha lasciato un mazzo di fiori. Forse uno dei suoi amici, magistrati e segretari che alla notizia sono scoppiati a piangere. Anche i cronisti, che pure ne hanno viste di tutti i colori durante i terribili anni Settanta milanesi, sembrano scossi. «Era uno dei pochi a cui si dava del tu», dicono. Chi invece non lo conosceva direttamente, lo ricorda come un
uomo schivo, modesto, amante di un basso profilo costantemente tenuto nella vita di tutti i giorni. Nei pochi momenti lasciati liberi dal lavoro, Alessandrini voleva sempre la compagnia di suo figlio. Il suo lavoro, la sua famiglia e basta. Non era un fanatico della giustizia, un giudice da sentenze esemplari, anzi spesso era il primo a stupirsi degli intrighi e delle trame che lui stesso scopriva all’interno degli apparati dello Stato. Ogni tanto qualche collega gli prestava l’auto per camuffarsi. Sapevano tutti che era nel mirino e lo aiutavano in questo modo. Poche ore dopo l’omicidio, i giornali milanesi del pomeriggio sono già andati a ruba. Non se ne trovano più.

«È ora di finirla. Noi diciamo basta. A Milano non si può più vivere. Non si può più vivere in pace» è ciò che si sente dire dalla maggior parte delle persone nei pressi dell’abitazione del magistrato. Un segnale quasi recapitato ai terroristi, la spia di una sconfitta imminente.