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Vatican Girl: tra effetti speciali e inediti sottratti, un’occasione sprecata per far luce sul caso Orlandi

Tommaso Nelli

Alla luce delle quarantennali reticenze, è sicuro che Emanuela Orlandi sia un nome ingombrante per il Vaticano. Però non nei termini della serie “Netflix” che, a parte un primo episodio nel quale si offre qualcosa della vittima, deraglia verso il sensazionalismo, riciclando piste arcinote e senza sbocchi

Per dare lustro a Vatican Girl, la sua docuserie sulla scomparsa di Emanuela Orlandi, “Netflix” ha dovuto presentare come inedita una notizia che non lo è. O meglio. Lo è per Atto di Dolore, libro del sottoscritto sul caso della cittadina vaticana, uscito nel 2016, nel quale si racconta per la prima volta al pubblico la confidenza ricevuta da un’amica di Emanuela Orlandi riferita a un incontro ravvicinato tra quest’ultima e un alto ecclesiastico nei Giardini Vaticani pochi mesi prima della sua scomparsa.

Fu chi scrive a trovare quella persona durante le sue ricerche sul caso, per cui affermare che nella serie parli per la prima volta, come fatto dall’intervistatrice e da lei stessa, è vero tanto quanto “Ruby nipote di Mubarak”. Difforme dalla realtà anche la temporalità della confidenza, collocata una settimana prima della sparizione di Emanuela quando invece avvenne a inizio 1983.Verso febbraio-marzo, era inverno” mi disse questa donna nella nostra conversazione, registrata, del 24 settembre 2014. Quando specificò anche il suo silenzio su quella rivelazione: “Questa è rimasta sempre con me e fine”.

IL BINARIO MORTO ALÌ AGCA

Il manifesto affisso nel 1983 per le strade di Roma poco dopo la scomparsa di Emanuela Orlandi

Spostare questo episodio a ridosso del 22 giugno 1983 innalza il livello di suggestione del pubblico per una storia riproposta dal 2016, cioè da dopo la definitiva archiviazione dell’inchiesta giudiziaria sul caso da parte della Corte di Cassazione, secondo l’ormai consunto canovaccio dell’ “orlandeide” apocalittica e lacrimevole. Trame diaboliche, poggiate su testimoni o notizie inattendibili e ordite da regie rigorosamente occulte, opposte alla sorte sventurata di una brava-bella-e-buona quindicenne di umili origini. Una miscellanea dal forte impatto emotivo che produce un’immediata, umida e visibile partecipazione dello spettatore, indotto a credere che tutte le forze malvagie del pianeta si siano coalizzate all’improvviso per perpetrare crimini indicibili su quell’innocente, con la quale scatta immediato il processo di identificazione perché allegoria della propria figlia o di quella di un amico o di un conoscente.

Denominatore comune di questa narrazione, dove il complotto aleggia costante, il rimando al Vaticano. E infatti in Vatican Girl c’è molto Vatican, ma ben poca Girl. Ora, alla luce delle sue quarantennali reticenze, poco ma sicuro che Emanuela Orlandi sia un nome ingombrante per le Mura Leonine. Però non nei termini della docuserie di “Netflix” che, dopo un primo episodio meritevole perché offre qualcosa della vittima (tipo la sua cameretta), deraglia poi verso il sensazionalismo, riciclando piste arcinote e senza sbocchi. E così ecco il terrorismo internazionale con l’ennesima passerella delle elucubrazioni di Emanuela rapita in nome di un ricatto politico al Vaticano che, per averla indietro, avrebbe dovuto liberare Alì Agca, l’attentatore di Giovanni Paolo II. Un binario morto già nei termini — il turco fu condannato dalla giustizia italiana e non da quella di Oltretevere — e smantellato dai giudici da venticinque anni. Dunque, perché riparlarne quando di anni, dal dramma Orlandi, ne sono passati ormai quaranta?

LE FARRAGINOSE DICHIARAZIONI DI SABRINA MINARDI

Dai Lupi Grigi ai personaggi da romanzo. Spazio quindi a Sabrina Minardi, che rielabora le inverosimiglianze già rese agli inquirenti e poi da questi sconfessate: Emanuela Orlandi rapita da Enrico De Pedis, uno dei capi della Banda della Magliana, per ricattare lo IOR di monsignor Paul Casimir Marcinkus, reo di non aver restituito ingenti quantità di denaro prestato dalla Banda per conto della mafia siciliana. Una tesi costruita sulle verbalizzazioni dell’ex amante di “Renatino” – tra l’altro ignara del movente: Io la motivazione esatta non la so” disse in Procura il 4 giugno 2008 – del tutto illogica nei presupposti, Emanuela non era la figlia di un laico delle finanze o di qualche papavero vaticano, ma soprattutto contraddetta dagli stessi racconti della donna. Perché se Emanuela Orlandi fosse stata sequestrata per mettere sotto scacco la banca vaticana, Marcinkus mai sarebbe andato a violentarla nella casa di Torvajanica di proprietà dei genitori della donna dove, sempre a detta sua, la ragazza sarebbe stata tenuta inizialmente prigioniera. Non si è mai visto, infatti, il destinatario di un ricatto esserne anche il beneficiario. E sempre per lo stesso motivo Minardi mai avrebbe consegnato la quindicenne a un prelato, che l’avrebbe attesa al distributore interno al Vaticano (dove non sarebbe potuta entrare senza autorizzazione), dopo averla ricevuta in affido da De Pedis al Gianicolo. Un racconto che fa capire ancora meglio la sua inattendibilità.

Nella docuserie, come in Procura, dice che quella fu la prima volta che vedeva Emanuela, tanto da riconoscerla soltanto dallo specchietto retrovisore dell’auto perché il suo volto le avrebbe richiamato quello dei manifesti affissi in quelle settimane per Roma. Al punto che, ritornata da De Pedis, lo avrebbe affrontato senza mezzi termini: Ma in che casino m’hai messo?!?”.Sabbrì, è tutto un gioco de’ potere, lo capisci questo?!” sarebbe stato lo scambio di battute fra i due. Si rileva come questa versione differisca da quella resa alla Squadra Mobile di Roma il 19 marzo 2008: “‘Oh! Che mi hai fatto fare? Chi era quella ragazza?’ Dico: ‘io l’ho riconosciuta! Quella è Emanuela Orlandi!’. E lui mi ha detto: ‘vabbè, seppure l’hai riconosciuta, fai finta che non l’hai vista’”. Ma poi soprattutto ci si deve domandare perché mai Sabrina Minardi in quel momento avrebbe dovuto riconoscere, o meravigliarsi, che quella ragazza fosse Emanuela Orlandi, se l’aveva già vista rinchiusa nella casa dei suoi genitori a Torvajanica.

Un particolare, quest’ultimo, che agli inquirenti non menzionò né all’alba delle sue dichiarazioni (Squadra Mobile, marzo 2008) e né quando erano già alte in cielo (Procura, giugno 2008), bensì soltanto al tramonto di quell’anno (ottobre). Quando ancora mancava la prima parte della “storia”, cioè come Emanuela fosse arrivata alla casa di via Antonio Pignatelli sulla Gianicolense, dove sarebbe stata tenuta prigioniera prima del trasporto al vicino colle del Gianicolo. Un episodio che ritorna anche in Vatican Girl, ma che conferma la farraginosità della donna, che dichiarò come Orlandi fosse stata tenuta prigioniera nei sotterranei di quell’abitazione. Sennonché fu smentita dalla perlustrazione di quegli ambienti col georadar, metal detector fibroscopio e luminol da parte della Polizia Scientifica, che non rilevò la minima traccia della giovane. Inevitabile a questo punto chiedersi se la produzione di Vatican Girl abbia letto il decreto di archiviazione del Tribunale di Roma dell’ottobre 2015: Emergono dunque in tutta evidenza le contraddizioni e le inverosimiglianze che hanno caratterizzato le dichiarazioni della Minardi”.

ENTRA IN SCENA MARCO FASSONI ACCETTI

Però in uno storytelling votato allo spettacolo il personaggio della “pupa del boss” ha un senso. Al pari di un cineasta amatoriale dall’eloquio forbito, che nel 2013 si presentò alla Procura di Roma autoaccusandosi del sequestro di Emanuela Orlandi. Un biglietto da visita che dice molto, se non tutto, di Marco Fassoni Accetti, che davanti alle telecamere di Vatican Girl si è addirittura presentato come colui che modestamente ha creato il caso Orlandi”. Volto travisato, perché il pubblico è molto ingenuo e allora colui che invece si presenta, per qualunque motivo, viene visto sotto il sospetto di voler apparire”, a renderlo un epigono del subcomandante Marcos, Accetti ha riproposto le sue sgangherate tesi di Emanuela rapita in nome di una guerra tra fazioni cardinalizie all’ombra del Cupolone. Il Vaticano quindi non più epicentro di un ricatto esterno (il terrorismo internazionale) o economico (Banda della Magliana) bensì interno (le lotte dentro la Curia). Anche qui, come con i magistrati, Accetti non offre riscontri alle sue parole e non sfoggia certo sensibilità verso il dolore, sostenendo nuovamente che lui ed Emanuela avrebbero addirittura passeggiato assieme per la Capitale durante la sua prigionia. Scorrono di nuovo le immagini del flauto che consegnò in Procura come quello della ragazza, salvo poi essere smentito dall’esame del dna sullo strumento, e dopo sessanta minuti viene fatto uscire di scena come persona non credibile. E allora perché dedicargli un intero episodio?

Da accantonare anche le allusioni al Vaticano dell’ultimo episodio, tutte originate dalle fake news uscite sul caso Orlandi negli ultimi sei anni. Per la telefonata dei presunti rapitori alla sala stampa della Santa Sede arrivata la sera della scomparsa, secondo quanto detto da monsignor Carlo Maria Viganò nel novembre 2019, si cita nuovamente padre Romeo Panciroli, all’epoca portavoce di Oltretevere, come immediato destinatario dell’informazione. Sennonché il reverendo il 22 giugno 1983 era in Polonia al seguito del viaggio pastorale di papa Wojtyla. E le tombe di due principesse del Cimitero Teutonico situato in territorio vaticano, nelle quali vi sarebbero state le spoglie di Emanuela Orlandi in base a una lettera anonima che invitava a guardare dove indicava la statua dell’angelo presente nel piccolo camposanto, non potevano che svelarsi nella loro vuotezza quando furono aperte nel luglio 2019. Perché accusare il Vaticano di un misfatto, chiedergli verifiche in casa e sperare di trovare le prove della sua colpa, è un saggio di ingenuità o di acume investigativo da cartoni animati. Infine, è il turno della nota spese che il Vaticano avrebbe sostenuto fino al 1997 per tenere in vita Emanuela Orlandi. Cinque pagine farcite di errori e prive di crismi di ufficialità buone per essere bollate, anche secondo alcuni esperti, come una patacca.

Ma allora perché non dare spazio a notizie più concrete? Perché alla sostanza Vatican Girl ha preferito la forma, che ammalia l’utente, lo spinge a credere che Emanuela Orlandi sia stata vittima un po’ di tutti questi intrighi e fa cassetta. Per la gioia di tutti quelli che vi hanno lavorato, un po’ meno (ma molto meno) per chi invece vuole la verità, che mal si sposa con narrazioni filmiche destinate al pubblico di massa. Iperboli narrative non corrispondenti alla realtà, come “l’Italia intera” che assisté al confronto tv del 17 settembre 2013 tra Accetti e il fratello di Emanuela Orlandi a Linea Gialla quando invece la puntata ottenne il 2.35% di share (il penultimo della storia del programma, che chiuse pochi mesi dopo per i bassi ascolti), e qualche errore come le telefonate del cosiddetto Amerikano, che non si fermarono al 1983 bensì proseguirono come dimostrato da quella a casa di Gabriella Giordani (amica di Emanuela) nell’aprile 1984, hanno poi allungato un minestrone nel quale c’è molto poco dell’ingrediente principale: la Girl.

NESSUNA DISAMINA DELLA PERSONALITÀ DI EMANUELA ORLANDI

Di fatto, Emanuela Orlandi è la grande assente della docuserie a lei dedicata. Sul suo conto ci si limita allo stretto necessario: cittadina vaticana, dove viveva con la famiglia da due generazioni al servizio dei Papi, brava ragazza legata alle sorelle e al fratello, e amante della musica che studiava presso una scuola del centro di Roma dalla quale, in una sera di inizio d’estate, venne via senza però fare più ritorno a casa. Fine.

Nessuna disamina della sua personalità, di quei pregi e difetti comuni a ogni essere umano, nessuna esplorazione dei suoi universi sociali, nessuna domanda se tra questi vi fosse qualche agnello travestito da lupo, visto che quel 22 giugno 1983 lei seguì una persona che conosceva, di cui si fidava e con ogni probabilità legata al suo ambiente di provenienza. Perché Emanuela Orlandi non fu rapita. Ma questo Vatican Girl non lo dice. Tanto che non indaga nemmeno il cuore del suo enigma: l’uscita dalla “Da Victoria”, cioè il luogo e il momento nei quali si persero per sempre le tracce. Esclusa la telefonata a casa per riferire dell’offerta di lavoro ricevuta quel pomeriggio mentre andava a lezione, sulla quale però si generalizza l’orario (Tra le 17 e le 19″ dice la sorella Federica) quando invece avvenne “verso le ore 19” (Natalina Orlandi, denuncia di scomparsa, 23 giugno 1983), non si fa manco un cenno alla persona più importante di tutto l’affaire di Emanuela, di cui vi abbiamo parlato anche nelle nostre dirette: una sua compagna della scuola, l’ultima a vederla prima che sparisse, mai identificata dagli inquirenti nonostante ci fosse riuscita Suor Dolores, la direttrice della scuola. Come mai? Una domanda che sarebbe stata da porre al Capitano dei Carabinieri Mauro Obinu, invece di assillarlo sul finto “uomo Avon”, visto soprattutto quanto scritto dal SISDe, il nostro servizio segreto civile di allora, in un appunto del 30 luglio 1983: All’uopo il Reparto Operativo dei CC procederà ad una ricognizione fotografica allo scopo di identificarla”.

Ci saremmo attesi che questa docuserie denunciasse questo e altri buchi neri del caso Orlandi e facesse conoscere al grande pubblico risvolti determinanti per la sua soluzione. Sarebbe stato un servizio alla collettività, ma soprattutto un atto di giustizia, di verità e di amore nei confronti della stessa Emanuela. E invece Vatican Girl è un altro insipido polpettone di già visto e sentito, buono più per pance mai sazie di effetti speciali che per palati affamati di informazione. Al punto che per speziarsi di interesse si è dovuto appropriare indebitamente di un inedito di Atto di Dolore. Beh, che dire? Un’occasione sprecata.